INTERVENTI - 1


Cristiano Mattia Ricci
Con fare editoriale

Ogni tanto, un editoriale va fatto; si prova qui a mimarne i movimenti.
Si può fare anche per ritrovare meglio e per un attimo il punto del discorso. Come se si trattasse di un giornale o una rivista, magari d’avanguardia.
Che belle quando c’erano, le riviste d’avanguardia; quando avevano un senso.
Oggi, che ridere, spesso quando una rivista è d’avanguardia semplicemente sceglie un periodo della storia delle avanguardie a cui riferirsi. Come da catalogo: gli anni Dieci, Venti, Trenta, Quaranta, Cinquanta, Sessanta, Settanta, Ottanta del Novecento...
Un editoriale è questo, con poche parole e fatto di poche cose da dire o scrivere per l’appunto; come da tradizione.
Questo progetto, pure stanco, avanza e non si sposta neppure oggi di un millimetro dai suoi presupposti.
Un editoriale è anche e sempre l’insieme dei contenuti del sito-rivista.

INCONTRI
Ho avuto voglia di scrivere precedentemente che Il Cerchio Azzurro è i miei incontri e gli incontri di chi con me ha partecipato e partecipa di questa esperienza.
In verità, per qualche tempo ho creduto che questo luogo fosse un’opera d’arte concettuale di un artista, come me, per nulla concettuale. In altre parole, un diario dove gli altri avrebbero potuto raccontare la mia vita; attraverso la loro.
E’ un’ipotesi che ho ritenuto suggestiva per qualche tempo; poi, non molto dopo, ho ritenuto la vita degli altri importante quanto la mia e quindi degna prevalentemente di raccontare se stessa. Intanto, Il Cerchio Azzurro è fuori; ben definito ai margini. Ed è un luogo di ricerca e di incontro.

PREFERENZE
Qui non è gradito chi ha successo, chi è troppo preso da richieste editoriali o di altra natura. Qui è gradito chi ha qualità e possibilmente, o qualche volta, di successo manca.
Qui è gradita ogni forma di eclettismo e persino di alto dilettantismo creativo.
Qui è gradito chi si occupa di più cose, confuse insieme, e chi non riesce a capire di cosa vuole occuparsi.
Soprattutto è gradito chi di pensiero si logora e arrovella; chi è prolisso, chi pratica magnificamente, con perversione, le arti della masturbazione mentale.
Chi qui si trova, in un altro momento storico sarebbe stato considerato un intellettuale.
Adesso l’intellettuale vende tanti libri, conosce tante cose e va in televisione; qui non si sanno molte cose e neppure si conosce molto la televisione; si cerca di dimenticarla.
Qui è molto gradito chi è fuori moda; non per moda. Chi neppure sa di esserlo. Chi non conosce cosa siano le mode e dunque ama stargli lontano.
Quando dico moda ovviamente mi riferisco alle mode culturali; quelle legate agli abiti, neppure si prendono in considerazione.

UN LUOGO PICCOLO PER L’EROTISMO
Detto questo, si deve aggiungere che Il Cerchio Azzurro è un luogo piccolo, molto piccolo; meglio dire una curiosa forma di “caccola”. Analogo è chiunque crede di essere qualcosa di più; quindi una libera e consapevole caccola ricca di energie vitali e salute.
Un blog dove spesso le persone capitano per caso, alla ricerca di una parola assurda o di una poesia, sull’amore o altro. Altre volte capita persino chi cerca su Internet materiali sull’erotismo; e questo mi fa comunque piacere.
In fondo chi vive questa passione per la cultura e la creatività vive sempre un’altra forma di erotismo. Il Cerchio Azzurro è con l’erotismo. Un buon quadro, o un autore sconosciuto, talvolta possono attivare altre forme di libido, con una dinamica quasi erotica.
Io credo infatti che la cultura ecciti la mente.
Altre volte è un luogo dove chi viene pubblicato, attraverso i motori di ricerca, cerca se stesso. Con ossessività si cerca nello spazio virtuale; stanco della vita cerca un riconoscimento al suo bel sogno. Un luogo di rassicurazione personale, dove ritrovare le migliori parti espressive di sè; quelle che per prime si autoriconosce.
EPHEMERA, IL SAPONE E LA POESIA SENZA LETTERARIETA’
In aprile, dopo molto tempo, Il Cerchio Azzurro è tornato in campo con delle serate reali a base dei suoi ingredienti preferiti come la poesia, l’arte visiva, ecc. E’ nata infatti Ephemera #01; una serata reale, ancora piccola, dove si sono analizzati argomenti che ci stanno a cuore e dove alcuni artisti visivi hanno esposto i loro lavori. Prepareremo in seguito una ricca carrellata di immagini fotografiche e il programma della serata; forniremo i dati del progetto.
Abbiamo ricominciato con molta prudenza, cercando di dare il giusto peso alle cose.
Il tema principale della serata era inerente la fiaba; abbiamo anche rivisitato alcuni dei contenuti poetici del Cerchio Azzurro.
Ringraziamo per la preziosità dei loro contributi tutte le persone che ci hanno aiutato a trovare nuovamente l’entusiasmo per questo genere di appuntamenti, che nella nostra particolare accezione divengono fuori moda. Se la voglia di raccontare ciò che amiamo continuerà a rinnovarsi, troveremo i giusti spazi e tempi per continuare con questo progetto. Ephemera è una serata-tipo; riproducibile pure con nuovi contenuti, in ogni luogo; è un progetto senza date e scadenze; senza una programmazione costante.
Ogni appuntamento affronterà prevalentemente un argomento. Con queste serate si potrà uscire dai contenuti prevalentemente raccolti nel blog. Lo stesso tema della fiaba è inedito rispetto a ciò di cui sinora ci siamo occupati. Le Ephemera, se continueranno a nascere, potranno affrontare liberamente qualsiasi argomento, anche di natura non artistica. Un'idea extra, come una saponetta con un odore differente da quelle più consuete.
A proposito di saponette (F. Ponge) e tornando ai nostri luoghi più usuali, voglio ringraziare Alessandro Manitto per la sua bella scelta di poeti americani contemporanei, di cui sul Cerchio Azzurro abbiamo iniziato a pubblicare le sue traduzioni, oltre ai brevi saggi introduttivi.
Avevamo infatti bisogno di tornare alla poesia, a un suo approfondimento. In particolare, di uscire da un clima poetico di natura esclusivamente italiana.
In Italia ci sono molti bravi poeti, ma spesso troppo letterari; spesso senza ironia, spesso senza immagini, spesso senza poesia. I poeti che qui presentiamo ci sembrano indicare strade per una creatività diversa.

INCUBI E DIVAGAZIONI
Evito di soffermarmi a raccontare come in questi dieci anni abbiamo visto il mondo circostante cambiare; chi passa da queste pagine, probabilmente, lo ha visto cambiare con i nostri stessi occhi. Di sicuro noi siamo tra quelli che molto soffrono della attuale realtà del nostro paese (*); speriamo che l’ "incubo-Berlusconi” riesca a smaterializzarsi, e vorremmo insieme a tanti altri che la corruzione politica nella nostra società si dileguasse.
L’attualità di questo momento in cui scrivo è contrassegnata da un gravissimo terremoto in Giappone e dai conseguenti maremoti; è una cosa scientificamente spiegabile ma incredibile per noi esseri umani. Migliaia di storie spezzate in pochi minuti; e così molte delle nostre certezze. In Egitto e Tunisia, sembra che la rivoluzione sia partita dal basso, dai giovani e dalle nuove generazioni che anelano a una maggiore libertà. Per noi italiani, schiavi di questo vecchio puttaniere miliardario, è davvero incoraggiante. In un certo senso viene da pensare che questi giovani, nonostante tutto meno fortunati di noi, siano migliori di noi e un esempio da seguire. Ma qui da noi, il potere dei soldi è più forte anche del potere dei sogni. I nostri poveri non sognano un mondo migliore; sognano solamente di essere ricchi.
Noi invece siamo tra quelli che sognano un mondo migliore, non di essere ricchi. Questo almeno come principio chiaro di base.

(*) Ora, che mi riscrivo sopra, passato qualche mese, qualcosa è ancora cambiato in Italia.
Milano, città distrutta dalla bruttezza umana di chi l’aveva governata, città di ideali bassissimi, di speculazione esagerata, di potere smisurato e corruzione; città non più in grado di esprimere sogni e dove il peso di una cappa di malessere era rintracciabile ogni giorno sulle teste delle persone normali, sta iniziando a liberarsi.
Ha vinto la campagna elettorale Giuliano Pisapia; finalmente, un attrezzato sognatore!
Ed ora, cazzo, manderanno all’aria i piani di governo del territorio delle giunte precedenti.
Come se non bastasse, dopo il Paese intero ha, con i referendum, bocciato in toto le politiche del governo. C’è insomma un’aria diversa, che ci fa sentire più vivi e partecipi.

IL CERCHIO AZZURRO IN BATTAGLIA E’ UN CIRCOLO PER PESCATORI
Che importanza può avere una rivista come la nostra in un mondo come questo, con gli assetti globali che si spostano, le incredibili tragedie vissute e le poche ma buone battaglie per la libertà?
Il Cerchio Azzurro anche è una battaglia; piccolissima e costruita con poco.
Una pacifica battaglia realizzata da alcune di quelle persone che praticano e amano l’arte in un paese che ama prevalentemente il successo e i soldi. Una nicchia di persone che hanno continuato a sognare anche in questi tempi difficili.
Scrivere, dipingere, “architettare” o musicare, non per diventare famosi, è qualcosa di molto diverso dalle più diffuse pratiche, anche creative. Un’attitudine indubbiamente originale.
Che poi non è una questione di moralità; penso che le arti non abbiano solo scopi edificanti e costruttivi per una società. Spesso le arti distruggono; e guardano diverso, di traverso o con gli occhi storti. Possono insultare l’esistente, come molte volte è stato fatto; ma di certo, allargano le possibilità della visione della realtà, arricchiscono la nostra interpretazione delle cose. Spingono oltre i nostri limiti.
Il Cerchio Azzurro è anche un luogo per darci importanza, senza pietismi; un circolo di vecchi e nuovi pescatori, per dare rilievo ad alcune delle migliori esperienze della nostra vita.

ARCHEOLOGIE PER IL FUTURO
Quando si scrive, si possono anche scrivere cazzate; la possibilità è ovunque data.
Con questo spirito intendo continuare queste ultime poche e poco auliche righe di congedo.
E’ un pensiero, una forma di dubbio; un’insicurezza; perché le insicurezze e i dubbi sono parte importante del nostro vivere quotidiano.
Questo per introdurre e fare ammissione di insicurezza; questo anche per omaggiare l’insicurezza di quel grande artista e scrittore che è stato Ettore Sottsass. Questo anche per ricordare con quale qualità del dubbio, quel genio che è stato Jorge Eielson mi mostrava le sue opere. Jorge diceva che non era sicuro che potessero piacere; esprimeva così un dubbio che arricchiva esponenzialmente tutto il suo meraviglioso lavoro.
A volte però diceva che attraverso le opere avvengono gli incontri più importanti tra le persone; altre volte mi sembrava invece sicuro che il suo lavoro avrebbe continuato a viaggiare oltre la sua vita. Sottilmente lasciava intendere che quelle sue bellissime cose avrebbero continuato il loro viaggio per moltissimo tempo dopo di lui.

CARTE D’IDENTITA’
Il Cerchio Azzurro è anche un modo di documentare una realtà, la nostra.
Io credo che queste pagine, queste interviste, questi testi poetici e interventi saggistici, in un futuro in cui noi non ci saremo più contribuiranno a ricostruire una storia comune e molte storie individuali. Noi, insieme ad altre realtà analoghe, forniremo le tracce per riscoprire queste esperienze meno conosciute, ma vitali, di arte e di vita del nostro tempo.

ARCHITETTURA E SPERANZA
Per concludere, e spero coerentemente, con il nostro anelare a una splendida forma di caos creativo e mentale, desidero pubblicare alcuni miei progetti di para-architettura e similari. Perché l’architettura è una cosa meravigliosa, come molte persone sanno e poche sperimentano. E’ però una disciplina che difficilmente si riesce a praticare, e spesso chi riesce a praticarla è semplicemente più furbo e non bravo. Io ad esempio, che non sono furbo, riesco solamente a immaginarla. E poiché questi progetti si avvicinano molto all’appunto e alla parola scritta, e poiché ancora molte forme di sogno vanno a convergere, oggi spero che con queste immagini e suggestioni io possa in qualche misura contribuire alla costruzione di un sogno più grande che tutti noi, appassionati delle arti e della vita, avvolge.

20 luglio 2011

Nicola Vitale

POLEMICA SUL PADIGLIONE ITALIA DELLA 54° BIENNALE DI VENEZIA

L’arroventata polemica sulle modalità e sulla scelta degli artisti invitati al Padiglione Italia della Biennale di Venezia dal curatore Vittorio Sgarbi, rivela un profondo cambiamento in atto nel panorama dell’arte visiva di oggi. Se guardiamo le cose da un punto di vista generale che implica le maggiori problematiche sollevate in vari ambiti culturali ormai da decenni, la questione si rivela in modo più semplice di quello che appare, direi un decorso “naturale” delle cose.
Sgarbi, delegando la scelta degli artisti al mondo della cultura, in contrasto con la tradizione della Biennale che vuole curatori “specialisti” del settore, non ha fatto altro che un gesto di “universalizzazione” del problema del valore dell’arte, pur con tutti i limiti e azzardi che questo comporta. Il mondo dell’arte contemporanea, da quando è sorto negli anni Sessanta, è stato tendenzialmente chiuso in se stesso. Rifiutando per ragioni ideologiche il piacere del “bello” ha negli anni selezionato artisti, critici e operatori che non percepiscono la bellezza come essenziale all’arte stessa. Ma al di fuori di questo ambito vi sono moltissime persone di ogni estrazione sociale e livello culturale (forse la maggioranza) che sentono istintivamente il contrario. Queste questioni sono da tempo discusse in vari ambiti culturali: si sta diventando sempre più consapevoli che la percezione del bello sia per l’uomo indispensabile per ritrovare la sua essenza profonda. Su questa strada in effetti stanno da tempo tornando le altre arti dopo un periodo di sperimentazione: Poesia, Narrativa, Danza, Musica e Teatro, e in primis il Cinema che non potrebbe distaccarsi da una modalità estetica più universale, pena l’impossibilità di distribuzione, e dunque di sopravvivenza. Lo sperimentalismo estenuato, la ricerca di un linguaggio, che vuole l’arte innanzitutto prodotto intellettuale, si scontra oggi con la necessità impellente dell’uomo di ritrovare l’unità della coscienza, in una fase in cui si trova profondamente scisso, gravato da scompensi psicologici e psichici che sono sotto gli occhi di tutti. D’altro canto le ideologie antiestetiche stanno oggi perdendo consistenza: la censura al piacere del bello, come evasione da una realtà problematica, si sta rivelando sempre più un equivoco, in quanto il “bello” non è mai stato “evidente”, facile da percepire e da riconoscere, ma implica un percorso di conoscenza dove il “piacere” (come segnale che guida l’uomo all’essere) è differenziato e coltivato, voltandosi nel suo contrario: “dispiacere” verso tutto ciò che non attiene all’essenza: strada cosparsa di spine, iter difficile di trasformazione, di riunificazione dell’uomo. Tuttavia questa polemica perde peso quando viene mossa da un sistema dell’arte che ha ricostruito al suo interno le medesime strutture speculative della società che contesta, come ci descrive l’economista Donald Thompson nel suo libro Lo squalo da 12 milioni di dollari.
I nodi vengono al pettine: il mondo dell’arte contemporanea dunque oggi per svecchiarsi e sopravvivere non potrà far altro che confrontarsi con il mondo della cultura in primo luogo, e quindi col pubblico che semplicemente ama l’arte.

NOTA

Nicola Vitale, poeta e pittore, è nato a Milano nel 1956. Come poeta ha pubblicato sull’Almanacco dello Specchio (Mondadori, 1987 e 2005), è presente nell’antologia a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi Poeti italiani del Secondo Novecento (Mondadori, 2004), e ha pubblicato le raccolte La città interna, Primo Quaderno Italiano Poesia contemporanea (Guerini e Associati, 1991), Progresso nelle nostre voci (Mondadori, 1998), La forma innocente (La collana, Stampa, 2001), Condominio delle sorprese (Mondadori, 2008).
Come artista visivo ha esposto in mostre personali e collettive, in spazi pubblici e gallerie private, in Italia, Svizzera, Islanda e Stati Uniti. Hanno scritto del suo lavoro Pierre Restany, Rossana Bossaglia ed Elena Pontiggia.


Pablo Echaurren

Sognavo di fare il bassista

Quand’ero ragazzetto sognavo di fare il bassista. All’epoca l’Italia era una landa desolata. Non c’erano i video, i negozi specializzati, le tv e le radio libere, solo qualche risicato servizietto su giornaletti per kretinetti pedicellosi.
Il rock era considerato roba sospetta, musica da sottosviluppati, pericolosa eccitazione da non solleticare.
Ogni cosa che lo riguardava veniva sbeffeggiata dai media.
Per lo più restava ammantata del più fitto mistero. Come ogni divinità che si rispetti. Circolavano scarse informazioni, confusi brusii, voci incontrollate, boati. I dischi tosti venivano introdotti nel nostro paese da indomiti borsari neri che facevano la spola con i paesi sopra sviluppati. E sulle loro copertine noi ricamavamo.
Quando mi capitava per le mani una foto degli Stones non mi soffermavo tanto su Mick, su Keith, su Brian o su Charlie, ma mi incantavo su Bill, il meno bersagliato dalle attenzioni delle fan. Il più sfigato, si sarebbe potuto pensare. Il meno amato. Non per me che lo vedevo come il più affilato e il più cazzuto dei cavalieri solitari. Di quelli che in silenzio e senza troppe manfrine reggono i destini della loro gente.
Bill era un possente ronzatore, un rotore, un concentrato di forze primordiali. Ogni vibrazione del suo quattrocorde era una scossa tellurica, evocava muggiti ancestrali, suscitava bramiti elettrificati capaci di far vibrare ogni cosa nel raggio di qualche metro dal mio modesto giradischi. Bill emaciato, stazzonato, avvinghiato al suo strumento era il monumento all’insoddisfazione (I can’t get no satisfaction).
Impassibile, imperscrutabile, con quell’aria precocemente invecchiata, concentrata sul giro di basso e distaccata dalla baraonda che circondava la band mi riconciliava con la mia introversione, con la mia scarsa predisposizione a socializzare, con la mia umbratile condizione di isolato.
Dapprima mi procurai un Framus usato (Bill usava il Framus per l’appunto), poi lo permutai con un Hofner a violino come quello montato di serie da Sir Paul McCartney. Mi atteggiavo, mi pavoneggiavo, mi credevo. Ma ero una schiappa. Ero un ante-punk e me ne fregavo altamente continuando a stonare a tutt’andare. I vicini hanno dovuto subire per anni senza protestare altrimenti gli alzavo il volume e li facevo tutti secchi.
Infine, svenandomi e separandomi dalla mia robusta collezione di francobolli dello Stato Pontificio, mi comprai un signor Precision. Credevo che un Fender avrebbe fatto di me uno scafato musicista. Restavo una sega totale. Per fortuna qualcuno mi convinse che la mia strada sarebbe stata un’altra. Appesi il basso al chiodo e amen, non ci pensai più. Per decenni.
Fin a quando mia moglie, in vena di scherzi da prete, mi regalò un nuovo Precision risvegliando in me la bestia che ronfava. Da quel giorno non ho più smesso di inseguire un desiderio troppo a lungo rimosso.
Ma non avrei potuto fare un passo se non ci fosse stata la lezione ramone a guidarmi. 3x2, come ai super discount. 3 accordi x 2 minuti. Dum-dum-dum-dummmm. Dee Dee rules. Senza il suo elementare martello la mia chiave di basso si sarebbe infranta contro lo scoglio della dura realtà. Realtà che ribadisce che sono una sega ma non per questo impedisce che riesca a suonare una cinquantina buona di muzika ramona.
Hey-ho let’s go!

P.S. Mi preme di sottolineare un’ultima cosa sulle convergenze astro temporali e in particolare sul fatidico 1951. In quell’anno nacque il basso (per intuizione e invenzione di Mr Leo Fender), nacque anche il miglior bassista del mondo (Jaco Pastorius) e nacqui io, il peggior bassista dell’universo.

NOTA

Figlio del pittore surrealista cileno Sebastian Matta, espone i suoi quadri in Italia e all'estero, realizza numerosi fumetti di avanguardia come
 Caffeina d'Europa, Nivola vola, Futurismo contro, Vita disegnata di Dino Campana, Evola in Dada, Vita di Pound, Dada con le zecche.
È l'autore della celebre copertina del romanzo
 Porci con le ali, ma negli anni Settanta ha disegnato molte copertine per altri romanzi, editi soprattutto dalla casa editrice di estrema sinistra Savelli. Ha collaborato con Lotta Continua e in seguito con le riviste LinusFrigidaireTangoComic Art, Alter Alter. Il suo tratto e la sua estetica sono stati molto influenzati dal futurismo (dei cui libri è un grande collezionista). È anche autore di numerosi saggi e romanzi.
Una sua antologica (
Dagli anni Settanta a oggi) si è tenuta al Chiostro del Bramante a Roma (2004) mentre le opere più recenti sono state proposte in una personale presso l'Auditorium Parco della Musica di Roma (2006) e nella mostra Pablo a Siena presso i Magazzini del Sale (2008). Nel 2009 il MIAAO (Museo Internazionale di Arti Applicate Oggi) di Torino ha deciso di celebrare il centenario del futurismo con una mostra incentrata sul suo lavoro.
Appassionato di bassi elettrici, nel 2009 espone la sua collezione di strumenti d'epoca e tele ad essi ispirate all'Auditorium Parco della Musica in una mostra dal titolo
 L'invenzione del basso. Nel 2010 la Fondazione Roma Museo, per celebrare gli oltre quarant'anni di lavoro, gli dedica un'ampia antologica dal titolo Crhomo Sapiens. Quasi in contemporanea, nel 2011, al Macro di Roma, viene presentato il ciclo Baroque'n'Roll, una serie di edicole semisacre in ceramica dedicate alla passione per il basso elettrico.
Pablo Echaurren è sposato con Claudia Salaris.
(http://it.wikipedia.org/wiki/Pablo_Echaurren)

Paolo Albani

Il gioco non è che un gioco. E il giocare ci mette in gioco con le sue opportunità. Anche quando si gioca per davvero, obbedendo alla serieta' del gioco che è spesso molto superiore alla serieta' della vita, il senso della leggerezza, dell'inatteso dell'incoscienza e dell'assenza di giustificazioni libera il partecipante nella sola passione imprevedibile dell'atto. E tanto più è il gioco applicato al verbo e al senso che libera la significazione nella probabilità del dubbio e della scoperta di intese insospettabili. La scrittura e il gioco delle ricerche di Paolo Albani non mirano alla stabilità, e al minor dispendio di energie possibile, piuttosto evadono da ogni disciplina e da ogni forma di sapere, sfuggono all'accademismo e al dilettantismo perchè il suo autore si prende dei rischi che ne' lo studioso ne' il geniale autodidatta sono soliti assumersi, quelli dell'azzardo del gioco dello scambio e dell'equivoco.
Questo bizzarro Albani e’ un vero conquistatore di vortici, fantasiosamente calato nell'irriconoscibile e nell'inammissibile che fa del pensiero e della lingua un fermento ed una materia di partenze e temporanei arrivi. Il più irreverente Albani mi giustifica nel dire che una pesca è un frutto di mare o che un calvario è un campionario di senza capelli. Perchè sono le stesse parole e le idee comuni che usiamo ad offrirci le possibilità di cambiare, di incontrare il senso della realtà fissa e regolarizzabile, nel senso di quell'incontrario che sorridendoci ci affaccia sul mistero della forma della vita, che è armonia, concordanza tra discordi, presenza contemporanea nella moltitudine, emozione della trasformazione. Che sarà sempre l'unica costante di questo mondo. Sono le crepe del linguaggio, le imperfezioni, i fraintendimenti e gli errori a lasciar entrare la luce.
E costantemente non vediamo l'ombra di rivedere la luce.

Alessio Luise


Attesa d'amore
vicino a un rovo
alla fine d'estate

ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
ore
more
more
more
more
amore


Ri-petizione
se voglio
v-o-g-l-i-o
liberarmi
l-i-b-e-r-a-r-m-i
da questo silenzio
s-i-l-e-n-z-i-o
insopportabile
i-n-s-o-p-p-o-r-t-a-b-i-l-e
devo trovare
t-r-o-v-a-r-e
qualcuno
q-u-a-l-c-u-n-o
che mi ascolti
a-s-c-o-l-t-i
e sia disponibile
d-i-s-p-o-n-i-b-i-l-e
a scambiare
s-c-a-m-b-i-a-r-e
due parole
p-a-r-o-l-e
perché
p-e-r-c-h-é
sono giorni
g-i-o-r-n-i
che vivo
v-i-v-o
solo
s-o-l-o
con il mio
m-i-o
pappagallo
p-a-p-p-a-g-a-l-l-o

Le donne quando ridono
Mi piacciono le donne quando ridono. Mi piacciono perché quando ridono, specie se lo fanno di cuore, lasciandosi andare, alle donne succede che il seno gli comincia a ballonzolare tutto, a muoversi per via dei sussulti che il riso provoca. Questo accade di certo alle donne che hanno un seno florido, esuberante, che sembra voglia prendere il volo e accomiatarsi dallo scollo non sempre contenuto delle loro camicette. E poi ce n’è di quelle – almeno così mi ha detto Monica – che quando ridono, poiché lo fanno mettendoci un po’ di malizia e in modo prolungato, alla fine gli diventa turgido il capezzolo, che quasi non se ne accorgono. Loro ridono, ridono e intanto piano piano gli si allunga il capezzolo e s’irrigidisce da solo, senza bisogno di alcun toccamento. Non so se questo sia vero, o se Monica me l’abbia detto solo per compiacermi perché una volta, a una mostra, le ho confessato che le donne quando ridono mi piacciono da impazzire, non so, ma hanno un fascino speciale, irresistibile.
In effetti quando vedo una donna che ride, e mi accorgo che ha un seno prosperoso, e magari si vede che non porta il reggiseno, mi viene subito da pensare che quando ride, sotto i vestiti, il seno le balla tutto, le va su e giù, ondeggia come una coppa di gelatina particolarmente morbida. Perciò vederle ridere, le donne, è uno spettacolo che fa bene allo spirito, lo trovo sensuale, rincuorante. Mi eccita immaginare che il seno di una donna mentre ride si muove seguendo la cadenza fuori controllo delle risate, che anche lui, il seno, a suo modo ride partecipando generoso ai fremiti di quel momento di allegria. Fra la bocca di una donna che ride e il seno che le oscilla leggermente scomposto sotto la camicetta esiste una sorta di complicità, d’intesa che si accende e si riproduce solo in quello stato di abbandono liberatorio di cui il riso è responsabile.
Un’altra cosa che mi piace, e non poco, delle donne quando ridono sono gli occhi. Alcune quando ridono gli brillano gli occhi come due fiammiferi accesi; dentro gli occhi gli si vede un qualcosa che non si vede quando le donne stanno in atteggiamento normale o sono pensierose, un qualcosa di profondo, quasi di spirituale mi verrebbe da dire, senza esagerazione, anche perché la parola «spirituale» me ne ricorda un’altra, «spiritoso», che con il riso si coniuga bene. Forse mi sbaglio, ma a me sembra che gli occhi di una donna quando ride diventano magnetici, più intensi, e quindi sono più autentici. Altre donne invece - è il caso di Monica ad esempio - quando ridono gli occhi li tengono chiusi, non li aprono fintanto che ridono e magari gli vengono le lacrime, e questa di nuovo è una cosa che mi eccita, perché mi viene da pensare che è così che le donne tengono gli occhi quando danno un bacio o fanno all’amore. Che meraviglia!
C’è ancora un altro movimento che mi piace nelle donne quando ridono, ed è quello che le donne compiono quando si piegano in avanti nel momento in cui ridono, e assumono una posizione quasi a angolo retto tenendosi lo stomaco con le braccia unite, che se hanno i pantaloni stretti, attillati, ad esempio i blue jeans, quando si piegano in due e lasciano cadere i capelli sul volto, se hanno i capelli lunghi ben inteso, allora in quella posizione non proprio ortodossa le rotondità del loro fondoschiena si accentuano, risaltano maggiormente (sempre che uno osservi la scena di una donna che ride standole alle spalle), e anche questo è uno spettacolo eccitante, legato al modo singolare, unico che hanno le donne di ridere, uno spettacolo che è bello da vedersi e tutte le volte che si ripete mi manda in estasi.
Monica mi ha detto che una volta, in casa di amici, dopo una battuta cretina di un tale che aveva un pizzetto da capretta tibetana, lei si è messa a ridere a crepapelle. Un po’ per l’idiozia scoraggiante della battuta, un po’ per il pizzetto ridicolo di quel tale, ha iniziato a ridere in modo così impetuoso e convulso che a un certo punto non ce l’ha fatta più, non è riuscita a trattenersi e alla fine (meno male che aveva la gonna) si è bagnata, provando lì per lì una grande vergogna tanto che avrebbe voluto scappare via, anche se nessuno per fortuna si era accorto dell’incidente. Allo stesso tempo però, con la sua aria candida, Monica ha aggiunto che, mentre rideva, sentirsi addosso quel liquido caldo che le inumidiva l’attaccatura delle cosce, le ha procurato una sensazione gradevole, sfacciatamente libidinosa. E io, per quanto mi riguarda, se devo essere sincero, nel momento in cui Monica mi raccontava quell’episodio, mi sono eccitato moltissimo pensando a lei, in gonna, che si bagnava ridendo come una pazza davanti ai suoi amici, ignari del piccolo cedimento che le era capitato. Una ragione in più per farmi piacere le donne quando ridono…
Negli ultimi tempi non appena mi sono reso conto che Monica si era fatta seria e svogliata durante i nostri incontri, e rideva sempre meno, e se lo faceva gli veniva una roba finta, artificiosa, ho immediatamente realizzato che qualcosa non andava più fra noi, che forse lei si era stancata di me. E infatti non mi sbagliavo: dopo un po’ ci siamo lasciati, senza drammi, restando per quanto possibile buoni amici, anche se la fine della nostra storia mi ha rattristato molto perché adoravo quel suo modo voluttuoso e impertinente di ridere.

Il silenzio assoluto
Dopo aver seguito per due estati consecutive un corso di yoga tenuto da un tale di Rimini che, a dispetto del suo volto truce, si faceva chiamare Bhakti (Amore), un uomo si era fissato che voleva provare a ogni costo «l’estasi del silenzio assoluto». Pertanto si rivolse a una ditta specializzata e fece rivestire la sua camera da letto di un materiale insonorizzante come quello che si adopera per isolare acusticamente i locali pubblici, discoteche, sale cinematografiche, ecc.
Non ancora soddisfatto, da perfezionista qual era, incollò sulla superficie insonorizzata, con l’aiuto di un amico, dei contenitori per le uova, formati da piccole protuberanze di cartone: un sistema artigianale ed economico, questo, per rendere un ambiente impenetrabile ai rumori. Tempo addietro l’aveva visto applicato alle pareti della saletta di trasmissione di una radio privata.
Al termine dei lavori, l’uomo pensò bene di effettuare un collaudo di quanto aveva progettato. Così una notte si chiuse dentro la camera da letto trasformata in una specie di luogo di culto del silenzio, e, in attesa che l’esperimento andasse a buon fine, si sedé su una poltroncina di pelle, l’unico arredo rimasto lì dentro, insieme a una vecchia lampada da terra.
Mentre osservava, compiaciuto, i bernoccoli di cartone verdastro che tappezzavano le pareti e il soffitto, l’uomo avvertì che nella stanza insonorizzata si era creato un silenzio cupo, infrangibile, netto, senza una smagliatura disturbante e così avvolgente da procurargli un leggero batticuore, un’emozione mai sperimentata prima di allora, nemmeno durante le sue lunghe passeggiate estive in montagna, lassù, oltre i duemila metri, nei rari momenti in cui il vento si placa all’improvviso e smette di sibilare fra le rocce.
Tuttavia, poiché voleva essere sicuro di ottenere un silenzio ancora più intenso, totale, si mise dei tappi di cera nelle orecchie e in aggiunta - ultima precauzione, tanto per essere sicuro - anche una cuffia senza fili che di solito usava davanti alla tv per non disturbare i vicini.
Seduto al centro della stanza, con la cuffia in testa come se ascoltasse della musica, l’uomo spense la luce premendo il pulsante della lampada che aveva di fianco e si preparò a godersi finalmente «la percezione cosmica del silenzio assoluto», un’idea su cui Bhakti tornava spesso nelle sue lezioni, anche se per lui, a dire il vero, malgrado fosse un guru da spiaggia, l’assolutezza del silenzio era da intendersi non come un fatto fisico, bensì come il risultato - raggiungibile dopo lunghe meditazioni - di un’esperienza interiore, mentale, di pensiero.
Una volta al buio l’uomo si piegò su se stesso, appoggiando i gomiti sulle ginocchia in modo da concentrarsi meglio. D’un tratto, però, sentì una fitta dolorosa all’altezza della spalla sinistra e un gran senso di oppressione sul petto. A nulla gli valse mettersi a gridare né tanto meno, dopo che era caduto sul parquet, battere i pugni con le poche forze che gli erano rimaste nella speranza di richiamare l’attenzione dei vicini.
Dalla stanza insonorizzata non uscì il minimo rumore.

(luglio 2008)

NOTA

Paolo Albani è nato nel 1946 a Marina di Massa. Scrittore, poeta visivo e performer, è membro dell'OpLePo (Opificio di Letteratura Potenziale), della Sezione italiana della Joseph Crabtree Foundation e del Comitato Scientifico dell'Institut International de Recherches et d'Exploration sur les Fous Littéraires. In qualità di semi-semiologo, ha tenuto nel 1994 il corso di Semiotica presso l'Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Firenze e per vari anni ha insegnato all'Università del Progetto di Reggio Emilia. E' Console Magnifico dell'Istituto Patafisico Vitellianense, emanazione autonoma del Collegio di Patafisica, e da alcuni anni ricopre la cattedra di Linguistica fantastica presso la Facoltà di Scienze inutili di Barcellona.
Ha pubblicato numerosi libri e studi con editori di rilevanza.
Ha partecipato con performance e interventi a convegni, festival, seminari, e mostre. Per Stefano Bartezzaghi sarebbe "uno dei più tenaci frequentatori italiani dell'area dove la letteratura incontra il nonsenso e il gioco". Piergiorgio Odifreddi ha detto - Albani sottolinea " credo per sfottermi" - che sono "il campione italiano della letteratura potenziale". Ha un bellissimo sito ricco di ricerche e testi ricreativi dove perdersi dietro agli avanzi delle sue giocose e gioiose rivoluzioni:
 http://www.paoloalbani.it/.
http://vimeo.com/20839093
http://xoomer.virgilio.it/palbani/Menu.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Albani
http://vimeo.com/20839093

Alessio Luise
Intervista a Roberto Salis


Andiamo alla scoperta del mondo artistico del giovane Roberto Salis, cantautore di Iglesias innamorato di Milano. Appassionato e passionale musicista, virtuosissimo delle sei corde, col suo disco d’esordio L’Antidoto, pubblicato da VideoRadio, ha saputo fondere canzone e blues elettrico attualizzando la lezione di grandi autori come Battisti, Bennato e De Gregori.
Recentemente ha anche avviato una collaborazione con Irene Fargo, che accompagna come chitarrista nei suoi live.

- Il tuo stile musicale, dall’aspetto pop, ha un forte gusto blues, country e spesso folk. I tuoi testi assumono la chiara direzione del racconto, ricordando le narrazioni cantate di De Gregori o di Bennato. Da dove nasce e come si sviluppa questa tua intenzione musicale?
- Ho iniziato ascoltando la musica pop inglese, per l’esattezza il pop di Clapton, Dire Straits, Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, etc… In tutti questi artisti trovo ci sia una comunanza, una sorta di impronta genetica blues ove spicca l’esatta centralità della “voce” della chitarra… E’ qualcosa che ignori magari fino a quando non t’innamori visceralmente del blues e di tutti i suoi interpreti che hanno fatto la storia del suono. Penso nel mio piccolissimo che il blues abbia fatto nascere l’ottanta per cento della musica del secolo scorso. Quando mi occupo dei testi, cerco di proseguire la tradizione dei grandi cantautori come De Gregori, Bennato, De Andrè, Capossela, Graziani, Dalla, Guccini, Battiato, e di tutti coloro che dicono schiettamente ciò che pensano. Mi ritrovo a ricalcarne le intenzioni narrative. Naturalmente il faro però è Bob Dylan. In generale parto da una base di musica radicale, poi con gli arrangiamenti metto il vestito che voglio far indossare.
- Sei emigrato dalla Sardegna verso il nord Italia per fare l’artista. Sei arrivato qui con la tua borsa di sogni. Dopo anni di gavetta, ultimamente animi con continuità lo scenario musicale milanese. Quali son le difficoltà e le delizie di un giovane e virtuoso chansonnier metropolitano?
- Grazie per il virtuoso, ma forse è un parolone. Mi viene la voglia semplicemente... Mi piace incastonare la chitarra all’interno dei brani come fosse una voce (forse perché non sono dotato di grandi doti canore). Mi piace dilatare i brani con improvvisazioni e cercare di non rifare gli stessi soli. Negli anni passati questo piaceva alla gente. Penso piaccia ancora. Le difficoltà son quotidiane, anche perché la gavetta non finisce mai, penso per tutti, come racconto in un brano del mio disco, dedicato a San Precario. Anche chi lavora in un’azienda con contratto a tempo indeterminato può restare senza lavoro... però se ami tanto qualcosa, cerchi di andare sempre avanti senza metterti limiti… e io mi ritengo sempre all’inizio. Soprattutto nel periodo storico e sociale che stiamo vivendo, Internet è andato fuori controllo e si fa troppo presto con un clic ad avere le cose.. Questo magari impigrisce le persone, e la voglia di fare bene come una volta, ossia suonando gli strumenti. Ora si fanno sempre di più le canzoni con i banchi di campionatori già pronti, software virtuali, loops, sequenze… per carità c’è tanta gente brava che li sa usare, ma c’è n'è anche tanta che li usa solo per risparmiare tempo. Il risultato finale è veloce come preparare un risotto con i funghi in busta. Ma non ha lo stesso sapore e qualità di un risotto dove tu compri e cucini con passione, con il tuo tocco, i funghi. Dischi se ne vendono sempre meno, e l’unica soluzione (che penso sia anche l’aspetto più sincero della musica) è il live. Non trovo esagerato dire infine che la cosa migliore per chi sogna il mestiere d’artista, penso sia avere un buon manager che ti “usi”, e che sia ingordo di concerti e performances dal vivo.
- Sei laureato in chimica. Quali relazioni trovi tra la chimica del visibile materiale e la sostanza invisibile della canzone?
- Sono laureato in scienze dei materiali (chimica/fisica), ma quello è un capitolo chiuso e sigillato di cui ho buttato la chiave quando ho finito di discutere la tesi (sorride amaro e accenna allo stato della ricerca scientifica italiana, n.d.r.). Restando in tema potrei rispondere che trovo una relazione di chimica organica con la musica. Magari in una canzone si fa un solo improvvisato mischiando varie matrici; quelli possono essere i reagenti, e nel mio caso possono essere il blues, la classica, il reggae, lo swing, il punk, il soul, il country. Suonandoli in modo giusto, bilanciando i soli con vari generi (ossia la reazione) viene fuori la soluzione finale e finita dove la canzone prenderà la sua direzione. Forse è un po’ troppo... ah ah ah... (ride, in sardo, n.d.r.)
- De Andrè, a cui tu dedichi omaggi e set celebrativi, è forse il cantautore alla cui opera si attribuisce piu’ spesso dignità letteraria. Sei sensibile all’idea di un valore culturale della canzone?
- Assolutamente! Molte canzoni ti svelano segreti, e ti insegnano i caratteri della vita… per quanto mi riguarda De Andrè e Battiato sono dei capostipiti, mi hanno saputo sempre rassicurare e mettere in guardia su molti argomenti.
- Collabori da anni col gruppo teatrale La Manifattura (http://www.lamanifattura.org/). Coniughi la tua personale scrittura con contributi e omaggi a grandi poeti scomparsi (Neruda, Levi, Pasolini). Quali ossessioni e inquietudini personali può esprimere la scrittura di un artista altro da te ?
- Con La Manifattura collaboro da circa cinque anni, e con loro ci occupiamo di unire poesia, musica e immagini di opere di alcuni scrittori che hai citato prima. Io mi occupo di fare le musiche degli spettacoli in presa diretta mentre gli attori recitano, e questo viene intrecciato e sottolineato dalle immagini. Lo spettacolo dove forse riesco ad esprimere meglio il mio stato d’animo penso sia quello su Primo Levi (si fa serio, n.d.r.). E' uno spettacolo costruito a parer mio molto bene (per non dire perfetto), racchiude in 45 minuti circa temi assoluti e condivisi: la pace della vita tranquilla, la separazione, il dolore, la morte, la redenzione dell’Uomo, chiudendo con la speranza di un mondo migliore filtrato dall’amore.
- I tuoi attuali progetti? Dove e quando possiamo ascoltarti?
- Da agosto ho la fortuna di essere il chitarrista della grande Irene Fargo. Abbiamo fatto un concerto il 9 settembre a Chiari ed è stato molto bello. Lavorare con una grande artista come Irene Fargo (e il suo staff) mi sta dando la possibilità di crescere molto, a livello musicale e umano. Inoltre ho suonato con il mio gruppo blues (Roberto Salis blues band) al MITO Fringe, la manifestazione a livello internazionale che fanno a Milano e a Torino in settembre. Si tratta di un nuovo combo formato da me voce e chitarra, Daniele Di Marco tastiere, Fabio Buono batteria, Giuseppe Brigandì al basso. Suoniamo standard blues in tutte le sue venature, e country dando molto spazio alle improvvisazioni. Ci divertiamo tanto (e penso anche la gente che viene a sentirci). A breve inizierò a lavorare con Daniele Di Marco ad alcuni miei brani, in parte nuove bozze di voce e chitarra, altri di qualche anno fa. Vedremo di riarrangiarli secondo le nostre influenze, cercando di dare più spazio agli strumenti elettrici rispetto al lavoro precedente, più acustico.
- Quale canzone di un altro artista avresti voluto aver scritto tu?
- Grazie per la domanda che mi poni, ma non so se sono all’altezza di rispondere. Comunque sono tantissime, non può essercene una in particolare… Chi lo sa! Son troppe, veramente! Come si fa a fare una classifica o sceglierne solo una? C’è la genialità folle dei Beatles, che hanno inventato (a parer mio) la musica pop; la veggenza di Bob Dylan e il suo modo di dire, pane al pane vino al vino, quello che pensava; i capolavori di De Andrè e i suoi testi che vengono studiati alle scuole superiori. Forse c’è un pezzo significativo… è quello di una persona come Mark Knopfler, in un’ intervista disse che fu il primo brano scritto nella sua vita, e questa canzone è Sultans of swing. Una canzone irresistibile, che ha tracciato un solco miliare nella storia della musica e che ha fatto venir voglia a mezzo mondo di avvicinarsi alla chitarra. Forse scelgo questa… ma non posso non pensare alla grandezza di Battiato, che esplora l’universo da trent'anni senza mai ripetersi…maledizione Alessio… son davvero tante, starei qui a scrivere dieci pagine su tantissimi artisti che adoro e che mi aiutano a star bene...
- Ok, ciao Roberto, e auguri per i tuoi progetti!

Intervista curata da Alessio Luise

NOTA
Alessio Luise è nato a Sesto San Giovanni il 2 maggio 1978.
Scrive canzoni in forma di poesia con il suo vero nome e audiopoesie in forma di canzoni col nome di Luisenzaltro. Si definisce uno “sdrammaticato interessato alla dimensione frazionaria dell'esistenza”. Ha autoprodotto il suo primo disco solista di canzoni e musica “non euclidea”
Le inversioni Aeiou, in versione audio nel marzo del 2004.
E’ stato pubblicato come autore di poesie dalla rivista
Confini (ediz. La Vita Felice), e come aforista da Lietocolle Libri nel volume L'albero degli aforismi. Su invito di Rosemary Liedl, vedova di Antonio Porta, scomparso nel 1989, ha messo in musica il suo testo incompiuto per canzone Come una nave rotta.
http://www.myspace.com/daltrocuori

Roberto Salis, nato nel 1976 a Iglesias (Sardegna), dopo aver terminato gli studi in chimica ha iniziato a suonare nella sua terra con un gruppo incentrato sul blues elettrico, il country e il rock, per poi trasferirsi a Roma e recentemente a Milano. Nel corso di questi anni si è esibito live quasi sempre con chitarra acustica, sia da solo sia in gruppo, sia per propri progetti sia come chitarrista di altri artisti.
A Roma ha collaborato alla realizzazione di alcune colonne sonore del Centro Sperimentale di Cinema:
Sonica Onirica di Gian Marco Floris (medaglia d' argento del Presidente della Repubblica, presentato al New York short film festival e vincitore del concorso Ewiwa al teatro Verga di Milano), Gli ultimi saranno i primi di Luca Giordano, alcuni documentari con Carlo Martinelli (musicista ex-collaboratore di Britti, Cammariere, Stewards, Ciotti e Tiromancino).
Attualmente alterna le esibizioni live con una proficua collaborazione con l'associazione teatrale La Manifattura, facendo le musiche in presa diretta come con voce, chitarra e loop per spettacoli teatrali su Neruda, Pasolini, Calvino, Pratt, Levi, De Andrè, Battisti ecc.
A maggio 2009 ha partecipato al B-side festival come chitarrista di Gianluca Massaroni, cantautore prodotto da Eros Ramazzotti, e a giugno 2009 ha partecipato ad alcune serate di swing a Modena con Michele Vignali, Glauco Zuppiroli ed Enrico Lazzarini (collaboratori di Vinicio Capossela) e con Adriano Molinari (batterista di Zucchero).
A luglio 2009 è uscito il suo primo album distribuito dalla Video Radio, dal titolo
 L’Antidoto.
Da settembre 2009 è una presenza fissa al locale di Milano The Beach, con musica strumentale a tema improvvisata con chitarra acustica.

http://www.robertosalis.it/

Nicola Vitale

SALVADOR DALI’ E MAURIZIO CATTELAN A PALAZZO REALE
Due artisti a confronto
di Nicola Vitale

Le esposizioni a Palazzo Reale, quasi in contemporanea, del grande pittore surrealista Salvador Dalì e di Maurizio Cattelan, cinquantenne all’ultimo grido dei fasti del contemporaneo (diffusamente noto per aver impiccato a un albero milanese tre bambini di gomma), offre lo spunto per una riflessione su come i cambiamenti dell’arte dell’ultimo secolo riflettano mutamenti esistenziali profondi.
Pur essendoci tra i due artisti una distanza cronologica di oltre un cinquantennio, e una relativa differenza delle modalità espressive, sussistono alcune analogie significative. Nel surrealismo di Dalì, emerso nei primi decenni del Novecento in un periodo di grande fertilità, troviamo quella poetica della trasformazione del reale, deformazioni, ibridazioni, portati con un gusto volto a stupire, sconvolgere, provocare il ceto sociale formato prevalentemente dai nuovi ricchi, nato nell’Ottocento con la rivoluzione industriale, che cercava con l’acquisto di opere d’arte il riscatto sociale. “Épater les bourgeois” era il motto dei surrealisti, intenti a scardinare con opere scandalose un gusto istituito convenzionale, quella piacevolezza superficiale che spesso sfociava nella banalità decorativa. Questo gusto della provocazione costituirà in seguito uno degli aspetti rilevanti dell’arte contemporanea, e prenderà decisamente piede negli anni Sessanta con le correnti più impegnate nel sociale come l’arte concettuale, volte alla denuncia della civiltà contemporanea del puro interesse materiale e delle più paradossali aberrazioni nascoste sotto il torpore del benessere in un’apparenza di moralità. Questa è l’eredità di Cattelan, che cavalca, insieme ad altri artisti di grido del jet set internazionale, il cavallo vincente dello shock, dell’ibridazione provocatoria, toccando come in un’efferata tortura i punti nevralgici oscuri e contraddittori della odierna cultura occidentale.
Se dunque in questo senso un'analogia tra Dalì e Cattelan è evidente, dall’altra abbiamo una differenza che pone i due artisti agli antipodi, e che ci rivela il profondo stato di decadenza in cui versano la nostra civiltà e l’arte che ne emerge.
Al di là dei significati delle sue opere, degli aspetti tematici e iconografici, Dalì è stato innanzitutto un grande pittore, che si è misurato con i più grandi della storia. E’ nota la sua venerazione per Raffaello e Vermeer, la conoscenza approfondita della pittura di ogni tempo, la sua enorme cultura, la grandiosa visione e sensibilità. Questa cultura specifica del mezzo espressivo che il maestro spagnolo ha coltivato in modo maniacale, come emerge dai suoi scritti e dalle sue opere, è la caratteristica che non solo divide i due artisti, ma separa anche l’intera concezione dell’arte moderna, a cui appartiene Dalì, dall’arte contemporanea il cui esponente di punta è Cattelan. L’arte moderna, dal suo sorgere con Cézanne, Van Gogh e Gauguin fino a tutte le avanguardie storiche, se da una parte abbandona la visione naturalistica convenzionale dell’Ottocento, dall’altra (e qui sta il suo aspetto più rilevante) riscopre la bellezza astratta dell’immagine: quella armonia di forme e colori che caratterizzano nel suo profondo l’espressione artistica di ogni tempo. Gli artisti moderni ritrovano insomma il fondamento dell’arte che dal Cinquecento è andato man mano indebolendosi. Alla bellezza naturale banalizzata dalla perdita di intensità e verità formale, contrappongono la bellezza del colore e delle armonie astratte, che Dalì, come i grandi artisti rinascimentali, saprà conciliare con la figura naturalistica (pur se deformata) ridandogli nuova vitalità.
E’ qui che si verifica la funzione più importante dell’arte, istintiva, naturale: la sua funzione reintegrativa, una sorta di esercizio che riporti la coscienza scissa dell’uomo, filtrata nei diversi aspetti del linguaggio espressivo, a una sempre nuova unità. Dalì, grazie alla sua grande sapienza espressiva, elabora in questo processo reintegrativo anche gli aspetti inconsci, aberranti e rimossi della coscienza dell’uomo contemporaneo, portando così a una nuova integrità, a una ricchezza interiore che è sempre il fine dell’arte.
Ma l’arte contemporanea, dagli anni Sessanta, interpretata l’arte solo come linguaggio, in un puro processo intellettuale, e dimenticando la sua funzione originaria, reintegrativa, volta alla ricerca dell’universalità del bello, deve porre come unico principio di senso la provocazione e il processo innovativo del linguaggio, che tra gli anni Settanta e Novanta arriva a esaurire le sue possibilità, a svuotarsi e a perdere consistenza, per cui si parlerà diffusamente di “morte dell’arte”. Cattelan si inserisce in questo clima di estenuazione della ricerca linguistica e della provocazione, dove per farsi conoscere ormai non restano che lo scandalo e il sostegno indispensabile di un mercato dell’arte che ha ricostruito, nelle sue strutture promozionali e commerciali, l’esatta copia della civiltà dei consumi, dove il valore spirituale dell’arte è sostituito dal valore commerciale, come è esaurientemente descritto dall’economista Donald Thompson in Lo squalo da 12 milioni di dollari (Mondadori, 2009). Non dimentichiamo, infatti, che i tre bambini di gomma di Cattelan sono stati acquistati da un museo tedesco a un milione di dollari.
A questo punto sorgono diverse perplessità, ma due sono gli interrogativi preponderanti: se l’arte dalle sue origini è stata uno strumento edificante, per elevare l’Uomo dalla sua condizione animalesca e costruire una realtà diversa da quella istintiva e brutale, eliminando quella funzione educativa cosa potrà porre al riparo l’Uomo stesso da una deriva barbarica? Che senso ha oggi che l’arte provochi la civiltà dei consumi, del potere e del mercato senza scrupoli, proponendosi però a partire da un sistema che ne imita pedestremente le modalità e i contenuti? Se l’arte vuole provocare senza cadere in una smaccata ipocrisi,a non dovrebbe provocare proprio quel sistema commerciale di cui invece si nutre?

NOTA

Nicola Vitale, poeta e pittore, è nato a Milano nel 1956.
Come poeta ha pubblicato sull’Almanacco dello Specchio (Mondadori, 1987 e 2005), è presente nell’antologia a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi Poeti italiani del Secondo Novecento (Mondadori, 2004), e ha pubblicato le raccolte La città internaPrimo Quaderno Italiano Poesia contemporanea (Guerini e Associati, 1991), Progresso nelle nostre voci (Mondadori, 1998), La forma innocente (La collana, Stampa, 2001), Condominio delle sorprese (Mondadori, 2008).
Come artista visivo ha esposto in mostre personali e collettive, in spazi pubblici e gallerie private, in Italia, Svizzera, Islanda e Stati Uniti. Hanno scritto del suo lavoro Pierre Restany, Rossana Bossaglia ed Elena Pontiggia.
La sua ultima mostra personale Le (n) meraviglie del mondo è in corso presso la galleria milanese The White Gallery.
http://www.nicolavitale.com/
http://www.thewhitegallery.it/thewhitegallery.html
http://poesia.blog.rainews24.it/2010/05/13/nicola-vitale-le-n-meraviglie-del-mondo/

Paolo Vitolo


PERCHE' (NON) IL JAZZ

Per me il musicista migliore sarebbe quello che conoscesse solo la tristezza della più profonda felicità e nessun'altra tristezza: fino a oggi un musicista simile non è mai esistito.F. Nietzsche

Da jazzofilo di vecchia data, ho vissuto un periodo in cui il jazz era di gran lunga più popolare di oggi: gli anni Settanta - del decennio precedente avevo catturato solo l'ultimo scorcio. Eppure anche allora, ricordando che cosa si amava e che cosa no, e ricostruendone i perché, non direi che il jazz godesse di un'immagine adeguata. Credo oltretutto che non ne abbia goduto mai.
Secondo me, per un motivo preciso (lasciato in ombra come il problema stesso): che il jazz è la creazione del nero che rifiuta l'estetica dell'oppresso e rivendica la sua idealità di soggetto e di artista, anziché del nero "genere", inferiorizzato dalla sua condizione sociale, che sia americano (il bluesman) o di altrove.
Il jazz, infatti, è insieme due cose interessanti per la musica: da una parte, musica "ad altezza d'uomo", creata da chi la esegue e che prende forma nell'esecuzione stessa; dall'altra, musica strumentale, non mortificata dall'asservimento al testo, e che contrappone alla natura (il canto) l'espressione desiderata di alcuni individui (musicale e strumentistica quella del leader, solo strumentistica quella dei musicisti che il leader ha scelto inseguendo un proprio, sentito obiettivo di forma, suono, atmosfera etc.). Dunque, l'arte di una neritudine che si manifesta attraverso qualità autonome (un'inconscio particolarmente libero da sovrastrutture e, di conseguenza, una dotazione musicale superiore) e opposte alle corrispondenti prerogative dell'Occidente (il carattere idealizzato, altomimetico e autocelebrativo dell'arte, responsabile della concezione di una musica "senza aggettivi", congelata in una scienza che la struttura sia nell'accademismo che nell'antiaccademismo e in cui l'identità autore-esecutore è incidentale).
Proprio per questo, l'esistenza del jazz è stata accolta come uno strano reato. Così strano che sarebbe stata la parte lesa a insabbiarlo, vergognandosi di riconoscerlo, e il razzismo più mimetizzato, il più insospettabile, il più sottile, a colpirlo. Nessuno, d'altronde, ha mai ostracizzato l'opera del nero che eccelle in un mestiere occidentale: il poeta, lo scrittore, il pittore o il presidente degli Stati Uniti. Ma un'arte di cui il nero ha acutizzato l'energia, facendone nascere un'esperienza nuova, passibile di una mondanità più reale, è stata di grande fastidio proprio a chi per primo avrebbe dovuto prenderne atto. Il problema era di accettare l'esistenza di una musica in cui le poetiche individuali e le innovazioni prendono vita dalla sola verità dell'emozione, senza accademia e senza lotta all'accademia: accettare una parte "diversa" della rivoluzione estetica. Anche chi ne era affascinato se ne difendeva, e usando sempre la stessa arma, eminentemente freudiana: sostenere il jazz come una specialità, nel senso dell'opposto di una necessità.
I surrealisti, per esempio, magnificavano il jazz come un'arte unicamente selvaggia, e fino a indovinare il suo potenziale di opposizione alla società borghese, ma lungi da loro il parlare dell'individualità di un Louis Armstrong o di un Duke Ellington. Poi, nell'età del bebop, un temporaneo riconoscimento corretto veniva dai pittori d'azione e dai poeti beat, che sentivano una forte affinità tra le vertigini espressive di un Charlie Parker, un Dizzy Gillespie o un Thelonious Monk e le loro. Così come da Julio Cortazar, che guardava all'uomo del jazz come a un "cronopio", l'effige dell'emozione per eccellenza, secondo la sua classificazione degli umani. Mentre Boris Vian, che del bebop era il mentore parigino, insisteva nuovamente sull'idea di un jazz adatto a scatenare pulsioni corporee, con qualche disattenzione di troppo a quello che aveva altre ragioni e altre fisionomie (certo Monk, il primo Mingus, Herbie Nichols e i pochi bianchi da non trascurare).
Ma dalla capitale della "culture avec le Q" - e capitale europea del jazz, tutto sommato - parte ancora un nuovo abbaglio nel 1971: il fortunatissimo saggio Free Jazz/Black Power di Carles e Comolli, con annessa teoria. Per loro, il free jazz degli anni Sessanta è il solo di valore, in quanto jazz "di sinistra", valore per il quale lo precedono, tra le musiche nere, unicamente alcune che contengono testi (Ray Charles, Fats Waller e i blues dai testi più rabbiosi). Cioè, l'artista nero, semplicemente migrato dal selvaggio all'arrabbiato, resta genere, e la sua arte spettacolo, soltanto che "garantito" dall'ideologia - la quale neppure è esattamente il pane del primo free (Ornette Coleman, Cecil Taylor), ma solo del secondo (Archie Shepp, Albert Ayler etc.).
Dunque, non più che una postilla alla critica talebana della vecchia sinistra: giusto l'avvertenza che una piccola parte del jazz, essendo "di sinistra", non sarebbe musicaccia alimentare dell'America capitalista. Viene quasi di pensare al monito di Togliatti agli artisti informali del dopoguerra, perché le loro tele non figuravano operai sofferenti.
Ma il problema è che l'onda lunga dello zdanovismo da salotto dei due francesi era arrivata in quegli anni a manipolare il jazz stesso (assistendolo l'Europa meglio dell'America), non soltanto la sua immagine. E con l'effetto di indirizzarlo a una certa inversione di priorità tra la cosa e la sua rappresentazione, l'ideale per non distinguere più il grande dal mediocre, l'artista dal persuasore ben pilotato. I giovani, omologatissimi anche allora (seppure intorno a cose che sembrerebbero più nobili), impazzivano per improvvisazioni fluviali dove "plus ça change et plus c'est pareil" (Sam Rivers più di tutti) e sperimentalismi sonori tra il post-weberniano e il post-cageano (Art Ensemble of Chicago, Anthony Braxton, bianchi come Steve Lacy, Evan Parker, Derek Bailey etc.), senza accorgersi che un Coleman, un Taylor, un Sun Ra, che pure amavano, erano perfettamente un'altra cosa. Nessuno supponeva di star equiparando quel meraviglioso primato dell'espressione - che è la forza autonoma e mondana del jazz - al suo opposto. Quello che contava era lo shock del negativo: la capacità di partecipare a quei feticci dell'inarrivabile come illusione di partecipare alla rivoluzione - il solito bisogno di appartenenza.
Naturalmente, lungo gli anni Ottanta tutto questo si perde, ma con il peggio in cambio, sia per il jazz che per la società. Se la società va tutta per il calcio in culo alla sinistra, buttando via abbondanti acque sporche con tanto di bambini dentro, quella del jazz, almeno tra critica e pubblico, si consegna spudoratamente alle pantofole. Riscoperte feticistiche di mezze calze, entusiasmi per bravi strumentisti e talenti nazionali, pedanti letture musicologiche, megabiografie di musicisti storici, discomania completista, culto delle copertine d'epoca e simili cose che con la grandezza del jazz non hanno nulla a che vedere. Al punto che oggi, fuori dalla "specialità", il jazz non si sa più cosa sia. Chi lo pensa un sottofondo ideale per seratine intime (perché si è imbattuto in Chet Baker o in Petrucciani o in Rava e Bollani), chi un'accozzaglia di suoni da sturbo (perché il rock lo ha condotto al Miles Davis di Agartha o al John Zorn più post-cageano) e chi una chiassosa musica folklorica di altri tempi (perché la sua nozione è rimasta casualmente impigliata a qualche orchestra swing malmimata da Hollywood).
Comunque, per come la vedo io, se qualche conduttore di rubrica radiofonica o qualche articolista di pagina culturale o non so chi altro - non tanto i critici di settore e gli organizzatori di concerti, di cui non mi fido granché - avesse l'istinto illuminato di correggere questo tiro, e da cosa nascesse cosa, potrebbe derivarne una bella svolta: quello che il jazz meriterebbe da oltre mezzo secolo. Perchè dubito molto che chi ha vera esigenza di musica per la sua vita, che è un'esigenza tanto più psicologica che estetica, non perda un bel pezzo se non ha per le mani almeno un po' di Ellington degli anni Quaranta, il Coleman Hawkins di Body and Soul (1939), Yesterdays (1944) e Picasso (1947), un po' di Lester Young con piccoli gruppi (1943-49), tanto Monk dagli anni '40 ai '60, il Charlie Parker del primo quintetto (1945-48), il Bud Powell di Tempus fugit (1950) e Glass Enclosure (1953), il Lennie Tristano di Line Up e Turkish Mambo (1955), l'Herbie Nichols di The Third World (1955) e House Party Starting (1956), tanto Mingus, dal Workshop del '54 alla tournée europea del '64, il Max Roach di We Insist! Freedom Now Suite (1960) e del trio con il leggendario Hasaan (1964), il triumvirato Ellington-Mingus-Roach di Money Jungle (1962), il Sonny Rollins di Strode Rode (1956) e Freedom Suite (1958), il Lee Konitz di Ezz-thetic (1951) e Motion (1961), il Miles di Round About Midnight (1956), di Kind of Blue (1959) e del quintetto con Wayne Shorter (1965-67), il Gil Evans di Las Vegas Tango (1963) e Zee Zee (1973), il Jimmy Giuffre del trio con Paul Bley e Steve Swallow (1961), il Mal Waldron di All Alone (1966) e Up Popped the Devil (1973), il Randy Weston di African Rhythms (1969) e The Spirits of Our Ancestors (1991), tanto Coltrane, da Giant Steps (1959) a Stellar Regions (1967), l'Eric Dolphy del concerto al Five Spot (1961) e di Out to Lunch (1964), il Booker Little di We Speak (1961), l'Ornette di Lorraine (1959), Lonely Woman (1959), Beauty Is a Rare Thing (1960) e Street Woman (1971), il Cecil Taylor del concerto al Café Montmartre (1962) e di Silent Tongues (1974), un bel po' di Sun Ra, dagli anni '50 agli '80, il Paul Bley del primo trio (1962-63), l'Albert Ayler del quartetto con Don Cherry (1964), il Don Cherry dei gruppi con Gato Barbieri (1965-66), l'Archie Shepp di Le matin des noirs (1965), un po' dell'Andrew Hill primo (1963-65) e ultimo (1999-2006), il Charlie Haden della prima Liberation Music Orchestra (1970), il Julius Hemphill di The Hard Blues (1972), il John Carter di Dauwhe (1982) e Castles of Ghana (1985), l'Henry Threadgill del primo sestetto (1981-86), il David Murray del primo ottetto (1980-82), un po' di letture ellingtoniane e monkiane della coppia Steve Lacy-Mal Waldron (anni '80 e '90), quelle di standard di Paul Motian con Lee Konitz (1993), il William Parker di Mass fot the Healing of the World (1998), il David S. Ware di Flight of I (1991), Theme of Ages (1999) e Ganesh Sound (2007).
E' giusto quello che mi viene in mente, fra titoli di brani e di album e indicazioni più generiche, cercando di tener conto il più possibile che, se la musica è veramente di tutto, il jazz è comunque tante cose.

NOTA

Paolo Vitolo, nato nel 1954, ha fondato con sua moglie Vilma Bruno la galleria d'arte che ha preso il suo nome.
Successivamente si è dato al mestiere di 
bouquiniste, dando vita alla libreria L'Atalante di Milano.
E' autore del libro
 Guida al jazz - Gli autori e le musiche dal bebop alla creative music (Bruno Mondadori, Milano, 2002).www.atalante.it


Nicola Vitale

LA CRISI E IL PARADOSSO DELL’ARTE CONTEMPORANEA
Riflessioni sulla fine della modernità e sulla morte dell’arte
di Nicola Vitale

La situazione attuale

Il filosofo francese Jean Baudrillard in un’intervista del 1996, a proposito di un suo scritto (1) sulla situazione attuale dell’arte contemporanea, dice:
"Non si può assolutamente prevedere quello che succederà in quest’ambito, ma si deve poter prendere coscienza che le cose sono arrivate a una sorta di punto finale, dove però la fine non significa che tutto sia finito. Quella che era la posta in gioco di questa modernità ha trovato la sua fine, che per lo più è alquanto mostruosa e aberrante, ma nella quale tutte le possibilità sono state esperite e consumate, o sono sul punto di esserlo..." (2).
I discorsi sulla fine dell’arte si susseguono da tempo in un clima di malessere e di decadenza all’interno del mondo dell’arte, dove regna per lo più il caos. Vi è la diffusa impressione che “tutto è stato fatto” che non vi sia per l’arte contemporanea alcuna possibilità di sviluppo oltre gli ennesimi rifacimenti che sembrano riproporre forme e modalità espressive già viste negli ultimi cinquant’anni, estenuate da infinite variazioni e contaminazioni, mentre la valutazione delle opere pare spinta più dall’enfasi di mode momentanee che da comprovati esiti.
Dall’altra parte il grande pubblico sembra per lo più disinteressato all’arte contemporanea, vista con occhio diffidente, qualche volta con curiosità, sempre più distratto dal gioco disimpegnato dell’intrattenimento di massa. Chi ama l’arte sembra orientarsi verso il lontano passato o verso artisti e opere della prima modernità, ormai da tempo acquisiti.
Tuttavia nell’ambito dell’arte contemporanea si continua in modo sempre più concitato ad allestire mostre in gallerie private e in spazi pubblici, si organizzano fiere, si costruiscono musei, si stampano libri e riviste, mentre il numero degli artisti sembra crescere di giorno in giorno, e i collezionisti, pur in una lamentata crisi cronica, continuano a cercare opere da acquistare. Sembra che il sistema dell’arte proceda per inerzia con la testa mozza, ormai in preda alle convulsioni degli ultimi spasmi nervosi, che come in ogni decadenza generano forme sociali mostruose e ipertrofiche. (3)
In questo scenario, al di là del peggior pessimismo che ne coglie segni da fine del mondo, o dell’ottimismo scientista che pensa ad un’epoca nuova dove l’arte è superflua, sopravvive in profondità un sentimento opposto per cui sembra impossibile che l’arte possa realmente aver raggiunto la sua fine. Qualcosa di irrazionale ci dice che l’uomo non potrà mai far a meno di esprimersi, che l’arte dovrà necessariamente accompagnarlo anche nelle peggiori vicissitudini del divenire. Lo stesso Baudrillard, che si presenta come colui che senza paura vuole “guardare in faccia la realtà”, lascia aperto lo spiraglio di questa possibilità concludendo: «... dove però la fine non significa che tutto sia finito», così come Gadamer dice: «La fine dell’arte sarà sempre l’inizio di un’arte nuova.» (4)
La questione dell’arte contemporanea è apparentemente inestricabile; ma per comprendere la situazione critica nella quale è venuta a trovarsi occorre osservare le cose da un punto di vista che implichi l’orizzonte complesso della trasformazione in atto della cultura occidentale, e dunque al di sopra del labirinto nel quale la stessa arte contemporanea, con le sue ideologie e paradigmi si è costretta e imprigionata.

La morte dell’arte

Il primo che si era reso conto che era finita è stato Hegel, come tutti sanno. Quando parla di “morte dell’arte” dice una cosa molto profonda al di là di quello che di solito si ripete più banalmente: si rende conto che l’arte, giunta all’età della conoscenza, non ha più una funzione. (C. Sini) (5)

Hegel all’inizio del XIX secolo aveva profetizzato nelle Lezioni di estetica (6) una sorta di superamento dell’arte, per il quale gli è stato attribuito il concetto che da tempo risuona come uno slogan: “la morte dell’arte”. In realtà il filosofo tedesco interpreta l’arte quale grado intermedio del processo di autocoscienza dello Spirito assoluto, cioè come la sua espressione momentaneamente involuta, dove l’Idea, espressa in una forma sensibile, è però priva del concetto, realizzazione suprema della conoscenza.
Questa concezione progressiva della vita dello Spirito spinge Hegel a pensare in divenire anche l’espressione estetica attraverso un “progresso” delle forme d’arte. Vi è in un primo tempo una forma simbolica caratteristica dell’arte primitiva e arcaica nella quale l’Idea «è ancora indeterminata e priva di chiarezza»; da qui l’arte approda a una forma classica dove l’Idea è realizzata in modo esemplare assumendo la bellezza naturale. Ma il raggiungimento della forma classica segna anche il limite che lo Spirito infinito deve necessariamente superare per completarsi. La forma romantica è questo superamento per cui l’arte incrina la perfetta unione tra Idea e natura in cui lo Spirito infinito aveva trovato la sua finitezza, proiettandosi al di là di se stessa.
“La morte dell’arte” si colloca in questa fase romantica per cui Hegel vede nelle opere d’arte del suo tempo il segno della fine del processo di espressione dello Spirito nella forma artistica, per profetizzare una nuova epoca dove il concetto è la realizzata espressione dell’Idea nella sua infinitezza.
L’arte in tal modo è considerata “cosa del passato”, attività superata dal pensiero; gli artisti del presente non realizzerebbero opere realmente nuove, in quanto i passi verso la perfezione dell’arte sono stati tutti compiuti e non possono essere che imitati, aderendo soggettivamente a modelli passati. L’arte rimane dunque secondo la visione di Hegel una forma secondaria della cultura occidentale.

Fine della modernità

Sono passati due secoli e queste intuizioni di Hegel sono sicuramente interessanti per interpretare quanto avvenuto nel frattempo. Se pensiamo infatti all’Ottocento, un secolo in cui vediamo mescolarsi romanticismo e classicismo accademico, simbolismi e realismi di ogni genere, pare che il ristagno profetizzato dal filosofo si sia realmente verificato. Così come l’arte moderna potrebbe essere interpretata, seguendo tale logica, come un’ulteriore frammentazione dei modelli, innescando un processo autodistruttivo nel quale si riattualizza la “morte dell’arte” che segna il concludersi di un’epoca.
La visione che pone l’arte quale modo primitivo o ingenuo di rappresentare e dare senso all’esistenza è presente nella filosofia già dalle sue origini, quando Platone esclude dalla città ideale artisti e poeti, promulgatori di quel caos di passioni che la filosofia vuole invece dominare. La lunga tradizione razionalista, che da Socrate attraversa e pervade la cultura occidentale, privilegia il concetto quale elemento primario della conoscenza e struttura fondante della realtà. Una cultura che nel rinascimento, con l’età moderna, traccia le fondamenta del progetto di totale razionalizzazione e controllo scientifico dell’esistenza, che ai giorni nostri giungerà a una prima realizzazione.
Il XIX secolo si apre infatti con la grande profezia hegeliana di un radioso avvenire orientato al compimento di un’epoca dell’Idea e della scienza, tuttavia sappiamo che le cose non sono andate esattamente così: il XX Secolo ha dovuto subire gli sconquassi dei totalitarismi costruiti su tali strutture di pensiero, mentre il prodigioso progresso scientifico e tecnologico, che ha rivoluzionato la vita del globo, sembra in questi anni aver preso la mano all’uomo innescando un processo di intensificazione esponenziale della competizione a tutti i livelli che pone come cieco obiettivo il profitto e il potere.
Con il crescere dei disagi della civiltà scientista e tecnologica, avanza un nuovo fronte culturale che già dalla fine dell’Ottocento aveva posto le sue fondamenta nell’opera di grandi filosofi come Shopenhauer, Kierkegaard e in particolare Nietzsche, che mette in discussione la costruzione monolitica del pensiero occidentale, minandone le fondamenta. L’incrollabile, assoluta validità sulla quale si è costruita la nostra cultura basata sulla struttura metafisica dei concetti, inizia a vacillare. L’idealismo hegeliano subisce le più aspre critiche e, contemporaneamente alla filosofia, la breccia decisiva nelle fortificazioni del razionalismo e del determinismo è aperta dalla scienza che nel primo ventennio del Novecento mette in crisi la tradizione cartesiana e newtoniana per una visione radicalmente nuova nella quale il principio meccanicistico è superato dalla teoria quantistica. L’universo, tradizionalmente concepito come una grande macchina coordinata da un sistema causale di cui gli atomi costituiscono il fondamento, si rivela in realtà un’entità energetica unitaria le cui parti sono simultaneamente collegate, nel quale gli atomi e le molecole non sono che particolari densità di energia che la coscienza, come alcune teorie asseriscono, tradurrebbe in esperienza sensoriale diventando elemento costitutivo della stessa materia.
Il pensiero razionale fin qui sicuro del proprio controllo su una realtà oggettiva vacilla, ogni campo del sapere è scosso alle fondamenta, mentre la psicologia rileva con Freud e Jung il lato oscuro della coscienza, dove istinti e pulsioni, rimossi o deformati, agiscono inavvertiti sulla vita psichica, modificando la percezione della realtà.
La natura, imbrigliata, piegata e sfruttata, pare prepotentemente risollevarsi dal profondo dell’uomo stesso, ribellarsi e reagire disseminando il disagio psichico, mentre cataclismi provocati dal dissesto ambientale sconvolgono vaste aree del pianeta.
Misurata, incasellata e anatomizzata per secoli, la natura torna a mostrarsi nella sua essenza enigmatica; l’uomo che aveva pensato riducendola a oggetto di potersene servire, deve ora tentare di ricomporne l’equilibrio stravolto, pena la sua stessa distruzione. In questa minaccia, già attiva nelle vie di fatto, si pone il vero tema della “fine della modernità”, il limite ormai conclamato della filosofia razionalista e della scienza determinista. Tuttavia, se possiamo asserire che l’occidente si sta giorno dopo giorno modificando in questa direzione, in quella che è stata chiamata cultura postmoderna, resta oscuro il principio su cui costruire un senso alternativo al dominio della pura razionalità, che vediamo perdere progressivamente consistenza e credibilità insieme al progetto, da esso derivato, di un continuo accrescimento della ricchezza materiale, del benessere e del potere.
Le vie alternative infatti, che nella storia dell’umanità hanno costituito le civiltà: la religione e l’arte, che la cultura esistenzialista indica come strade percorribili, sembrano in occidente drammaticamente coinvolte nella medesima crisi e declino del concetto. Se da una parte abbiamo parlato di un’ipotetica “morte dell’arte”, dall’altra scopriamo nel nostro mondo un’altrettanta crisi della vocazione religiosa, in un clima diffuso di perdita della fede.
E’ da questo panorama sconfortante che si genera il clima fosco della nostra epoca, il tramonto della modernità, con tratti di disperazione nascosti sotto l’euforia nervosa di grandi imprese, viaggi, assembramenti e manifestazioni di ogni genere.

Il paradosso dell’arte

In questo momento storico l’arte si trova dunque al centro di un paradosso. Da una parte infatti la cultura esistenzialista individua l’arte come elemento rilevante in cui indirizzare la ricerca del senso; dall’altra la situazione di fatto vede l’arte contemporanea implicata in una crisi senza prospettive, sotto la spada di Damocle della profezia hegeliana.
Per alcuni filosofi esistenzialisti l’arte sarebbe il modo con cui l’uomo potrebbe ricostruire l’integrità che la cultura razionalista ha compromesso, attuando quel “riavvicinamento all’essere” promulgato da Heidegger, come reintegrazione all’origine, dell’uomo e della civiltà. L’arte è vista in questo senso come un’attività il cui linguaggio conserva la globalità dell’esperienza esistenziale, fatta tanto di pensiero, sogno e immaginazione, quanto di percezioni materiali e di pulsioni istintuali. E’ questa l’espressione più prossima del vero essere, quell’essenza che gli esistenzialisti intendono non separabile dalla vita dell’uomo, in contrapposizione alla concezione dell’essere che la filosofia sin da Socrate ha posto nell’Idea e nel concetto.
Il paradosso in cui l’arte contemporanea si viene a trovare sembrerebbe dunque dipendere da questa riduzione dell’essere da parte della cultura occidentale, cioè dal fatto di aver trasferito tutto il senso dell’esistenza - arte inclusa - in una mappa metafisica di concetti e immagini mentali, alla quale ci si è progressivamente assuefatti come si trattasse della vita stessa. Sini coglie ciò nella produzione contemporanea:
E’ il lavoro del critico che autentica l’opera d’arte, non l’opera d’arte che viene prima del critico. E’ la logica della cultura storico-critica ridotta a minimalia che determina l’opera d’arte e non che viene dopo per farla conoscere. (7)
Se le cose stanno realmente così l’attuale crisi dell’arte avrebbe ben poco a vedere con la “morte dell’arte” profetizzata da Hegel, da cui è vista come attività superata, ma coincide invece con la fine della metafisica concettuale, e dunque con la fine della concezione filosofica, linguistica e storicistica dell’arte nella quale siamo immersi e con cui la gran parte degli artisti hanno, consapevolmente o inconsapevolmente, da lungo tempo operato.

NOTE

1 J. Baudrillard, Complot de l’art, uscito il 20 maggio 1996 sul quotidiano Libération
Le compliot de l’art et Entrevues a propos du ‘complot de l’art’, intervista di Catherine Francblin a Jean Baudrillard, Sens & Tonka éditeurs, Paris 1997; trad. ita. di L. Frausin Guarino, Il complotto dell’arte e interviste sul complotto dell’arte, Pagine d’Arte, Milano 1999, p. 57
3 «A questo punto (...) succede quel che accade oggi, che l’arte diviene qualcosa di assolutamente minoritario, di assolutamente staccato dalla vita degli uomini, di assolutamente incomprensibile per le masse, comincia il fenomeno dell’avanguardia, (...) l’età della museizzazione, questa tremenda età nella quale ancora viviamo, l’età appunto nella quale si fanno i convegni, le mostre ecc. ecc., (...) dove l’arte è diventata puramente cultura e quindi non è più viva, è semplicemente chiacchiera sull’arte.»
Da un’intervista a C. Sini di G.Maraniello in Appuntamenti con la filosofia 2, AA.VV., G. Politi Editore, Milano 1996, p. 195
4 Intervista di G. Di Pietrantonio a H. G. Gadamer in Appuntamenti con la filosofia 2, AA.VV., G. Politi Editore, Milano 1996, p. 75
5 Intervista a C. Sini op.cit., p. 194
6 Cfr. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, Berlin 1836-1838; trad. it. di N. Merker, Estetica, Einaudi, Torino 1967, 1997, Tomo I, pp. 88-95
Come suggerito dal titolo della prima edizione tedesca Lezioni di estetica, gli scritti di Hegel sull’estetica non costituiscono opera originale, ma sono stati pubblicati grazie alla raccolta di appunti degli studenti riferiti alle lezioni tenute dal filosofo all’università di Berlino dal 1817 al 1829.
7 Intervista a C. Sini op.cit., p. 194

NOTA

Nicola Vitale, poeta e pittore, è nato a Milano nel 1956.
Come poeta ha pubblicato sull’
Almanacco dello Specchio (Mondadori, 1987 e 2005), è presente nell’antologia a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi Poeti italiani del Secondo Novecento (Mondadori, 2004), e ha pubblicato le raccolte La città internaPrimo Quaderno Italiano Poesia contemporanea (Guerini e Associati, 1991), Progresso nelle nostre voci (Mondadori, 1998), La forma innocente (La collana, Stampa, 2001), Condominio delle sorprese (Mondadori, 2008).
Come artista visivo ha esposto in mostre personali e collettive, in spazi pubblici e gallerie private, in Italia, Svizzera, Islanda e Stati Uniti. Hanno scritto del suo lavoro Pierre Restany, Rossana Bossaglia ed Elena Pontiggia.
La sua ultima mostra personale
 Le (n) meraviglie del mondo è in corso presso la galleria milanese The White Gallery.http://www.nicolavitale.com/


Giovanni Schiavo Campo - Parmenide

Parmenide - L’essere uno
I frammenti del poema tradotti da Giovanni Schiavo Campo

Tradurre Parmenide ha rappresentato per me soprattutto una prova dei mezzi che avevo acquisito grazie a una spiccata curiosità verso ogni problema di decifrazione, di comparazione lessicale e etimologica, attraverso escursioni nel campo delle mitologie e delle religioni soprattutto antiche. La cornice in cui s’inscrive questa traduzione è quella di un itinerante dialogo che riannoda antichità e contemporaneità, senza sottrarre il filosofo alla responsabile paternità acquisita verso noi moderni; ma anche senza trascurare il diverso sfondo di cultura, di pensiero, che ci distanzia dopo oltre due millenni e mezzo. La difficoltà di collocarsi nella giusta angolazione dipende anche dal capire in che cosa Parmenide ci è contemporaneo e in questo anche maggiormente fraintendibile. Era d'altra parte per me un tentativo doveroso, al culmine di un interesse che mi ha spinto a frequentare i testi dei primi pensatori greci, cimentandomi già con autori come Eraclito o Empedocle ma senza mai pensare di proporne un'edizione. Non potevo affrontare Parmenide in modo così episodico. Il corpus parmenideo non è una miscellanea di aforismi molti dei quali d'incerta attribuzione: presenta tutt'altra compattezza, e non è nemmeno comprensibile smembrato, perché verte su un'intuizione che dà luogo a un unico discorso coerente dall'inizio alla fine. In fin dei conti ho cercato di contribuire a restituirne la suggestione poetica. Chi sarebbe in grado di sostenere un'operazione simile senza accostarsi passo passo all'esperienza di questa visione diretta dell'essere, cercando di intessere in un solo canovaccio intrecci di significati messi a confronto con reperti personalmente vissuti e dimenticati; gli uni e gli altri, riconsiderati alla luce di quel disegno che l'essere mostra integralmente? Insomma l’essere parmenideo pensato a fondo può diventare un’esperienza trasformatrice. E come ogni esperienza va poi resa nota, giustificata agli occhi dei contemporanei. Per fortuna Parmenide è un pensatore che facilita molto questo compito. Da quel monumento filosofico che, come un “Commendatore di pietra”, si erge all'ombra di Platone e Aristotele, l’Eleate è tornato con il '900 a occupare il suo giusto posto di iniziatore. Al di là delle traduzioni e degli studi specialistici, all'ordine del giorno, ciò che forse più contribuisce a avvicinarlo a noi è la sensibilità verso due ordini di problemi: la logica e la linguistica. La linguisticità dell'essere è uno dei tratti più coerenti e attuali di Parmenide. Fa tutt'uno con il pensiero logico dell'essere. L'essere parmenideo si innesta sullo sfondo di una teoria della verità fondata sul segno come indicazione. Il segno, verbalizzato o meno, resta il fondamento linguistico dell'essere. Non l'assenza di qualcosa di non più presente si desume dall'indicazione. E' caratteristica del segno essere invece pertinente, come indizio e rimando di questa presenza, benché come pienezza ormai virtualmente solo del segno, a un'integrità totale che fa della traccia il calco, in negativo, e consente quindi di leggerli l'una, la presenza, attraverso l'altro, il segno; di riferirli a un tutt'uno e di predicarli veritieramente identificandone la corretta attribuzione all'unità di provenienza. La teoria della verità si fonda dunque sul segno siccome appartiene alla struttura della cosa denotata: occorre solo identificarne il riferimento pertinente, la realtà cui rimanda. L'identificazione si offre con piena autoevidenza riguardo alla cosa cui si riferisce e ne costituisce il criterio di verità. Al di là del conosciuto, che consiste prima di tutto nella possibilità di identificarlo - conoscenza che rimane nell'ambito dell'opinione finché non viene acclarata nella sua univoca identità e specificità -, la mente non può rifiutarsi anzitutto di riconoscerne la presenza. Non soltanto i sensi ci attestano la consistenza delle cose che ci circondano. Il segno è una struttura di rimando che mette in luce l’intrinseca logicità della relazione essenziale con le cose, che permette di nominarle.
Vi è però anche un terzo motivo che giustifica l’interesse della riproposta di Parmenide: la cosmologia. Molte delle conclusioni cui pervengono i cosmologi contemporanei appaiono in Parmenide già anticipate e formulate su base logica, e se non vi si dà peso non è forse per una svista o per scarsa diffusione del greco antico: è solo perché paiono in qualche modo sminuire l'approccio cosmologico che pure ha tanto contribuito al successo dell'immagine scientifica. Come può essere mai accettabile la critica parmenidea del concetto di genesi dal nulla dal punto di vista dei sostenitori della teoria dell'universo in espansione? Si leggano le controargomentazioni parmenidee a questa ipotesi, così come quelle alla teoria, accennata ma inequivocabilmente presente, di "universo parallelo": “Nè da cosa ha essere è mai lecito aver forza di credere che vi cresca qualcosa a fianco”. Si può ritenere che il filosofo si mantenga su un altro piano rispetto al contenuto scientifico ipotetico? Che filosofia e scienza non si riferiscano alle stesse conclusioni, solo perché l’aspetto divulgativo della teoria scientifica è un'approssimazione a un nucleo intuitivo esprimibile a rigore in equazioni matematiche? Gli scienziati sanno bene che questo è vero solo in parte, altrimenti non si preoccuperebbero della veste divulgativa delle loro scoperte; né di darne descrizione attraverso formule come “Big Bang” o “massa oscura”. Proprio di queste espressioni, e della loro efficacia, è di avere precedenti in mitologie, cosmogonie, teogonie, spesso desunte da civiltà decadute il cui recupero concettuale non ha interferenze con modelli teologici attuali. Caso tipico: i “buchi neri”, metafora quasi letterale dello spagnolo cenotes, che indica quei pozzi naturali scavati in profonde cavità sotterranee che gli antichi Maya associavano al culto delle acque e degli inferi. La scienza, malgrado i suoi sforzi, non si sottrae mai del tutto all’eredità metafisico-teologica che si porta appresso, ma che lungi dal costituire un peso è piuttosto la fonte dei suoi sviluppi. Ogni passo in avanti sul terreno scientifico equivale, in quest’ottica, alla neutralizzazione di un corrispondente concetto teologico-religioso, reso alla portata empirica di un utilizzo. E in questo la scienza compie la missione assegnatale dalle sue origini, come residuo laicizzato di pratiche magiche, sciamaniche. Sottolineare la distanza tra quei riti primitivi e la raffinatezza dell’immagine della scientificità moderna può forse rincuorare qualche ispirato sognatore: ma è un fatto che gli obiettivi perseguiti non si sono affatto modificati nel corso di quest’evoluzione.
D’altra parte, per cogliere la portata del discorso parmenideo, non è da trascurarne il richiamo (come anche nei confronti di tutta la filosofia presocratica in genere) costante del primo Novecento: presupposto di un nuovo inizio che giustifica la svolta concettuale operata dai fondatori della cosiddetta nuova fisica. Lo stesso universo quantistico potrebbe iscriversi in una prospettiva, secondo Husserl, di “ritorno alle cose stesse”: di un nuovo ordinamento in cui inquadrare l’esperienza di fenomeni che introducono a orizzonti diversi dalla realtà più prossima e immediatamente percepibile. In questo l’appello a Parmenide vale come necessità di mantenersi, anche a questo livello, a un grado di concretezza ontologica, di imprescindibile attinenza a un mondo in cui le “cose sono e non accadono”, al di là dell’apparente paradosso di ricorrere, per spiegarle, a un linguaggio e a una terminologia niente affatto comuni. Alcuni degli sviluppi della fisica più recente misurano la distanza dalle matrici culturali di queste stesse idee cui debbono la propria origine, reintroducendo antinomie che si credevano, evidentemente a torto, superate insieme alla vecchia metafisica.

Milano, agosto 2002

Fr. 1
quelle cavalle (1) che il proponimento (2) seguito tanto sopravanzano,
mi incitano a proseguire, poiché ebbero proceduto
fin sul cammino che alle città al di sotto
a tutte reca illustri lumi del signore (3) di molte profezie (4).
Sopraggiunto là condottovi; là mi trasportavano difatti
le molto ponderanti cavalle, trainanti il carro,
mentre mostrando la via fanciulle precedevano.
Sibilo ai mozzi imprimeva velocità l'asse
delle ruote sprizzanti scintille (giacché sollecitato
da due ben torniti anelli a entrambi i lati)
dal momento che si affrettavano a guidare il corteo
le giovani figlie di Elio, lasciandosi della Notte alle spalle le case,
fino alla luce, scostando con le mani i veli via dalla testa.
Sono qui i battenti dei cammini del Giorno e della Notte,
e li sorreggono da una parte e l'altra l'architrave e il limitare di pietra;
questi con grandiosi portali lo spazio occupano fino al culmine:
gli alterni serrami ne custodisce Giustizia dura castigatrice.
Le giovani allora con delicati argomenti le rivolsero parole carezzevoli.
Persuasa con accortezza, di modo che il passaggio lasciasse forzare loro
sbloccandolo dalla sbarra del chiavistello delle ante;
queste allora procurarono l’apertura completa dei portali alati
di bronzi preziosi agli assi nelle sedi dei cardini ruotanti
in senso alterno alle giunture e ai fermi ribattuti. Per di là dunque,
per la diritta via maestra le giovani presero al seguito carro e cavalle.
E la Dea benevola fattomi cenno, afferrando con la mano la mia destra,
proferì così parola e mi apostrofò: "Giovane, compagno di guide immortali,
con le cavalle che ti hanno condotto finché sei pervenuto ai nostri domicili,
sii lieto, poiché non infausta fatalità ti ha inviato a piegare per questo sentiero
(per questo non battuto dagli uomini) ma rettitudine e equità.
Occorre d'altronde che tutto tu venga a conoscere
sia non mutevole cuore di ben circolare verità (5),
sia le convinzioni dei mortali, in cui non vi è veritiero affidamento.
Eppure di tutto senza eccezione avrai disciplina e anche di questo,
come le parvenze sensibili convengono essere per forza maggiore
tutte per via di tutto proprio quello che sono

Fr. 3
avere essere e concepimento è infatti lo stesso

Fr. 2
accogli da me l'esposizione che enuncerò mentre ascolti,
quali siano le uniche vie di ricerca da concepire:
del Convincimento è la via che è e non è altrimenti
siccome non è senza essere - vi conduce infatti a verità -,
oppure siccome non essere, siccome è destino non essere,
ti dichiaro il cammino non perscrutabile.
Giacché niente di certo intenderesti (difatti non è possibile)
né sapresti darne spiegazione (6)

Fr. 4
da dove iniziare per me è tutt'uno. Poiché a quel punto giungerò di nuovo

Fr. 5
cose benché distanti osservale saldamente presenti alla mente:
l'essere difatti non ne rescinderai dell'essere che custodiscono (7)
né come se per il cosmo disperse completamente dappertutto
né come se l'un l'altra associate

Fr. 6
questo è certo, mai soggiogherai l'essere al non essere
ma l'intendimento da questa via di indagine respingi lontano
né cammino molto sperimentato ti pieghi consuetudine per questo
a forza a rivolgervi la vista sconsiderata e l'udito frastornato e la lingua,
discerni invece con ordine la molto controbattuta contro argomentazione
condotta a termine in olocausto di me stesso

Fr. 7
l'essere è indispensabile intendere e affermare permanere costante:
è difatti essere, d'altronde non è senza essere: questo ti spingo a testimoniare.
Perciò da queste investigazioni iniziali ti storno dal cammino
e inoltre da quello appresso il quale i mortali nulla sapienti
s'imbattono tra vane effigi vagando, a due teste (8).
Giacché incertezza di loro stessi dirige l'intendimento vacillante negli animi (9).
Questi sono trascinati come sordomuti, ciechi, stolidi, gente senza criterio,
per i quali considerando medesimo e pure non lo stesso
sorgere e non avere luogo, corso di tutto è rivolgimento di contrari

Fr. 8
altro non resta in seguito fuorché l'esposizione della via per cui è (10).
Su questa vi sono numerosi indizi più incisivi, che essendo che cosa permane
è senza origine e non corruttibile, è difatti integro di membra
e in riposo e già formato senza che lo compia effetto.
Né fu in qualche tempo prima né sarà, poiché è lo stesso ora tutto intero,
uno abbracciato in amplesso (11). Quale generazione ricercherai perciò di esso?
Fin dove e da dove avrebbe modo di espandersi in estensione?
Da niente di non avente essere non ti concedo di affermarlo o di concepirlo. .
Neppure quale non espresso e non concepito è come se non fosse.
Quale elemento di sé e forza maggiore vi avrebbero mai dato impulso,
in precedenza o in seguito, se scaturito dal nulla a espandersi?
Perciò è necessario che sia formato per intero o per niente.
Né è lecito avere mai forza di credere
che da cosa ha essere qualcosa vi cresca a fianco.
Dietro questa istanza Giustizia (12) non concesse che si generi né vada dissolto,
slegandolo dai ceppi, invece lo tiene con mano salda in soggezione.
Il discernimento intorno a questo consiste in questo: è o non è.
Si è allora discriminato, come forza maggiore, lasciando da parte
l'inconcepibile e non pronunciabile (non è difatti di verità la via),
l'essere invece come elevazione e integra realtà.
Come essendo sconterebbe dunque conseguenze che lo manderanno in rovina?
In che modo lo si sarebbe fatto sorgere? Se ha avuto origine infatti non è;
e neppure sarà sul punto di aver luogo in qualche tempo.
Così il generarsi si riduce in cenere e la morte in arcano.
Neppure è afferrabile suddiviso in parti, poiché è tutto concorde.
Niente di eccessivo lo inibisce dal rimanere avvinto stretto,
nemmeno niente di meno, sussiste invece essendo tutto pieno.
Così stretto in abbraccio è tutto. Essere difatti si congiunge all'essere.
Ciò nondimeno immobile in costrizione in grandi vincoli senza estremità
e inesauribili, giacché molto lontano sono stati rigettati origine
e dissolvimento e li ha respinti veramente indubitabile.
Medesimo nel medesimo riposa in se stesso persistendo d'eguale aspetto
e per questo si eleva sul posto stesso lì vincolato. Poiché più sovrana costrizione
lo tiene in soggezione nei vincoli dell'approvabile, che lo racchiude da ogni lato,
essendo decreto dietro istanza di questo essere non senza compimento.
Infatti è senza difetti. Essendo altrimenti se no tutto mancante.
Stesso d'altronde è concepire e l'istanza per cui sussiste il concetto.
Non ritroverai infatti il concepire in mancanza dell'essere in cui si presagisce.
Giacché nient'altro è o sarà all'infuori dell'essere, poiché Fatalità
lo imprigionò irremovibile intero e soltanto a essere.
Saranno di questo denominazioni tutte le voci che i mortali si propiziano
illudendosi essere nondimeno veridiche, crearsi e dissolversi, essere
eppure non davvero, mutare luogo per alternare brillante scambievole colore.
Diversamente invece per aver termine agli estremi comprovabili,
è condotto a compimento dappertutto, simile a ben tondo splendore di sfera.
Questo perché a niente è indispensabile che di più grande o di infimo
si appropinqui né a l'uno né a l'altro. Neppure essendo quale non è,
se lo si facesse mai cessare di giungere fino all'identico,
né essendo qual è, se mai lo si sbilanciasse a essere in proporzione per un verso
maggiore, per altro al contrario in misura inferiore (13), poiché è tutto fortificato.
Giacché proporzionato dappertutto, urta uniformemente in comprovati limiti (14)

Fr. 8 (b)
ti concludo con questo l'argomento indubitabile
e concetto da qualunque lato pertinente a verità.
Le convinzioni dei mortali su di questo abbi scienza
la costituzione artificiosa ascoltando qui dalle mie parole.
Giacché sono soliti apporre nomi a due contrassegnati simulacri;
non vi è l'uno di più indispensabile - e in questo sono in errore;
considerandoli del resto immagini isolate e propiziandosene i segni
indipendentemente gli uni dagli altri: là ardore etereo di fuoco,
appassionata natura, di grande sveltezza, identico con lo stesso dappertutto
ma con l'altro non congenere, l'altro d'altronde secondo se medesimo
tutto intorno avviluppata oscura notte, figura densa e compatta.
Tutta questa disposizione all'apparenza verosimile io ti illustro,
sì che in nessun modo non ti assoggetti nessuna massima dei mortali

Fr. 9
Giacché luce e notte a ogni cosa allora è stato dato nome
e secondo le potenzialità inerenti sopra le une o le altre,
del medesimo tutto è pieno di luce e di notte senza parvenza,
eguali l'una all'altra, poiché niente è al di fuori di entrambe né l'una né l'altra (15)

Fr. 11
come la terra e il sole come ugualmente la luna
la volta aerea e l'urania partecipe galassia e l'Olimpo più alto culmine
e degli astri il caldo vigore a manifestarsi hanno ricevuto impulso

Fr. 10
scruterai con la mente il filo delle vicissitudini della volta celeste
e tutte nel firmamento le semenze e dell'incontaminata lampada
del sacro sole l'effetto che nasconde e da che cosa sono stati originati,
e del pellegrinante orbitare del rotondo occhio della luna osserverai l'azione
e delle vicissitudini il filo, d'altronde avrai presenti e il cielo tutto intorno
reggente da dove ha avuto vicissitudine e come Forza maggiore lo stringe
in vincoli incalzandolo a tenere imbrigliate le orbite esperite degli astri

Fr. 12
piene di puro fuoco sono state concepite le più circoscritte
e di notte invece al di sopra di quelle, con una porzione insieme di fuoco
che le penetra. Signore al centro di queste regge tutto.
Tutto governa infatti e al congiungimento e al duro parto
richiama la femmina a unirsi al maschio
e viceversa di nuovo il maschio alla femmina.

Fr. 13
Eros di tutti gli dei per primo ha concepito nella mente

Fr. 14
luce contornata da altro di notte intorno alla terra pellegrina

Fr. 15
con l'occhio sempre cercatrice i raggi in direzione del sole

Fr. 15a
acquatiche radici

Fr. 17
a destra giovani, fanciulle invece a sinistra

Fr. 16
come ciascuno infatti delle molto mobili membra
ha facoltà di composizione così in dominio agli uomini perviene l'intendimento.
Poiché stesso è il modo con cui la natura dà agli uomini
il senso delle composizioni in tutti e in tutte le cose. E’ infatti pieno concepimento

Fr. 18
allorché maschio e femmina i semi di Venere mescolano insieme,
qualità da sangue diverso infondendo nelle vene,
corpi modellano ben conformati conservandosi l'equilibrio.
Poiché se combinato il seme le qualità contrastano,
né costituiscono nel corpo una sola commistione, crudeli
il sesso del nascituro vesseranno col duplice seme.

Fr. 19
queste cose per credenza avvenute in questo modo e così sono adesso
e in seguito alimentate da ciò avranno compimento. A queste
tuttavia gli uomini acconciano nomi propizi ciascuno contraddistinto.

Note
La presente traduzione è stata condotta sulla falsariga dell’originale greco della versione di Giovanni Reale, cui si rimanda per le problematiche di ricostruzione filologica. Sono stati omessi anche i riferimenti alle fonti antiche, la cui principale per la conoscenza di ampie parti del poema è Simplicio, citate dallo stesso Reale e da altri autori. La numerazione a fianco di ogni frammento è quella del Reale e ne segue in linea di massima l’ordinamento, a parte alcune personali interpolazioni finalizzate a rendere un senso più coerente e compiuto del testo.

1) L’avvio è quello di un cammino che si snoda ascendendo verso un luogo sopraelevato da cui si gode una vista che domina dall’alto (le “città al di sotto”). E’ una “theoria”: propriamente un corteo processionale. Il theorein è visione e al tempo stesso percorso, esperienza che si compie e manifestazione di quanto contemporaneamente si va apprendendo. In chiave di insegnamento si riveste di immagini allegoriche; come viaggio si mantiene sul terreno epico-mitico: il nodo di una duplice opzione interpretativa non sembrerebbe destinato a potersi sciogliere, almeno nel senso che l’ispirazione da cui il poeta-filosofo si sente trascinato non esclude l’intento programmatico di portare a termine ciò che si è intrapreso. E’ il mithos del poema, l’esposizione con cui l’espressione si accorda alla verità: può farsi portavoce di un’esperienza. In che modo il theorein è garanzia della visione che prende vita? In quanto cammino cui si è già avviati: o dovremmo forse dire, piuttosto, “iniziati”, per intenderne l’atmosfera con cui il discorso si carica di valenza sacrale in una sorta di ritualizzazione celebrativa. Forse per questo, al posto dell’invocazione alla musa, compaiono le cavalle: come se la direzione segnata non avesse bisogno di appellarsi preliminarmente a una fonte ispiratrice che, dal punto di vista del poeta epico, rappresenta l’esigenza di una pausa di concentrazione prima di calarsi nei meandri del racconto, ma è soprattutto un richiamo alla veridicità dei fatti narrati. Le cavalle invece immergono subito nel clima degli eventi, cui danno un potente stimolo all’immaginazione, assurgendo insieme a emblema della forza del proposito che fa da filo conduttore. D’altra parte a sostegno di un’interpretazione allegorica dell’incipit, o dell’intero discorso, si può forse addurre un altro ordine di considerazioni: che alla musa, depositaria di sapere (“mous’ennepe moi erga...” come per esempio nell’Inno omerico ad Afrodite), subentra invece poco dopo la dea, per bocca della quale prende corpo l’annuncio dell’essere, quasi si trattasse in questo caso di una presa di contatto diretta, senza intermediari, della realtà stessa evocata e che, d’altra parte, anziché dover essere ridestata da un passato immemoriale, si fa qui ora presenza svelata dalla divinità come una sorta di particolare privilegio concesso all’ascoltatore. E’ anche questo un passaggio significativo da cogliere; come se all’impronta sonoro-auditiva che l’epica rianima sul filo dell’oralità si sostituisse un nuovo approccio visivo; il quale mostra da un lato sì una straordinaria capacità plastica sul piano della figurazione, ma che è anche forse indice del paradosso di cercare di far rivivere il mito nelle forme del passato epico essendone al contempo costretto a distaccarsene. Di questo anacronismo Parmenide non poteva certamente non essere consapevole.
2) "thumos" come indice di manifestazione di volontà, in accordo con Snell (La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1963) e altri in riferimento a come il termine viene impiegato nel contesto dei poemi omerici.
3) cfr. il lat. "dominus", “signore”: del resto come noi anche il greco distingue "dios" e "daimon". Per una discussione sul termine aggiungo le seguenti ulteriori specificazioni. Nel daimon si ritrovano contemporaneamente l'idea di 'luce' (dais), in particolare di luce degli astri (si-dus, -eris), e la radice -da, indicante la terra nella sua natura spazializzante, datrice di direzioni coordinate, in un gioco di rispecchiamenti tra il cielo e la terra, che si desume anche da un termine come per esempio 'semenza', con i suoi risvolti insieme concreti e terrestri, nel senso di seminagione, e allusivi ancora una volta alla natura stellare (l'espressione 'semenza delle stelle' appare assai meno metaforica, considerata in riferimento alla pratica antico babilonese di osservazione celeste mediante un semplice attrezzo agricolo, il tubo-seminatrice, che sembra non differisse granché da una 'specola' come quelle usate anche agli inizi dell'astronomia occidentale). Alla disseminazione si ricollega il significato abituale di spartizione, in tal caso delle carni dell'animale sacrificato per la celebrazione in comune del banchetto cui presiede appunto il daimon, il signore. Con ciò daimon s'identifica con la natura divina che subisce uno smembramento, in concordanza con il mito di Dioniso-Zagreo, che si può ricondurre infine a un'istanza di suddivisione stagionale e calendariale del tempo su cui si fonda la molteplicità della vita. Un'idea analoga si ritrova nei Veda in cui la divinità solare Suryia viene sacrificata dagli dei affinché la sua luce venga ugualmente distribuita nel corso dell'annata a vantaggio di tutti gli esseri. Quindi, in una dialettica uno-molteplice, il daimon lo si ritrova propriamente sul versante del molteplice. Parmenide segue dunque la traccia che dal daimon conduce all'en, all'uno divino nella sua interezza, che può essere colto speculativamente dal pensiero, ma cui alludono nel loro significato ultimo anche tutte le immagini che si presentano lungo la molteplice strada (in questo senso 'di molte profezie') del daimon. Il daimon si potrebbe d’altra parte anche intendere come nume tutelare, che assicura la continuità del ghenos, la trasmissione ereditaria di generazione in generazione. E' la credenza che le buone disposizioni degli avi vengono raccolte dai successori. Il daimon più che una caratteristica individuale e unica sembra in questo senso fare riferimento a una collezione di doti di coraggio, intraprendenza, vigore, che passano dal capostipite agli eredi. L'idea di costellazione è una delle valenze implicite nella parola nel rimando implicito alla natura siderale cui si è accennato poco sopra. Qual è tuttavia la modalità di questa trasmissione? L'ereditarietà diretta sussiste nel rapporto tra avo e discendente, ma non è scontata tra congiunti stretti come padre e figlio nel senso di uno scambio tra persone in vita. Il valore della personalità, siccome ciò che viene propriamente tramandato, si dimostra piuttosto come capacità di assumere la posizione di responsabilità che costituisce il vero lascito di padre in figlio. In questo l'avo svolge un ruolo di propiziatore cui rivolgersi per ristabilire il filo della continuità tradizionale. E' come se ogni qualvolta occorresse ristabilire il legame gentilizio, che è anche un modello di ordinata successione generazionale, riattualizzando l'esempio del fondatore della casata che ne ha assicurato la perpetuazione, cedendo al discendente le sue prerogative. Questo avvicendamento spontaneo, senza conflitti, è ciò che appunto differisce dai racconti delle lotte primordiali per la successione rispecchiate dai miti teogonici; ma è anche un ordine affermatosi nel tempo, l'insorgere di una coscienza che ne segna l'evoluzione, la prospettiva storica: come un tempo della luce che subentra all'oscurità delle tenebre circa le origini. La proiezione di tutto ciò si ritrova nella dimensione cosmica del mito, che attinge alle valenze significative della parola.
4) "polufemon" trova anche in italiano rispondenza nelle parole "fama" e "fato". Di qui una possibile traduzione del participio come 'presago'. Il presagire sottende la visione profetica in virtù della quale il veggente diventa il saggio conoscente, il rsi.
5) Circa il valore indicativo del concetto di verità si consideri quanto segue. Vero è "ciò che può essere indicato", lett: a-leth-ei "non-senza-questo qui"(dal tema pronom o-, e- cfr. eo, eio, ou, lat sic). A-lethes = che non richiede dimostrazioni, meglio: il non faticoso (teino - distendo, prolungo, mi sforzo – da cui Tantalo -; lt. Late - latus - largamente; lassus: spossato, estenuato). Formazione di alethes: a (priv.) + la (raff.) + ten (tendere, complicare; distendere le ali per coprire, tipico per esempio di alcuni uccelli che proteggono il nido) - sic thanatos = tan (disteso) dall'ate (l'oscurità, l’errore), connotazione medica: la morte come complicazione; ma forse, piuttosto, da intendere tan-natos, quindi "disteso nato", cioè tornato alla posizione distesa al suolo al momento della nascita -. Il "nascere" (lt. nasco) presuppone uno stato di nascondimento, di raccoglimento entro il grembo materno; si nasce infatti "nascosti", ossia venendo alla luce; al contempo il nascere presuppone la fatica del parto: ecco dunque un collegamento per il -n in la-n-thano. Ricapitolando: la (raff.) -n- (per "nasco", "nascosto") than- per ten "disteso": "disteso per il nascituro", con un'analogia tra lo stendere le ali (dell'uccello che protegge il nido) - e quindi con allusione velata al mito pelasgico della covata del luminoso uovo cosmico - e distendere le membra per consentire il parto. In greco "neos", giovane, si collega a neomai "vado, vengo, parto, ritorno"; anche in italiano il verbo "partire" si presta allo pseudo-participio "il parto". Non c'è andata cui non segua il ritorno. La a privativa in alethes d'altronde rimanda a un implicito innatismo: quello che è "innato", che si genera spontaneamente senza fatica, non ha neanche bisogno di essere dimostrato; si offre per conto proprio, è facile, potremmo dire "istintivo"; fa parte di un processo di crescita, di sviluppo, che rientra nel piano dell'organizzazione naturale di un determinato essere. D’altra parte non è infine da escludere alla base del concetto greco di verità un prestito lessicale dal sumero Ti che nella sua duplice valenza fonetica significa sia “arco” che “vita” (identità d’altra parte sottolineata da un frammento di Eraclito: “vita è il nome dell’arco ma procura la morte”). Per un equivalente del significato di “vita”, “esistenza”, per la formazione dell’italiano “verità” bisogna risalire all’islandese “vera” e allo svedese “vara”, forse per il tramite di un supposto germanico wår.
6) A portare all’affermazione monistica dell’essere è l’impossibilità logica dell’alternativa “è”-“non è”. Dal momento che le parvenze sensibili sono, anche se possono essere male interpretate nella loro vera natura, il “non è” è escluso, la fonte del dubbio eliminata. Il dubbio, anche come metodo, porta all’affermazione dell’essere. Infatti l’affermazione esclude di principio appunto la negazione che lascerebbe far supporre l’eventualità di una alternativa. Questa alternativa, al vaglio dell’affermazione che è più forte, più convincente, si dimostra invece aleatoria e perciò il dubbio stesso decade, svanisce. In questo modo le strade di ricerca plausibili sono soltanto due, mentre una terza eventuale rispecchierebbe solo un’incertezza del pensiero generatrice di totale confusione: o si afferma l’essere con tutto ciò che ne consegue sul piano teorico e pratico, o lo si nega. La negazione radicale conduce però a una via inesprimibile, al di là del pensiero e perciò della realtà.
7) Si avverte qui la reviviscenza di un antico significato dell’essere come “custodia”, che si presta a accreditare una distinzione di valore, col passaggio da essere a proprietà essenziale. Questa prospettiva configura una vera e propria sottrazione di essere siccome mancanza di proprietà che motiva la nozione di "non essere", contro cui si oppone l'obbiezione parmenidea, che potrebbe forse essere ricondotta a qualche analisi marxiana, che “l’essere è” e perciò “non è senza essere”: ovvero tutto è reale al di là del tentativo di ordinamento categoriale che subordina ente a ente. Accezione già inscritta nel sanscrito, la cui base fonetica è la stessa che ha improntato il successivo sviluppo delle lingue indoeuropee, ma con un'ineliminabile traccia dell'oscillazione tra le funzioni ausiliari dei verbi "avere" e "essere". E' alla luce del pensiero parmenideo che questa indeterminazione, al di là del riscontro linguistico, cioè che effettivamente in origine l'ausiliare fosse uno solo assommante entrambi i significati, consente di equiparare avere e essere e di tradurli come un "avere essere". Questo si giustifica senz'altro nel contesto di una terminologia filosofica in formazione, dunque con un ancoraggio ancora molto forte nella concretezza dell'uso.
8) Letteralmente: “... e inoltre da quello che i mortali nulla sapienti vanno figurandosi, a due teste”. Che il dichranoi debba attribuirsi ai mortali è chiaro per via della concordanza di genere. Il senso è però figurato e allude forse piuttosto a un’attitudine di pensiero che porta a creare delle chimere, delle immagini fantastiche che in sé non comportano nessuna concezione positiva. All’origine stessa della figurazione chimerica vi è d’altra parte un’idea di trasformazione della natura che va incontro alle variazioni stagionali, fondata quindi sull’alternanza dei periodi di luce e di buio nel corso dell’anno. L’incidenza che questo comporta anche sul piano psicologico-esistenziale di una condizione vissuta come affermazione o negazione è ciò contro cui si direbbe volersi opporre Parmenide. Spunto polemico sottolineato dal palintropos dei versi seguenti in cui si può leggere anche un riferimento al corso apparente del sole, che sembra appunto cambiare lato da una stagione all’altra come se effettivamente si trovasse a compiere una rotazione intorno alla terra, sensazione che una più approfondita riflessione dimostra invece semplicemente illusoria dal punto di vista della realtà astronomica. Palintropos significa appunto "rivolgimento": il corso del mondo è una trama di rivolgimenti apparenti, come nell'alternanza giorno e notte su cui gli uomini regolano i loro comportamenti. L'alternanza si trasferisce alla regola delle stagioni, al corso dell'annata che ha i suoi punti di svolta nei solstizi. L'apparente rotazione dei cieli fa sì che il sole invernale appaia più basso e spostato verso sud: l'osservazione si rivolge dunque verso questo punto cardinale, mentre d'estate si fissa su una traiettoria più alta e per così dire a nord. Tutto questo è inerente alla natura dei nostri sensi, ma non vuol dire che sia il sole a trovarsi a sud o a nord: a cambiare è solo il punto di osservazione terrestre e cambia tanto più ci allontaniamo dalla linea dell'equatore. Ecco allora che la nozione di "tropico", sottintesa nell’espressione palintropos, acquisisce tutta la sua pregnanza calendariale che fa di questo movimento quello che veramente percepiamo. Tuttavia questa nostra percezione non è da confondere con la realtà astronomica nei cui confronti il sorgere e il tramontare diventano aspetti relativi, anzi correlativi. Noi desumiamo, o per lo meno gli antichi desumevano, da queste fasi di aumento e di decrescita della luce proprietà inerenti al sole che ne è responsabile: ma proprio in questo arrivando a mescolare fisica e metafisica, osservazione e spiegazione. Se il riferimento calendariale è legittimo, il tipo di figurazione cui si fa cenno l'espressione "a due teste" è in qualche maniera analogo alla rappresentazione dell'anno come un animale immaginario, metà leone, metà serpente; o, come la chimera etrusca, con un ulteriore testa di capro che irrompe a metà del busto. Il contesto mitico da cui il filosofo deve discostarsi per enunciare la sua teoria resta sul piano dell'ambiguità dell'enunciazione che forse tiene anche conto del gusto di un pubblico abituato a enigmi di questo genere.
9) L'idea che i mortali si fanno di quanto sanno o credono di sapere delle cose trapassa in uno stato d'animo di incertezza di loro stessi. In verità di quello che è l'essere non sanno niente: si figurano il nulla che invece è come una creatura a due teste, perché da un lato lo considerano alla stregua dell'essere; dall'altro perché manca di qualsiasi riscontro ancorabile a un'idea positiva, perché non è nemmeno raffigurabile. Non sembra che Parmenide intenda negare valenza conoscitiva alla figurazione mitica, di cui si avvale d'altronde nel costruire il poema. La facoltà degli uomini di usare la fantasia come mezzo e strumento del pensiero appare salvaguardata dalla realtà integrale e comprensiva dell'essere nel pensiero e del pensiero nell'essere. Tra essere e pensiero intercorre una sorta di specularità che li rende vicendevolmente comprendentisi, anche se le raffigurazioni, prendendo spunto da qualcosa, devono sottoporsi all'antecedenza logica dell'essere come misura generale del capire e del pensare per risolversi nella piena identificazione della cosa conosciuta nella sua natura. Si passa invece dalla "finzione" necessaria della figurazione mitica alla dimensione soltanto "soggettiva" dei mortali ("a due teste" appunto perché dai frutti della loro stessa immaginazione finiscono per vivere una sorta di scissione autoillusoria) quando si misconosce la facoltà di immaginare e se ne fa il presupposto, non solo di chissà quali realtà inesistenti, ma infine di una valutazione che coinvolge l'essere nel suo insieme: di un giudizio che ne stabilisce l'insussistenza dal dissolversi di queste finzioni.
10) Questo punto appare la conclusione di quanto Parmenide ha esposto in precedenza arrivando a escludere la “via” che conduce appunto a negare l’essere. E’ tuttavia evidente la difficoltà di stabilire la successione dei frammenti sulla base di una priorità del tutto univoca. E’ come se l’argomentazione man mano li introducesse e li presupponesse; ma questo del resto rispecchia l’intento dichiarato (Fr. 4) di voler procedere circolarmente, tornando ogni qualvolta al punto di partenza.
11) Molto prima di tradurre queste parole mi resi conto di un enigma che richiedeva spiegazioni. Il momento è il culmine dell'esposizione della via lungo la quale la Dea ha condotto Parmenide fino alla soglia dell'affermazione dell'essere, al "cuore senza oscillazioni" della "verità". Eccone dunque gli "indizi più incisivi", i segni che ne danno indicazione: permanente, integro, compiuto, presente come un tutt'uno sempre attuale. Dietro quest'ora senza tempo, passato e futuro sfumano senza successioni. Nulla di ciò che riguarda l'essere si presenta sotto il profilo temporale. L'essere appare l'unità compiuta che regge l'insieme molteplice delle opposizioni correnti che si alternano secondo un prima e un poi: estate e inverno, giorno e notte, nascita e morte. Una dopo l'altra, nello sviluppo dell’argomentazione, le ipotesi cosmologiche, trascrizioni della contradditorietà delle immagini sensibili, della molteplicità delle esperienze attestate dai sensi, vengono raggruppate e confutate. Origine dal nulla, espansione, conflagrazione e distruzione, universi plurimi o paralleli, rappresentano un esauriente catalogo delle teorie sull'esistenza del cosmo. L'odierna cosmologia scientifica dibatte gli stessi paradossi. Se Parmenide può riferirvisi con tanta puntualità è perché può desumerli da un più antico repertorio di miti, teogonie, cosmogonie: immagini veramente archetipiche delle antinomie dell'essere che costituiscono il terreno di coltura tanto della scienza come delle religioni. Come la teologia, l'immagine della scienza sorge su un edificio in continua costruzione, i cui motivi confluiscono l'uno nell'altro, danno luogo a tentativi di integrazione, quasi sempre parziali e sincretistici; raramente a vere sintesi. Fin dagli inizi, con Parmenide, la filosofia si aggira intorno a questo duplice versante, scientifico e teologico, per rendere conto del carattere davvero compiuto, logico e coerente di ciascuno dei tentativi di spiegazione. Anche il linguaggio per necessità si innalza a questa considerazione ai limiti delle antinomie: deve infrangerle per far percepire la contradditorietà attestata dai sensi e mostrarne l'illusorietà. Al tempo stesso, però, le opposizioni appartengono a un sentire comune che è presupposto dei costumi, delle convenzioni, delle leggi; delle esigenze concrete che forgiano la lingua. E di questa lingua, che non è certo un capolavoro di precisione, è necessario tenere conto. Ecco allora come la costruzione teoretica passa attraverso l'astrazione da ogni elemento particolare fino a isolare dal complesso della verbalizzazione con i suoi modi, passivi o riflessivi, imperfetti o futuri, un'unica voce participiale esprimente l'essere indeclinabile: to eon. To eon si proporrà come modalità di partecipazione, di integrazione unificante delle esperienze; come operazione funzionale a stabilire il ponte tra verbo come potere agente e sostantivazione come grado di specificazione che si esercita attraverso il nome. Il verbo ricade così sul piano dell’ordinamento sintattico delle determinazioni più particolareggiate nell’ambito delle distinzioni tra agente e agito, tra “questo” e “quello”. Di come l’essere assolve a questa esigenza ordinatrice nella sua funzione verbale, dovrà tenere conto la considerazione di che cosa l’essere è in confronto a un supposto “non essere”. La questione non potrà riguardare questo o quel tipo di ordine espresso nella lingua, bensì la facoltà stessa di esprimersi, di dare forma al pensiero nel linguaggio, di riflettere in entrambi quel grado di realtà che ne è il presupposto in quanto limita la possibilità di immaginare qualcosa di diverso. L’essere parmenideo ha dunque per oggetto l’ordinamento che si rispecchia nell’articolazione del discorso: non nella fattispecie di questo o quell’ordinamento ma come capacità ordinatrice, come comprensione logica delle relazioni che governano l’insieme delle cose. Vale qui la pena cercare almeno di ipotizzare lo sfondo delle concezioni che permettono questa enunciazione. Considerare l’essere in analogia con la dimensione del divino appare quasi scontato per un uomo dell’antichità, se ciò oltretutto non venisse rafforzato dalla raffigurazione del proemio. Una terza figura viene tuttavia evocata nell’esposizione di questa sola “via che è”: la Moira, autentica reggitrice della disposizione ordinata del tutto. Anzi, come si può parlare di Muse al plurale, identificando infine ciascun poeta secondo il suo particolare tipo di ispirazione, così anche di Moire ve n'è una per ogni destino singolo. Che si celi dunque dietro di ciò un nome impronunciabile, forse riservato ai più stretti adepti di un culto? Di fronte al problema della nominazione, ci si sente spinti a avventurarsi in un territorio suggestivo, benché difficilmente dimostrabile: quello delle ipotesi lessicali, degli excursus etimologici. La forma to eon ha intanto un'assonanza con en, uno: to eon en, l'essere uno, formula dal sapore quasi liturgico, che sembra fatta apposta per adombrare la via d'accesso alla comprensione teologica del divino. Lo contraddistingue nel poema il fatto di essere asulon, inviolabile, aggettivo che ha riscontri con il verbo auxomai, "cresco", "mi fortifico". Ci si trova dunque in presenza di un'immagine plasmata sul modello della città greca che si sviluppa intorno al sacrario come centro della comunità difesa da solide fortificazioni. Quanto al verbo auxomai, si rispecchia nel latino auxilium, da augeo, mentre asulon-asilum ne sono chiare varianti. Meno evidente è il passaggio da augeo a iuven, "giovane". Iuven-Iovis, Giove, è "il Giovane", colui che porta ausilio, che giunge in soccorso, che reca conforto e aiuto. Come figura del calendario, qual è ancora oggi trasferito al computo settimanale, il suo compito è di giungere a sostegno delle stanche forze dell'anno vecchio. Iovis, in questa veste, è in analogia con Ianus, che detiene le chiavi delle porte solstiziali aprendole al momento opportuno per inaugurare il corso del nuovo anno. D'altronde a Creta sappiamo che Zeus era venerato come fanciullo divino, ragione per cui anche i latini furono probabilmente indotti a identificarvi il loro Giove. Infine a Iuven-Iovis si accompagna Iuno, che una laminetta etrusca di Pyrgi evoca come Uni-Astarte (Ishtar): per via di successive identificazioni si giunge infine alla coppia Uni-Unias del pantheon mesopotamico. Non è il caso di proseguire nell'approfondimento di queste identità che gli antichi rintracciavano - senza nessuna preoccupazione di precisazione “filologica” nel passaggio da una lingua all'altra - in queste denominazioni, sentite come attributi equivalenti di una realtà più universale che investe il divino. Si consideri invece come al "giovane", che tra l’altro, per bocca della Dea, Parmenide rivolge come appellativo anzitutto a se stesso in veste di iniziando, si associ l'idea dell'essere "uno". Il processo di identificazione nel divino, che ha il suo culmine nella religione, segue la filogenesi dell’evoluzione anagrafico-psicologica. Si rintraccia così uno schema che si articola in fasi: dal fanciullo inconsapevole delle potenzialità delle forze procreatrici che lo guidano a diventare adulto, al giovane rappresentante lo stadio che ne compie la maturazione come uomo, capace di distinguere la sfera delle inclinazioni dalle esigenze di ordine più generale in cui si trova coinvolto. Iuven è colui che si avvia a trovare il corrispettivo che lo completi nella consapevolezza psicologica della propria identità sessuale, al contempo suscitando il proprio stesso desiderio di questa feconda polarità di coppia, datrice di continuità generazionale. Inerendo la sfera del desiderio, l'iniziativa che il giovane rivolge alla ricerca del partner si ammanta dapprima di tutte le forme della fantasticheria, dell'immaginazione voluttuosa che ha per centro se stesso, la propria intima soddisfazione. La soglia iniziatica che raffigura lo iuven-iovis consiste infine nel riconoscimento della coppia come aspetto stabile dell'unità articolata secondo polarità distinte. Lo stadio che completa questa evoluzione è presieduto dal dio che "porta a compimento", appellativo di Zeus secondo una delle sue principali prerogative presso i greci. Dunque all'inizio il dio appare visibile sotto forma di personalità di fanciullo, che sorge alla prima luce della coscienza per propria iniziativa, "autogeno" e indivisibile come un "Lui-Lei" assommante in sé tutte le antinomie come potenzialità inespresse. All'unità iniziale subentra la duplicazione attuata dal desiderio che crea le dimensioni spaziali e temporali come esigenza di completamento in un corrispettivo maschile-femminile. Infine la coppia si unisce in una sacra ierogamia fissandosi in maniera stabile nell'identificazione dei ruoli reciproci che ne riassumono l’unità. La straordinaria ricchezza del mito come esemplificazione di questo processo si esprime attraverso immagini evolutive capaci di indicare il grado di compiutezza consapevole che l’individuo raggiunge nel corso della propria esperienza esistenziale. Questo sentimento di compimento lo si può riguardare sotto il profilo dottrinale dell’essere parmenideo, “Giacché tutto proporzionato, urta uniformemente in comprovati limiti” ; oppure dal punto di vista lirico individuale, per esempio in un verso delle Pitiche di Pindaro, “Anima mia non aspirare a una vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile”. Di fronte alla duplice manifestazione del divino che conferisce stabile regolarità nell’alternanza di ruoli complementari nell’ordine visibile, il richiamo all’unitarietà al fondo delle apparenti opposizioni è il compito affidato alla formula to eon en, l’essere uno: quasi un’amplificazione mistica che mette allo scoperto la velatezza del tutto colto sotto forma di intuizione. E questo veramente pertiene al sentire, al concepire (noein) prima di ogni articolazione nel discorso. La sensibilità d’altronde non preclude dal cogliere l’essere, altrimenti davvero si avrebbe un duplice mondo, concreto e ideale; anche la comprensione intellettuale che si realizza nell’ordine raziocinante delle parole si afferra invece prima di tutto attraverso un’intuizione sensibile. Di questo intuire va dunque messa in luce la modalità per cui si esercita su segni evidenti. O per meglio dire, lo spunto ai concepimenti si afferra sotto forma di cenni; al noein fa riscontro il nuo, l’accenno che segnala il favore o il disfavore siccome rientra in un ordine oracolare retto dal potere della parola. Invece di “concepire” si potrebbe davvero intendere il noein, e tradurlo di conseguenza, come facoltà di “cogliere i cenni” facendo così coincidere il piano della verità dell’essere con l’esposizione dei segni realmente colti e riarticolati al superiore livello dell’organizzazione logico-discorsiva. Favore e disfavore investono l’interrogante, lo mettono di fronte alla sua capacità di interpretare gli eventi, di valutare in un senso o in un altro gli accenni nella loro ambiguità. Perciò il cammino può mostrarsi propizio, sotto gli auspici di “rettitudine” e “equità” che permettono di ben giudicare, così come concludersi in un vicolo cieco senza speranza di trovarvi nient’altro che il frastuono di parole senza senso. L’interrogativo sul significato di questi cenni, in ciò che davvero indicano, pone sul piatto della bilancia tutta l’autorevolezza di una vocazione guidata dalla luce della “predestinazione divina”. Favorevoli diventano perciò quei cenni che indirizzano al compimento, alla riuscita anche personale nello sforzo di ricerca. Sarebbe fuori luogo ridurre il mito a artificio letterario. E’ certo che la rete di metafore che dalle prime battute del proemio immergono il lettore nell’atmosfera del racconto è anche opera di consumata perizia del mestiere. Significa però tradire l’intelligenza del testo considerarlo secondo la duplice prospettiva del mito e del discorso tecnico filosofico come piani distinti. La teoria è invece il cuore dell’esposizione del mito che si sviluppa dalla metafora del duplice cammino, che è una via di avvicinamento le cui chiavi sono altrettanti segnali messi lì apposta per far intendere come, attraverso favore e disfavore, successo e insuccesso (argomenti certo più vicini alla sensibilità degli ascoltatori), l'affermazione dell'essere manifesti la vera volontà divina. Tuttavia Parmenide propone anche un modello etico che esemplifica un accordo tra favore dell’insegnamento elargito e disponibilità a riceverlo. Che il tono autobiografico testimoni di questa esperienza, non ha altro scopo che predisporre chi ascolta a seguire con altrettanto reverente raccoglimento. Parmenide si investe dell’autorità che gli deriva dal fatto di averne per primo udito e accolto la verità. Il valore testimoniale è proprio di un annuncio profetico, che mette in gioco la parola fededegna del narratore appunto perché carica di un vissuto reale. Il cammino sulle tracce personalmente veridiche della predestinazione, getta luce sui cenni scoperti nel corso di questa vicenda. Il narratore è il “giovane”, che, giunto al cospetto della Dea, compie il fato della propria iniziazione. La verità di questo fatto è un cammino irreversibile, nel senso che egli non potrà più fare a meno di considerarne l’esperienza. Quello che si verifica è un mutamento etico di personalità che porta il giovane a rafforzare le energie per maturare la propria vocazione: da questo momento è in grado di compiere e il compimento trova espressione incontrovertibile nel poema. Le tracce del vissuto sono le stesse che manifestano il favore di questa scelta: anzitutto di opportunità di tempi, di cogliere il profitto di porsi sotto un insegnamento. Il giovane dovrà decidere tra due strade, l’una nella confusione delle apparenze, o l’altra che conduce a intuire attraverso la ricerca ispirata alla verità il segreto dell’essere. "Giovane" è l'appellativo rivolto dalla Dea, per la quale le età trascorrono nell'indifferenza del tempo, ma come a un individuo nel fiore delle energie fisiche e intellettuali che gli permettono di sostenere la prova del cammino. Potrebbe corrispondere al dantesco "mezzo del cammin di nostra vita" che colloca il poema in una cornice biografico-temporale. Va considerata come un'età spartiacque in cui alle energie giovanili si aggiunge il complemento della consapevolezza, alimentando quel sentimento di compiutezza che in questo punto culmine della vita avvalora le premesse per portare a termine l'impresa. Ecco che allora in questa prospettiva i cenni colti lungo il cammino seguito acquistano il valore di prefigurazioni di un esito in qualche modo predisposto. Vi è come un punto di svolta che consente di riconsiderare le tappe del percorso intrapreso alla luce di un'acquisizione permanente. Fino a un certo punto il giovane è come trascinato da forze strapotenti ("Queste cavalle tanto sopravanzanti il proponimento seguito..."); in seguito, superato l'ostacolo della comprensione, oltre le porte "dei cammini del Giorno e della Notte", egli si sente letteralmente preso per mano ("E la Dea benevola, afferrando con la mano la mia destra..."), condotto ad ascoltare le parole piane e distinte del discorso che gli si presenta in intima coerenza e compattezza. Se insistiamo tanto sulle tracce anagrafiche è perché delineano un tempo: un tempo dell'essere che corrisponde alla coesione del discorso, che appare già compiutamente articolato al pronunciarsi. L'autore non deve fare altro che fissare nelle linee veloci dei versi alati le parole che gli vengono suggerite come sotto dettatura. In questo momento egli è come fuori di sé, nel tempo della divinità vivente nell'ora sempre attuale; in questo presente senza tempo tutte le altre ore, passate e future, devono apparirgli alla luce di una prefigurazione di questo incontro, come appunto cenni promettenti. Il tempo dell'essere è una culminazione, il lampo dell'istante veridico, al di là della successione. Raggiungerlo significa travalicare passato e futuro, comprenderli nell'attualità come per una sorta di intuitiva onniscienza, dono del favore divino che per un attimo straordinario si manifesta in tutta la sua condiscendenza. L'identificazione eroica nel compiere questo cammino non si giustifica altrimenti: fra tutti i mortali agli eroi soltanto è infatti talora concesso l'intervento della divinità nelle vicende della vita.
12) Dike, già evocata nel proemio come figura cui è demandato il compito di regolare il corso del giorno e dell’annata, mantenendone fissi i termini come detentrice appunto delle chiavi che ne aprono e ne chiudono le porte, si carica qui dell’ulteriore valenza arcaica di “giustizia distributiva” che ne specifica l’affinità con le prerogative originariamente proprie del daimon di presiedere al sacrificio dell’animale destinato al banchetto e di distribuirne equamente le parti agli ospiti. La Dike parmenidea è così elevata al rango più universale di regolatrice e dispensatrice, garante di un ordinamento generale che è lo stesso essere e che in questo la ricollega a Ananke, la costrizione. Ananke, nominata in seguito, è la necessità alle cui maglie nulla pare in grado di sottrarsi, la cui forza stringente viene più oltre ancora rimarcata attraverso il richiamo alla Moira, che presiede invece al computo del tempo come ciclo che si compie nel quadro di una scansione articolata in fasi esprimendo con ciò l’idea di un fato ineluttabile. In tutti questi passaggi da una figura all’altra, che indicano l’estensione del dominio di un’autorità sovrana di cui Dike è un aspetto, si leggono gli attributi di un’unica divinità “legatrice” (come l’indiano Varuna, dio tutelare dei patti) capace di assicurare che quanto è stato prestabilito non venga meno né travalichi in qualche modo la quantità assegnata (si confronti al proposito anche il frammento di Eraclito “il sole non oltrepasserà le sue misure; altrimenti le Erinni, ministre di Dike, lo scoveranno”). Interessante notare che il fondamento di questa concezione, come un modello inscritto nel mito che si tratta solo di esplicitare concettualmente, è la fiducia nel potere della parola come vincolo indissolubile. L’intervento di Dike, caposaldo di un cosmo specchio di solide e ben organizzate leggi, riflette un tratto caratteristico della mentalità greca: la condanna della ubris, tracotanza cieca e arrogante da cui anche il discorso dovrà rifuggire mantenendosi calzante e misurato. D’altra parte all’interno dell’argomentazione parmenidea è al contempo l’appello a un ordine superiore e l’istanza di un’intima consequenzialità che stringe in un unico nodo essere e pensare come nesso alla base di ogni coerenza.
13) Il brano si presta a una possibile lettura in chiave antipitagorica. Punto focale della polemica contro i Pitagorici avrebbe di mira in questo senso la loro interpretazione della cosiddetta “diade” (concetto fatto proprio in seguito anche da Platone). La diade pitagorica si fonda sulle proprietà della radice di due, numero irrazionale che dà luogo a due ordini di successione all’infinito come approssimazioni rispettivamente all’uno e al due: in un caso come serie “discendente” (per sottrazione dal due fino all’uno); nell’altro come serie “ascendente” (ovvero per aggiunta all’uno fino al due). Sarebbero stati gli stessi Pitagorici a introdurne la definizione descrittiva “la via in su e la via in giù”: se è così la questione è la stessa cui fa riferimento anche Eraclito nel frammento “la via in su e la via in giù sono una e la stessa”. Il problema di determinare il valore della radice di due non fu risolto prima dell’invenzione del calcolo infinitesimale, com’è noto nel XVII secolo; il che peraltro non impedì a Ictino, progettando il Partenone, di coglierne le potenzialità dal punto di vista delle proporzioni architettoniche. Per i Pitagorici questa loro scoperta rivestiva ad ogni modo una particolare importanza nel quadro di una speculazione fondata sul numero come simbolo e rappresentazione universali, e questo proprio per le eccezionali caratteristiche di simmetria e di armonia che la radice di due presentava ai loro occhi. Il punto di vista olistico parmenideo è certamente agli antipodi di una posizione che fa del numero una realtà sostanziale: a maggior ragione se il postulato su cui si fonda è la divisibilità all’infinito, che introduce di fatto un elemento di incertezza riguardo alla vera natura dell’essere. La critica implicita in questi pochi versi si sviluppa sugli stessi presupposti che portano Zenone, l’allievo di Parmenide, a formulare i celebri paradossi della freccia e della tartaruga di Achille.
14) Il concetto di limite fa tutt’uno con la nozione di totale linguisticità dell’essere per cui nulla di ciò che è risulta impensabile e pertanto impronunciabile. L’essere è del tutto definito anche sul piano descrittivo formale (“simile a ben tondo splendore di sfera”), né lascia spazio a eventuali “fughe” o aperture all’infinito che ne eludono il dato di fatto di una presenza inconfutabile, di un permanere costante e senza mutamenti. La possibilità di averne esperienza, di fornirne delle prove concrete che si ricavano seguendone le indicazioni sulla “via che è”, fa quindi decadere ipotesi come quella di Anassimandro che parla di apeiron, di illimitato, il cui stesso uso terminologico (a- privativa + “peirao”, “sperimento”) rivela quanto vi è appunto di indefinito, di incerto e non comprovabile in questa prospettiva. Sottolineare il contrario, e cioè che dell’essere non soltanto si fa esperienza ma che questa esperienza è reale e dimostrabile, si può considerare come un ulteriore approfondimento della critica nei confronti del concetto di infinito, come una sorta di equivoco in cui sarebbero caduti da un lato i Pitagorici e dall’altro gli Ionici. Nei confronti degli uni e degli altri Parmenide esprime una posizione del tutto coerente proprio perché ribadisce che dell’essere, in quanto semmai è un fondamento, non è affatto necessario ricercare né esplicitare un principio, una ragione esplicativa.
15) Diventa così a mio avviso comprensibile il significato di un verso reso di solito dagli interpreti ancora più oscuro e indecifrabile. Difficoltà pressoché insormontabili nella traduzione dipendono da una costruzione che regge una doppia negazione, logica ma linguisticamente ambigua (...). Quello che viene a stabilirsi è una correlazione reciproca per cui le opposizioni apparenti di “luce” e “notte” vengono ricondotte l’una all’altra e perciò da un lato negate come identità astrattamente irrelate e dall’altro riaffermate e comprese a un superiore livello di unità. L’espressione appare un condensato di pura sintesi concettuale: un esempio straordinario della possibilità di infrangere le barriere fra le antinomie attraverso un procedimento di pensiero in cui Parmenide dimostra una maestria pari solo a quella di Eraclito.

NOTA
Giovanni Schiavo Campo è nato il 22 giugno 1960 a Milano, dove vive e lavora come collaboratore indipendente di vari periodici e critico d’arte.
Come poeta, dopo il pieghevole
 Le mandrie del sole (Monza 1988), ha esordito con L’oro e il fuoco (All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1995). Si segnalano tra gli sparsi riferimenti editi su antologie e riviste: Annuale 2, supplemento al n. 2 di FinisterreRiga (1993), Mondo giovani/mondo poesia, rassegna antologica del Comune di Milano a cura di Biagio Cepollaro e Giancarlo Majorino (1993), Anterem – Scritture di fine Novecento (Verona 1998). Singole poesie sono comparse in cataloghi di mostre e altre pubblicazioni in collaborazione con artisti: diversi volumetti stampati delle edizioni Pulcinoelefante di Osnago con interventi visivi dello stesso Casiraghi, di Paolo Schiavocampo, padre scultore di Giovanni, e di Lamberto Correggiari; una cartella di grafiche dello scultore Giancarlo Bulli (Persezioni, 1991); E il merlo?, poesia con relativa traduzione in francese accompagnata da un’acquaforte e acquatinta di Gino Gini (I libri del Merlo, Il Laboratorio, Nola 2005); laminette incise e altri esemplari unici d’artista della moglie Jelica Tipic'.
Di rilievo teorico l’interpretazione di un frammento di Eraclito (
Che cosa non nasconde l’oracolo, Manocomete 3, dicembre 1995) e, sul piano dell’elaborazione poetica, l’intervento Segnatempo: frammenti sul segno come orientamento, pubblicato negli atti del convegno Scritture e realtà – linguaggi e discipline a confronto, a cura di MilanoCosa (Milano 2000).
Frutto di una ricerca intrapresa negli ultimi anni, improntata agli esagrammi dell’I Ching, il millenario oracolo cinese, e finalizzata alla grafica del libro, è invece Ausa (2006), esperimento di autoproduzione editoriale con una ventina di testi riprodotti sia con mezzi elettronici, sia in versione realizzata con la tecnica d’ incisione su lastre di zinco (fotoincisione e acquaforte) in 30 copie, numerate e firmate, tirate a mano e rilegate dall’autore.


Laura Montingelli
Intervista a Eleonora Fiorani

Buongiorno a Eleonora Fiorani e buongiorno al Maestro Leonetti. Grazie mille della vostra ospitalità. Ti ho proposto qualche tempo fa di incontrarci nuovamente, a distanza di qualche anno da una nostra precedente intervista che si era svolta sempre per il Cerchio Azzurro nel 2007. Ci ritroviamo, devo dire, per me con grandissimo piacere. Ti ringrazio molto per darmi la possibilità di incontrarci nuovamente!
- Grazie a te.
Se sei d’accordo, ti chiederei di riprendere un po’ il filo della nostra conversazione di allora, ragionando con te sulle tematiche che avevamo affrontato, ma anche sui nuovi argomenti a cui hai dedicato le tue ricerche di questi ultimi tempi.
In particolare, vorrei tornare sul tema del rapporto con lo spazio e il paesaggio, e della relazione con gli oggetti che l’Uomo contemporaneo e le masse stanno intessendo nel mondo attuale. Come, a tuo avviso, si sono definiti (o non definiti) e orientati (o dis-orientati) questi rapporti da qualche anno fa, quando già li avevamo analizzati? E’ vero che era solo il 2007, ma d’altra parte i cambiamenti del nostro panorama culturale e sociale sono ormai talmente rapidi che la domanda non è priva, credo, di una sua legittimità.

- La mia ricerca, dal 2007 in poi, si è prevalentemente orientata sulla tematica, non a caso, delle mutazioni della metropoli; di quella che noi chiamiamo “metropoli di terza generazione”, per intendere un’entità che è molto diversa dalla metropoli del Moderno. Nel senso che è come se coabitassero all’interno della città più città, nella misura in cui i processi della globalizzazione hanno reso determinante la logica dei flussi, il fatto cioè che le metropoli sono nodi di reti, e nello stesso tempo sono dei sistemi territoriali. Ho analizzato l’interazione tra questi due elementi: l’essere nodi di reti (quindi l’importanza della metropoli, che è connessa con i flussi che la attraversano, le reti lunghe, medie e corte che la interconnettono con le altre città del mondo e designano quelli che sono gli attrattori, ovviamente, della contemporaneità) e l’importanza che il sistema territoriale acquisisce oggi, proprio in relazione con il globale, quindi con i sistemi di trasporto, i sistemi finanziari, quelli che sono gli eventi culturali (che sono diventati uno dei grandi elementi del turismo internazionale), il flusso di merci, il flusso delle immagini eccetera, che fanno del territorio… trasformano letteralmente il territorio. Quindi mi sono soffermata sul problema che tu ponevi della ridefinizione oggi dello spazio come, appunto, l’elemento determinante della contemporaneità. E’ proprio nell’ambito della modalità con la quale oggi viene testualizzato il territorio che si vedono le mutazioni principali, nella misura in cui le città attuali sono diventate città dell’evento, nel senso che l’evento è diventato l’elemento fondamentale che struttura il modo d’essere, l’identità, il modo di abitare, la metropoli contemporanea.
Naturalmente questo fa diventare dei processi di estetizzazione, dei processi di modificazione del territorio - attraverso gli oggetti, attraverso quelli che sono gli allestimenti, attraverso quelle che sono le luci della metropoli, attraverso quelle che sono le nuove grandi architetture che trasformano lo spazio in paesaggio - l’elemento determinante della modalità con la quale andiamo a vivere la metropoli. O meglio, andiamo a consumare la metropoli, perché sempre meno le città sono, per così dire, abitate, e sempre più sono consumate: consumate nelle immagini, consumate negli eventi, eccetera eccetera. Che è la caratteristica fondamentale delle città oggi.
Quindi il percorso che io ho fatto a livello teorico è andato a localizzare prima la nuova condizione di vita, e cioè la riapparizione della realtà, per così dire. E cioè: non è casuale che, dal punto di vista delle proposte nuove a livello teorico, si è arrivati al paradosso – in questo caso sto citando Morace – di dire che “la realtà è il nuovo lusso”; il che naturalmente ci fa sorridere, ma nello stesso tempo segnala la paradossalità nella quale stiamo lavorando. Per me la realtà significa invece lo scarto tra le teorizzazioni che hanno teorizzato questo mondo, in un certo qual senso vedendolo con gli occhi dei mass-media, vedendolo con gli occhi dei luoghi del lusso e dell’immagine, e la realtà che emerge a partire dalla drammatica caduta delle due torri (non a caso Zizek ha scritto un testo memorabile che è Benvenuti nel deserto del reale, citando Matrix): quelli che sono i “buchi neri” della rete, cioè i nuovi poveri, gli urti a livello delle etnicità in movimento e in difficoltà di connessione con quelle che sono le popolazioni locali, eccetera eccetera.
Questa realtà estremamente complessa, che ha più volti, la difficoltà che abbiamo di localizzare tutti gli aspetti della realtà, mi sembrano elementi molto più interessanti di andare a vedere le visioni che ci danno i media, anche se ovviamente non ne possiamo mai prescindere. Quindi questo ritorno del reale, questo “Benvenuti nel deserto del reale” a cui ci rimanda giustamente Zizek, è stato il filo rosso del mio intervento, che è partito appunto dalla nuova condizione di vita, che parte dalla denuncia dei processi che oggi vengono chiamati di “vetrinizzazione del sociale”, “vetrinizzazione dei corpi”, “vetrinizzazione della morte”, per arrivare a definire, attraverso l’analisi che ho fatto nei Panorami della metropoli contemporanea, quelli che sono i nuovi scenari, che attualmente ho aggiornato tenendo conto dei processi che sono stati messi in moto dalla crisi finanziaria. Non ho rivisto la città, perché la città è rimasta uguale; splende magari meno, perchè ci sono meno soldi, perché certe cose si sono consumate, ma non è cambiata. Quello che è interessante vedere è che cosa c’è dietro la nuova domanda di eticità, la nuova domanda di ecologia che è intervenuta nell’ultimo periodo. Non è che ci siano scenari di particolare interesse; la cosa sulla quale sono andata a riflettere è che differenza c’è tra l’ecologia e l’ecology, anche se può sembrare un gioco di parole. Perché l’ecology, che diventa il nuovo business, che diventa il nuovo chic, è una parente un po’ strana di quella lotta e di quella sensibilità per l’ambiente, per la crisi ambientale e per la definizione di nuovi modi di vita che è stato il nostro background negli anni Settanta. E non è casuale che in questa parte io abbia dato molto rilievo alle categorie estetiche, e abbia visto nel grottesco la categoria nella quale si riversano tutte le altre categorie estetiche, piuttosto che nel neo-barocco, o se vuoi lo stesso neo-barocco. Grottesco che viene messo in scena dagli artisti, per caratterizzare la condizione della realtà oggi, e grottesco involontario (che non sai se definire comico o tragico o tutte e due le cose insieme) nel quale ci troviamo a vivere, e che è la condizione involontaria di tutto ciò che capita.
- Già nel tuo saggio Il mondo senza qualità (Lupetti Editore, Milano, 1995), avevi scelto di dedicare la terza parte a una riflessione sul tema della perdita dell’orientamento nel territorio fisico da parte dell’Uomo di oggi, e individuavi in questo fenomeno la radice della sua perdita di identità (come appunto dicevi poco fa). Perdita di identità che si evidenzia oggi tanto all’interno delle società “avanzate”, in stato di profonda crisi economica e culturale conclamata, quanto presso quelle economicamente svantaggiate, luoghi d’origine di moti migratori verso gli approdi di una speranza generalmente tragicamente disattesa.
A mio modo di vedere, infatti, le masse delle società in crisi, e in particolare gli esponenti delle generazioni “socialmente attive”, vivono lo sbandamento dovuto alla precarizzazione dei rapporti lavorativi, e all’allargarsi del gap fra le competenze acquisite nel percorso formativo e l’inserimento in contesti professionali nei quali si sovrappongono e si intrecciano definizioni labili e/o scentrate dei ruoli, delle mansioni, delle attività, nonchè relazioni interpersonali intorbidite e nevrotizzate. Le masse economicamente disagiate, dal canto loro, vivono la tragedia della propria mancata o estremamente difficoltosa integrazione e dei “razzismi di ritorno” (ma se ne sono mai andati?). E quindi, non meno intensamente vivono anch’esse il problema della definizione di una propria nuova identità, in un equilibrio (o non-equilibrio) fortemente precario fra tradizione e cultura d’origine da un lato, e inevitabile attrazione per lo sconfinato e stordente panorama del regno degli oggetti e del superfluo dall’altro.
Cosa pensi di tutto questo? Che spunti di riflessione ci suggerisci? Faccio riferimento in particolare al tuo testo Il mondo degli oggetti (Lupetti Editore, Milano, 2001), nel quale ti sei soffermata specificamente su quest’ultimo tema.

- Una delle caratteristiche della contemporaneità è che sono venute meno quelle che si chiamano le “tecniche di costruzione del soggetto”; è venuto meno il territorio come riferimento di radici, il luogo ha cambiato completamente significato, è venuta meno la famiglia, è venuto meno il riferimento al mondo del lavoro. Nella misura in cui quelli erano gli elementi fondamentali sui quali si costruiva la propria identità, gli oggetti sono diventati sostituti della costruzione di questa identità.
I processi sono due. Da un lato quello che è stato chiamato fin dagli anni Ottanta il “narcisismo”, non tanto nel senso freudiano del termine, quanto nel senso che si ha soltanto il proprio corpo e se stessi come entità di riferimento, e quindi queste tematiche (che sono state messe in rilievo da Christopher Lash) del narcisismo come elemento determinante. Ma naturalmente il narcisismo di quello che io chiamo un “Io grinzoso”, e cioè di un Io che non ha in realtà nessun punto forte di riferimento, e che quindi trasla a livello degli stili di vita, degli oggetti, le modalità con le quali va a costruire la propria identità. Il che poi costituisce il grande mondo del feticismo, che è una caratteristica della contemporaneità. Quindi ci troviamo di fronte a un fenomeno, che è stato letto in modo diverso a seconda delle tendenze dei teorici, come l’Io che passa e diventa “Ii”; e cioè non c’è più l’identità, ci sono solo le identificazioni, c’è questo Io plurale, che lo si veda in modo positivo o negativo. Quello che c’è al di là del positivo o negativo è l’assoluta fragilità, la difficoltà a costruire la propria identità.
Emerge però una cosa abbastanza interessante da tutto questo, e cioè che l’identità è una costruzione. Questo elemento è il grande filo che presiede alla riflessione soprattutto su quei mutamenti, che sono sempre più della contemporaneità, dei migranti che si trovano a partire da un territorio, da una storia, da una cultura, e si inseriscono in un’altra cultura; questa ibridazione di culture che fanno parte della nostra contemporaneità, con tutto il percorso di tragicità che esse comportano. Questa è la riflessione sul costruire l’identità, e su come ci muoviamo in identità plurime: sono nostre le identità delle radici perdute, sono nostre le identità che andiamo a costruire insieme agli altri negli scambi, le identità inventate delle seconde e terze generazioni dei migranti, per esempio. Lo è visto benissimo in Francia, e lo si sta sperimentando qui a Milano attraverso un’operazione fatta dalla Naba, la scuola di design, che è andata a interagire con la Chinatown milanese di via Sarpi, è andata a vedere com’è possibile rivisitare le difficili relazioni tra la cultura locale e la popolazione cinese (che tra l’altro è da lunga data presente in Italia, perché è di primo ‘900). Quindi questa riflessione sull’identità che oggi viene portata avanti da ricerche tutte molto interessanti. Per esempio Chalayan nell’ambito della moda, che ha dedicato a questa tematica una delle sue più interessanti collezioni partendo proprio dal suo essere lui stesso duplice nell’identità (da un lato di Cipro, dentro la nazionalità turca, e dall’altra parte la sua cultura che gli deriva dall’Inghilterra), e quindi dalla sua stessa problematicità. Tutte queste personalità che vivono la doppia cultura, che sempre più sta diventando il nostro modo di esistere. Naturalmente questo non toglie che la condizione normale che viviamo oggi è il totale spaesamento, nel quale non sappiamo né chi siamo, né da dove veniamo né dove andremo, e costruire le nuove identità si presenta tutt’altro che facile, non perché ci siano gli altri ma perché non abbiamo più tecniche di riferimento che ci costituiscono. Le tecniche di riferimento oggi sono diventate in buona parte i social networks, che costituiscono nuovi orizzonti comunitari, non è casuale; fenomeni come Facebook eccetera, quindi sempre più questo scrivere delle proprie biografie, reali, immaginarie, insieme agli altri. Queste sono le cose che dovremo andare a vedere, che cosa stanno portando di nuovo nelle tecniche di costruzione dell’identità. E’ un discorso da aprire.
- Certo. Ma tu che scenari prevedi rispetti a questi fenomeni nuovi, cioè secondo te sono costruttivi o destrutturanti?
- Dipende. Fenomeni che noi vediamo – quella cosa che ti dicevo sul grottesco – e cioè che oggi tu non riesci ad affermare la tua identità se non attraverso la provocazione, se non attraverso l’atto estremo, che va dagli sport estremi a una serie di comportamenti che sono quelli che abbiamo visto tutti, ma anche questo elemento che è l’essere nell’immagine (che è partito da lontano ma che oggi è diventato un elemento straniante, tragicomico, grottesco in buona parte), sono elementi che non costruiscono niente, che ti fanno dire “Ma come abbiamo fatto a finire così in basso?”. Non hai altra definizione con la quale puoi leggere questi fenomeni.
Un po’ diverso invece è Facebook; è un altro tipo di discorso, perché il discorso dei social networks è un discorso di apertura, di nuovi territori, di comunità, che è tutto da vedere, perché va a creare quegli spazi che non esistono più sul territorio, e poi ti ritornano sul territorio, perché non sono soltanto spazi che esistono nel virtuale…
- No, ma si riversano nel reale.
- Si riversano nel reale, e come tali sono estremamente interessanti. Naturalmente dipenderà da come va la situazione, perché una riflessione, una domanda su chi sono e dove sono sono le due domande-cardine con le quali si costruisce l’identità. E possono anche ripartire dai social networks.
- Nello stato di profondo disorientamento individuale e sociale che l’Uomo contemporaneo vive, acquista particolare spessore e problematicità la questione dei suoi spazi, e soprattutto delle sue modalità di recupero delle proprie energie fisiche e psichiche. Recupero tanto difficile quanto indispensabile, dato il logorio mentale e interiore a cui egli è soggetto in un contesto sempre più obbligante ad una performance sociale senza cedimenti e senza requie.
Il che significa venire a parlare di come le masse orientano (o vedono orientate) le proprie scelte di intrattenimento ludico, di svago, di amusement, come tu lo definisci ne La comunicazione a rete globale (Lupetti Editore, Milano, 1998). E cioè affrontare il tema della cosiddetta “industria culturale”, e di come essa scelga di veicolare i propri messaggi; il tema della comunicazione nel mondo d’oggi. Mi piacerebbe che ci fornissi la tua lettura della questione.
Questo argomento peraltro, tu mi insegni, si ricollega a quello dei “tempi del lavoro”, all’insegna di un rapporto molto complesso che è stato per la prima volta sistematicamente analizzato fra anni ’60 e ’70 dalle prime, anticipatrici riflessioni sociologiche sui mutamenti che erano già in atto negli Stati Uniti e soltanto si intravedevano nel Vecchio continente (un nome per tutti: Andrè Gorz, con il suo Socialismo, capitalismo, ecologia). Oggi, che anche in Europa questo sbilanciamento degli equilibri fra tempo lavorativo e tempo “libero” è una realtà problematicamente vissuta da milioni di persone, come conseguenza del mutare dei ritmi di lavoro, tali riflessioni tornano più che mai d’attualità, e dimostrano tutta la loro portata “premonitrice”. Che cosa ne pensi?

- Qui la cosa è molto complessa, perché da un lato non ci sono più i termini “tempi del lavoro” e “tempo libero”, come sono stati strutturati dal fordismo, perché non c’è più il lavoro fordista; quindi in realtà il lavoro, che è sempre più lavoro immateriale, lavoro creativo, lavoro con le nuove tecnologie… – che non vuol dire che c’è solo questo, è quello che vediamo nelle società avanzate, perché altrove c’è il vecchio lavoro, con tempi che sono quelli da pre-sindacalizzazione – …nelle società cosiddette avanzate non c’è più il tempo libero perché anche il tempo libero è diventato tempo di lavoro, nella misura in cui la creatività è diventato l’elemento fondamentale. Quindi tu ti trovi a lavorare anche quando non lavori, praticamente, oltre al fatto che la flessibilità del lavoro fa sì che non ci sia più una temporalità stabilita; e quindi in realtà lavori sempre, non hai più spazio. Quello che viene messo al lavoro è in realtà tutto quello che la tua creatività, la tua esperienza, la tua emozione elaborano. Tutto rientra nella fase lavorativa.
Questo è il primo elemento che ci troviamo a vivere.
Il problema è andare a vedere se poi questo “lavoro creativo” è realmente tanto creativo. Buona parte dei lavori che vengono pensati creativi sono in realtà di una ripetitività assolutamente mostruosa. E quindi ti trovi di fronte a questioni che vanno tutte ridefinite, rielaborate.
Per quanto riguarda il divertimento, direi che la frase più giusta è quella di Zizek: “Siamo tutti condannati a godere, mentre meno sappiamo farlo”. Cioè questa pulsione a consumare, a godere, a divertirsi, all’intrattenimento, che in realtà sono diventati parte di quell’economia dell’immateriale culturale dell’esperienza, e quindi sono diventati lavoro, implicano anche che nel mondo di Disneyland non c’è più neanche la capacità di immaginare, perché tutto è formalizzato. E quindi...
- …nulla è lasciato alla creatività vera.
- …nulla è lasciato alla creatività vera, e ci troviamo a vivere una condizione abbastanza paradossale, che credo possa essere chiamata “dei mondi paralleli”, una delle cose più interessanti della contemporaneità, che è stata definita “cultura convergente” da Jenkins e poi da De Kerkhove, che ha appena fatto una conferenza qui in Italia alla Naba. Naturalmente sono coloro che sostengono l’importanza di questa “cultura convergente”, del fatto che un’invenzione si trasforma negli altri linguaggi, l’interazione tra i vari linguaggi (basterebbe pensare a un fenomeno come Matrix).
A mio avviso questa è semplicemente una faccia della medaglia; l’altra faccia è quella che io chiamo “mondi paralleli”, che non vuol dire necessariamente Second Life, ma vuol dire che nel mondo delle connessioni la caratteristica fondamentale è il crearsi di mondi separati e autoreferenziali. Nel mondo della comunicazione, come nel mondo della connessione, l’esperienza che tu fai non è tanto della connessione o della comunicazione, è della difficoltà di comunicare, è quella di essere totalmente isolato. Per cui ti trovi sì a vivere in più mondi, ma ogni mondo è per così dire autoreferenziale, e quindi è come se tu vivessi te stesso nella dimensione del frammento. Il che non mi pare una meraviglia.
- No, direi di no. Quanto più si ha teoricamente la possibilità di essere connessi e collegati a un numero esorbitante di persone, tanto più ci si sente mostruosamente soli.- Non è solo perché sei connesso, è perché è talmente esorbitante questa connessione che in realtà i mondi tendono a chiudersi su se stessi e ad essere totalmente autoreferenziali. Questo tu lo vedi anche nel mondo reale. Una delle difficoltà maggiori a livello politico è contare, perché le stesse manifestazioni di massa della società civile è come se funzionassero secondo una loro logica, ed è come se il mondo politico funzionasse secondo una sua logica. L’interconnessione non si realizza, se non in modo estremamente parziale. E’ come se… ma lo vedi anche a livello culturale. Non si può dire che non ci siano tante iniziative, ce ne sono moltissime, ma queste iniziative non riescono ad emergere, non riescono a farsi sentire, non riescono a “bucare”, non riescono a spaccare i livelli di solitudine, non riescono a mutare la qualità della vita. Ci sono tantissime iniziative sul territorio, ci sono tantissime mutazioni, la metropoli è una cosa che muta “nella pancia”. Però tu tutto questo non lo avverti, perché in realtà finisci con un vivere, paradossalmente, nel mondo interconnesso e diventando sempre più grande, in un mondo piccolino e ristretto, perché non riesci a “bucare”, non riesci a connetterti. Le possibilità sono infinite, ma è come se ci facessero vedere, come nel mondo di Alice, l’altro mondo, ma non riuscissimo mai a raggiungerlo. E quindi il mondo è sempre al di là dello specchio, e noi viviamo una realtà sempre più misera, sempre più ristretta, sempre meno dilatata, e con l’impressione di contare pressappoco come zero.
- A proposito di perdite di orientamento rispetto ai luoghi fisici di vita e di lavoro, vorrei che ci parlassi un po’ dell’analisi che hai dedicato alla questione della/e nuova/e definizioni delle fisionomie urbane ne I panorami del contemporaneo (Lupetti Editore, Milano, 2005). Ne hai accennato anche prima.
- Sì, certo. Ma che cosa intendi con “nuove definizioni”?
- Parlavo di fisionomie urbane, ma forse ne hai parlato prima, in realtà.
- Dipende da cosa stai intendendo. Da un lato io ho localizzato quelle che sono le nuove architetture e le nuove strutture della metropoli…
- Sì, io mi riferivo anche a quello…
- …nel senso dello sfondamento di quella che è la scatola architettonica, e queste architetture-comunicazione, architetture-immagine, ma anche architetture di tipo nuovo nella misura in cui sono soprattutto, oltre che grandi simboli della nuova città… non hanno pelle, l’interno diventa l’elemento determinante di ciò che esse sono. Ma anche una ridefinizione di quelle che sono le forme e le strutture dell’architettura, a partire dal Guggenheim di Gehry. E quindi non hai più nessuna tipologia, né di museo, né di stazione, né di aeroporto, e quando diventano di grande dimensione, come dice anche Koolhaas, queste diventano architetture-paesaggio, diventano esse stesse mondi, dei simulatori urbani.
Quindi c’è una trasformazione, per cui devi ridefinire tutto quello che è il patrimonio concettuale - che cos’è casa, che cos’è teatro, che cos’è museo - e ti trovi a definire nuove tassonomie, nuove tipologie, per intendere che cosa il fenomeno nuovo del museo è diventato; perché il museo incorpora per esempio buona parte della piazza, incorpora quello che una volta era la galleria d’arte, diventa luogo di incontri. Tutti diventano luoghi polifunzionali, in una maniera diversa. E’ come se tutto si ibridasse, si inventasse con una propria identità.
E quindi è un processo di analisi di questo tipo, che va a verificare sul territorio quali sono le trasformazioni in atto. Naturalmente questo vuol dire anche trasformazioni dello spazio, perché salta la differenza tra spazio pubblico e spazio privato, e quindi si danno nuove forme dello spazio, come nuove forme della strada, nuove forme della piazza eccetera.
E’ un’analisi che va a vedere le diverse configurazioni urbane passando dalle grandi categorie del vivere. Quindi come si trasformano il luoghi del lavoro, gli uffici, come gli uffici incastrano dalla palestra, al luogo di divertimento, al bar, e perché lo fanno…
Quindi non hai più nessuna tipologia, devi vedere tipologie differenziate, che danno luogo a nuove strategie nelle quali si definisce che cos’è lavorare oggi. E’ un percorso fatto a questo livello, che crea delle tassonomie che poi servono anche nell’utilizzo che di questi libri viene fatto a livello universitario nell’ambito della progettazione, perché definiscono sia le nuove categorie, sia anche che cosa progetti in base a quelli che sono i nuovi scenari. Anche nella consapevolezza, visto che mi chiedevi degli oggetti, che gli oggetti l’ultima cosa che sono è… essere degli oggetti. Perché in realtà gli oggetti sono qualcosa che incamera immaginari, stili di vita, memoria, sono gli elementi fondamentali con i quali andiamo a configurare la nuova cultura materiale del nuovo mondo. Che cos’è il nuovo mondo lo leggiamo attraverso gli oggetti, che parlano di noi, sono diventanti oggi una società degli oggetti.
- La definizione della (di una) identità individuale e collettiva passa, in ogni epoca e in ogni contesto geografico e culturale, dalla definizione di un’immagine anche fisica ed estetica di sé.
Leggo in Internet, in una presentazione del tuo testo Abitare il corpo: la moda (Lupetti Editore, Milano, 2004), che “la moda è oggi l’osservatorio migliore dei mutamenti nel sociale e delle strategie che ridefiniscono il mondo nell’epoca della comunicazione.
È, infatti, arte e cultura di essere nel corpo e di utilizzarlo, di metterlo in scena, di essere presenti e guardati, e insieme è la legge della variabilità dei valori. Fiorani approfondisce dunque la moda al di là della corrente opinione che la lega, semplicemente, al lavoro inventivo e stilistico dell’abbigliamento; e indaga anzitutto il rapporto fra il corpo e il vestito, quindi le mutazioni che con essa strutturano il moderno stesso, sino alla complessa definizione del suo statuto attuale. (…)” (http://guide.supereva.it/spot/interventi/2004/11/183552.shtml).
Vorrei che in particolare tu ci illustrassi il contenuto dei capitoli dedicati a L’etica dell’apparenzaModa e cultura del consumoModa e globalizzazione.

- “Moda” e “moderno” sono due termini che già Benjamin, non a caso, coniugava insieme; a parte il fatto che caratterizzano mostruosamente che cos’è l’Occidente, sono anche una categoria antropologica profonda, perché è il modo di indossare il proprio corpo, e questo c’è nelle popolazioni altre come da noi, in modi naturalmente diversi.
Nello stesso tempo questo rapporto con il corpo, che oggi si configura come rapporto con la metropoli, che è la stessa cosa in qualche maniera, è lo stesso rapporto che abbiamo con la strada, con la piazza, con i nostri immaginari, con i nostri sogni, con i flussi di immagini che ci provengono… E’ diventato qualche cosa che non qualifica semplicemente l’abbigliamento, ma che è una sensibile registrazione di tutti quelli che sono i mutamenti presenti nella società, spesso e volentieri anticipandoli. Basterebbe vedere le tematiche, tant’è vero che la moda oggi non si declina in un’unica visione, ma rappresenta proprio la pluralità dei modi di esistere, e la frammentarietà della nostra società. Basterebbe pensare come registra, per esempio, gli immaginari che provengono dall’Occidente, dall’Oriente, la sensibilità con la quale anche l’apertura dei nuovi mercati viene registrata nell’ambito della moda come dei media. La moda è un testo che si articola attraverso le interazioni con la fotografia, con il cinema, con la musica, con la danza, oltre che con il profondo rapporto che noi abbiamo con il nostro Io e con il nostro corpo. E quindi è una piattaforma molto interessante di esame per capire la contemporaneità.
Per quanto riguarda il consumo, la moda ha contaminato tutti gli altri settori, per cui oggi la moda è la moda dell’architettura, è la moda del design. Basterebbe pensare come ha contaminato il design, come molto design del contemporaneo ha perso i connotati del passato per diventare pura estetizzazione, per diventare molto più simile alla moda anche nel suo carattere effimero.
E quindi la moda è qualcosa che entra nella politica, se andiamo a pensare come si sta trasformando la politica-comunicazione, la politica-moda che stiamo esaminando. E’ qualcosa che diventa il modo d’essere della contemporaneità, tant’è vero che la questione oggi si pone nei termini se è la moda che contamina tutto, o se è la comunicazione che ha contaminato la moda, e l’ha trasformata rispetto al proprio modo d’essere. Personalmente sono piuttosto favorevole alla seconda ipotesi; e mi basta pensare, per dire la seconda ipotesi, come tutti gli stilisti si siano passivamente accodati al fatto che la direttrice di Vogue abbia deciso che preferiva che le sfilate di moda si concentrassero in tre giorni, perché voleva ritornare a New York. Ecco, direi che è abbastanza esemplare questo avvenimento. La moda è uno degli elementi determinanti, nella sua sintesi. Il mio problema non è chi prevale, il mio problema è la non-possibilità oggi di differenziare moda e comunicazione, perché sono diventati più o meno la stessa cosa, si sono fusi, e la potenza delle due cose dipende dalla loro fusione. Naturalmente la cosa interessante è che si può sempre fare degli scarti…
- Cioè?
- Cioè potremmo dire che non tutto è consegnato così, e come la guerriglia si insinua all’interno della comunicazione, anche se poi la comunicazione la fa propria, anche nella moda lo scarto, la possibilità di scartare, di giocare con la merce, il modo di fare moda per giocare alla moda esiste, quantomeno come possibilità, e qualche volta ci si riesce.
- Ma tu vedi anche qualche tentativo già riuscito in questo senso?
- Penso semplicemente alla storia di inventare la stilista che non c’è, che adesso è diventato a sua volta griffe.
- Cioè il nome che non corrisponde a una persona esistente.
- Certo. Pensa come nella misura in cui non c’è più spazio fuori da questi territori, devi giocare la partita all’interno, e quindi tutto sta a vedere come si può giocare la moda facendo moda, come si può giocare la merce giocando CON la merce. La scommessa è qui.
- Così come le persone si inventano delle identità nei social networks.
- …e così facendo creano connessioni inaspettate; o come territorio e rete precipitino l’uno nell’altro, fuori da quelle che sono le strutture previste. Al momento non sappiamo andare al di là di questo, perché è come se fossimo soffocati dentro, e quindi l’unica maniera è vedere come giocando con Matrix si possa giocare Matrix.
- Sempre in Abitare il corpo, dedichi un capitolo anche alle Sinergie tra moda, arte, architettura e design. Prendo spunto proprio dal fatto che ti sei soffermata su queste relazioni e interconnessioni per chiederti, a conclusione del nostro incontro, di riprendere l’argomento, pure trattato in occasione della nostra prima intervista, del ruolo dell’arte non solo o non tanto nella società attuale, come allora ti avevo chiesto, quanto piuttosto rispetto alle trasformazioni sociali ancora in atto.
- Questa contaminazione di cui ti dicevo tra moda, comunicazione, design, architettura eccetera, a me ha fatto venire un desiderio molto importante. Prima di tutto tornare alla filosofia, all’epistemologia, e cioè (anche se è un territorio che non ho mai abbandonato, che è sempre stato all’interno, che abbia parlato di oggetti, o che abbia parlato di architettura, di città, di qualsiasi cosa abbia parlato… l’esperienza filosofica e la metodologia epistemologica sono sempre stati gli strumenti fondamentali che hanno costruito il taglio con il quale andavo ad affrontare questi argomenti) desiderio e voglia di ritornare sul testo filosofico in senso puro; bisogno di pensiero, bisogno di idee, bisogno di mettere a fuoco degli ambiti categoriali “oltre”, per così dire. E dall’altro lato, io che ho dedicato moltissimo spazio del mio lavoro al design, di fronte a molte espressioni del design ho voglia di occuparmi direttamente di arte. Cosa che io non ho mai trascurato di fare, ma non essendo un critico d’arte è sempre stato qualcosa che ho fatto molto volentieri, con molta intensità, ma “da esterna”, in un certo qual senso.
Credo che invece oggi l’arte, proprio perché si sottrae all’estetizzazione, proprio perché non accetta l’estetizzazione, abbia un ruolo assolutamente fondamentale in quel processo che, come diceva il vecchio Hegel, come diceva il vecchio Adorno (che magari saranno storicamente collocati, ma non è detto che siccome sono storicamente collocati non abbiano qualche cosa da dire ancora oggi), ha a che fare con la verità, o perlomeno con una delle tante verità che si possono dire oggi. E quindi lo scarto, il “balzo della tigre”, termine con il quale Benjamin parlava della moda, allora, e diceva “è un balzo della tigre tra passato e presente”, ecco, io credo che oggi questo balzo della tigre sia qualche cosa che possa ritornare all’arte, anche se l’arte è a sua volta travolta dalla comunicazione e dalla moda. E però c’è sempre qualcosa che eccede, qualcosa che si sottrae, qualcosa che, come ai vecchi tempi di Adorno, “rinuncia alla Bellezza per dire il dolore del mondo”. E in qualche maniera questa cosa nell’arte si propone, magari attraverso il grottesco, ma il grottesco a livello di patafisica, a livello di Jarry, a livello delle forme contemporanee, delle avanguardie che continuano in qualche modo ad operare.
E quindi il discorso dell’arte in questo momento mi interessa molto.
- Questa è una domanda che ho pensato di farti indipendentemente da quello che mi ero preparata, e con questo poi veramente ti ringrazio e possiamo concludere. Ero molto in dubbio se fartela, questa domanda, perché la trovo, diciamo, dolorosa, anche nei suoi aspetti di grottesco. Tu come leggi l’Italia di oggi? Come vedi la realtà di questo Paese, inserendola in un’analisi più ampia? Perché in questo Paese si è così all’estremo di tutte queste manifestazioni di cui abbiamo parlato?
- Sono anche uno storico, e qualche volta mi ricordo di esserlo indipendentemente da quello che ti potrei dire come storico. Il mio maestro, Ludovico Geymonat, parlava della vocazione al moderatismo in Italia come l’elemento che lo caratterizzava, e per molto tempo direi che questo è stato un buon modo per spiegare l’inerzia di questo Paese, il fatto che in questo Paese non si riuscisse mai a modificare alcuni elementi che gli impedivano di essere all’altezza della contemporaneità.
Ecco, io credo che oggi siamo ben al di là di questo, a parte la battuta del “Come abbiamo fatto a finire così in basso?”, domanda che nessuno che non si identifichi con questa situazione non può non porsi. Uno potrebbe parlare della mancanza di una cultura democratica in questo Paese, spesso per battuta si è detto nella cultura italiana che “non c’è mai stata la Rivoluzione francese” (in buona parte d’Italia non c’è mai stata), per indicare il servilismo, ma anche la presenza di fenomeni come la mafia, la camorra eccetera. Quindi questa mancanza di cultura civica, se vuoi, di passaggio alla laicità, perché è un altro problema, cioè non possiamo dimenticare che questo non è semplicemente un Paese cattolico, è un Paese dove c’è il Vaticano, e c’è un peso del Vaticano che indubbiamente è sempre stato determinante a destra, al centro e a sinistra, è qualcosa che costituisce un elemento-cardine della difficoltà di questo Paese di mettere a fuoco perlomeno la banalità in tutta Europa di che cos’è la dimensione laica dell’esistenza, che vuol dire anche un elemento di pluralità (perché nessuno toglie niente a chi ha vocazioni religiose, però c’è una dimensione dello Stato, della laicità, che fa parte della cultura occidentale e che in questo Paese non esiste nel modo più assoluto).
Terzo elemento fondamentale è che un degrado è cominciato dalla sconnessione tra politica e cultura che ha avuto inizio parecchio tempo fa. La si può localizzare sia dal punto di vista di quello che era allora il Partito Comunista, sia da quello che è stata la sua sinistra, Il Manifesto eccetera, cioè questo separarsi della cultura di sinistra che è sempre stata un elemento fondamentale della cultura di questo Paese, se si pensa alla storia dal Secondo dopoguerra in poi. La cultura di sinistra è sempre stata “la cultura”, allora non c’era una vera e propria cultura di destra, si è formata dopo una cultura di destra, ed è cresciuta man mano che diventava sempre più grande la frattura tra politica da un lato e cultura dall’altro nell’ambito della sinistra. E questo è stato qualcosa che ha indebolito enormemente.
Altro elemento fondamentale: la mancanza di rinnovo nell’ambito della sinistra di personale politico, e anche il fatto che uno dovrebbe ripensare realmente al fascismo e alle componenti ambigue del fascismo - perché non a caso Mussolini viene dal Partito Socialista - e quindi a una componente per così dire “attivistica”, che poi è quella che c’è nello stesso futurismo italiano, quindi questa componente ambigua prima dell’alleanza con Hitler: il populismo. Un altro problema di questo Paese, che non a caso ritrovi poi nella Lega, ma lo trovi anche nella Democrazia Cristiana, lo trovi in quello che è l’erede del PCI; la dimensione populistica, che è diversa, perché non si parla del cittadino, è una caratteristica che non c’è, credo, in nessun Paese d’Europa, c’è soltanto in questo Paese.
La combinazione di questi elementi dà luogo al fenomeno che abbiamo visto, che ha anche a che fare con i processi di disgregazione messi in atto nell’ambito della globalizzazione, che sono intervenuti sulla mancanza di unificazione, economica, politica eccetera, di questo Paese. Perché ovviamente lì si sono create le “isole”, la “terza Italia” eccetera, tutto questo magma di quelli che sono i distretti industriali… Sono venute a galla quelle che sono le debolezze del sistema italiano; pensa al sistema Fiat, che è sempre stato finanziato in buona parte dallo Stato, quindi un’industria che non si è retta con le sue gambe. Per cui una serie di fragilità del sistema (che è arrivato tardi all’unificazione, che ha sempre mescolato il pubblico e il privato in maniere non corrette dal punto di vista di quelli che sono gli schemi dell’economia moderna) la globalizzazione le ha fatte emergere, le ha fatte saltare; e quindi si sono creati nuovi fenomeni che sono stati totalmente sottovalutati, come per esempio la nascita della Lega, come anche il potere della comunicazione. Tutta la sinistra non capisce che cos’è la comunicazione. Non puoi capire un fenomeno come Berlusconi e il berlusconismo senza tener conto del potere mediatico dei nuovi mezzi.
Queste cose le stiamo pagando tutte insieme, hanno dato luogo ai fenomeni che stiamo vivendo. L’unica cosa che uno può pensare è “se fossi più giovane cambierei Paese”.
- Eleonora, io ti devo ringraziare moltissimo per la disponibilità che mi hai dato questo pomeriggio, e ringrazio anche il Maestro Leonetti, perché è stato un onore averlo come ascoltatore del nostro incontro. Grazie mille!
- Francesco Leonetti: mi è piaciuto talmente, ho sentito voialtre due… siete tutt’e due molto interessanti, non conta niente la mia presenza.

Intervista curata da Laura Montingelli

NOTA
Laura Montingelli è nata a Milano nel 1974.
E’ laureata in lettere moderne e diplomata in pianoforte.
Ha lavorato nell’ambito della ricerca sulla musica contemporanea (Centro Studi Arcipelago Musica), e ha svolto collaborazioni di carattere bibliotecario/archivistico (Ufficio Ricerca Fondi Musicali della Biblioteca Nazionale Braidense), radiogiornalistico (Rotoclassica di Claudio Ricordi, sulle frequenze di Radio Popolare) e redazionale (società di servizi editoriali Mirabilia), occupandosi di argomenti musicali e non.
Fra il 2004 e il 2006 ha inoltre lavorato nel settore Produzione dell’Orchestra sinfonica di Milano “Giuseppe Verdi”, affiancando a mansioni gestionali e organizzative una consulenza musicologica, con la presentazione dei concerti al pubblico attraverso incontri settimanali di guida all'ascolto.
Successivamente ha condotto esperienze di lavoro gestionale anche presso Studi di architettura, design e sperimentazione videoartistica, e ancora attualmente svolge questa professione.
Parallelamente conduce attività e collaborazioni redazionali su argomenti di cultura, arte, società (si segnala in particolare l'audiorivista per l'apprendimento della lingua italiana Incontro Italiano).

Nata a Milano, Eleonora Fiorani ha studiato filosofia della scienza con Ludovico Geymonat. Epistemologa e saggista, dopo alcuni libri sui temi del materialismo ha discusso, fra l'87 e oggi, le questioni fondamentali delle nuove scienze del territorio, della cognizione e della mente, delle forme e dei linguaggi della comunicazione, per una ridefinizione dei saperi e dell'analisi critica dello stato del mondo. Opera pertanto con le scienze di confine, tracciando nuovi percorsi e intrecci disciplinari tra epistemologia, antropologia e semiotica.
La sua attività di scrittrice è ininterrotta e intensissima. Ha fondato diverse riviste e ha collaborato con altrettante, spesso insieme a Francesco Leonetti. Molti titoli si potrebbero ricordare, ci limitiamo a citarne alcuni:
 Il naturale perduto (ed. Dedalo), Selvaggio e domestico (ed. Muzzio), Il mondo senza qualità (1995), La comunicazione a rete globale (1998), Grammatica della comunicazione (II ed. ampliata e aggiornata, 2002), Leggere i materiali (2000), Il mondo degli oggetti (2001), Abitare il corpo: la moda (2004), I panorami del contemporaneo (2005).


Cristiano Mattia Ricci
Su Sergio Voci

STUDY FOR A LANDSCAPE
Storie di quadri, pittori e allegorie nell'opera di Sergio Voci
FIRE

Reclamava invano la giustizia, lì nel traffico cittadino, con quella sua tosta faccia di volpe; e alzava a intermittenza lo stremato bastone da viaggio, rendendosi più evidente a quel piccolo mondo circostante.

Il suo canto ci dice del comune errore di essere cittadini fatti, nella città, e poco equipaggiati, insieme, di senso civico.

La pistola impugnata era un monito, una sospesa presenza; cosicché potesse apparire a tratti una convinta rappresentazione allegorica della sicurezza, ad arte disegnata.

Il fuoco sbuffava per la strada. Le zampe d’arancio sostenevano senza esitazione il bastone.

Il fuoco è un canto che avvolge le cose, col suo fioccare fioco; persino le sirene sono perfettamente accordate.

La canzone che si sente ha sapore di rock ed è la più sciocca del momento.

L’arrangiamento piccolo e inutile, a portata di mano, si prepara a essere il più occidentale del pianeta.

E lei, contemporaneamente, ballonzolava con aria festosa e spensierata dentro all’opera; volpe fischiettante e astuta col cappello. Stramba personificazione della sicurezza, con modi tipici del tip tap.

“Rappresentare l’uscita dal nero del fumo” ripeteva con aria saggia, mentre osservava le cose frantumarsi e la ricchezza in corso delle forme del degrado.

BRAVI BRAVI

Erano africani, uomini e donne, di pelle nera e produttori di multipli colori.

A ogni angolo delle nostre città, invece, il lavoro era fatto di computer e di rabbia.

Diventò allora ben visibile come le mappature stesse, sul quadro dei continenti, avessero forme diverse. E questo, nell’opera, alludeva sicuramente alla sostanza.

Se si fosse trattato di luci, anche domestiche, sarebbero apparse più spente al Nord e più vive al Sud.

Lo abbiamo creduto insieme noi e molti altri ancora qui presenti.

Non interessava invece all’uomo che prese a rappresentarsi nella stanza, con il telefono squillante e la mano dentro il sangue.

HAPPY BIRTHDAY

Quel giorno è venuto a te quasi fosse un carnevale del Brasile, spontaneo, con parti arzigogolate e ondeggianti, pur nel feroce germogliare delle rotondità.

Era fissata al suo apice, quella testa di gatto o d’artista in fasce; sempre pronta per perdersi, al controllo delle parti. Passando, vedevo mappe, ritagli, come nelle danze solitarie di Matisse.

E la testa era quasi americana, del Nord, ma nera come i riccioli di Basquiat (1).

Portava come ognuno di noi più cravatte, indicando un collage di possibili e diverse direzioni.

PETER IN YELLOW

Mi è sembrato di vedere in Peter un ritratto, quasi frontale ma di sbieco, come i vostri pensieri. Un ritratto fatto di dolci ripetizioni, come la nostra vita; anche se forse con una sua concettualità a tratti moderna e con qualche sonorità decisamente minimale.

Così come Carl Andrè (2) con la sua arte, prima, ha ripetuto i suoi cubetti all’infinito e soltanto dopo, con piccole e minime partizioni a quadretti, Chuck Close (3) ha composto i suoi ritratti; Peter, giallo che era, infischiandosene, è andato per le stanze della casa.

Passeggiando e canticchiando vecchie canzoni marinare, infine, s’è acquattato in gran segreto alla parete; in un silenzio colmo di domande.

Perché a Peter tutto ciò che noi pensiamo interessa poco. Egli è già un bambino-scultura, come noi dovremmo essere; seppur con una striscia di giallo da proteggere e preservare da queste sparse invidie e con qualche accenno in più di marcata tridimensionalità.

Che poi ha a che fare anche con la personalità.

Come un vero bambino, Peter s’è fatto di tappi e da sé; si è vestito di plexiglas trasparente e mentre noi torniamo al pomeriggio dal lavoro con qualche toppa ai vecchi pantaloni, lui guarda sempre in faccia il sole.

STUDY FOR A LANDSCAPE


Trovarsi inaspettatamente con il corpo nudo in una stanza, così in mezzo alla natura da vederne le sue parti tratteggiare con spontaneità da una mano umana; quasi fosse essa stessa grafite di pensieri e polvere delle sue idee.

Il fiume che scorre per quei luoghi naturali, adesso ha perso irrevocabilmente l’acqua e preso la via dell’arte.

Noi ci troviamo qui a studiare insieme a voi, con fare settecentesco e misterioso, il fastoso rigoglio della natura, dall’opera gelosamente trattenuto.

Da artisti Beaux arts o pittori navigati, celiamo enigmatiche cose, sotto le lenzuola delle nostre disgustate stanze.

All’opera, infine, abbiamo agganciato il neon in anelli, per ricordare la supremazia del nostro pensiero sulle cose della natura.

Ora ci riposiamo nella calma cimiteriale, osservando con gli strumenti del mestiere questo intimo fare considerazioni con le cose “visive” dentro all’immaginazione.

GUIDE ME, MY LORD

“Cazzo e cazzettino”, Dio s’è spetasciato per intero sulla terra, e ci guarda pure incazzato…

Chi rimane qui con noi seduto davanti, a guardarlo, ha la sensazione di aspettare un autobus per andare a un museo. Ora che una guida sicura non c’è più, Dio diventa una semplice installazione; un oggetto inutile nella nostra testa che, come quella, s’illumina per sempre di solo neon. Dio spetasciato però fiorisce e canta. Soltanto dopo comincia più posato a chiacchierare con Robert Gober (4) mentre l’autobus, alla fine, arriva per davvero. Dio ora si fa in quattro e diviene ancor più piatto e insieme collaborativo mentre guarda in faccia l’artista americano. Vorrebbe baciarlo sulla bocca mentre sorride, con complicità e buoni modi, al conducente. Tu ed io, nel frattempo prendiamo segretamente appunti. Raccattiamo le nostre cose e giochiamo a tirar scoregge.

MERU, SACRED MOUNTAIN

Il monte Meru, noto anche come Sumeru, "magnifico Meru", è una montagna sacra della mitologia induista e buddista, bene. Rimane lì davanti orizzontale, appeso alla parete, meravigliosamente pregno del suo antico significato. E intorno a noi, oltre la finestra e la sua bianca luce pomeridiana, possiamo insieme ascoltare le macchine strombazzare. Con i clacson e la fantasia, compongono musiche universali.

Vadano dunque a chiavarsi sussurro d’improvviso e a bassa voce.

La montagna sacra, nascosta, rimane nella sua bellezza immobile, dietro alle cose del mondo. Concettualmente è fatta con pezzi ritagliati d’arte fotografica; rimanda a storie visive di composizioni moderniste ed è anche un documento affine a certi esempi del passato recente, di arte Land e di belle passeggiate.

Montagna immaginaria si compone di pezzi di montagne altre e reali.

Poi, sul retro del monte sacro, campeggia invece Veronesi (5). Proprio lui, il pittore astratto in persona, con la lunga barba divenuta bianca. Quello delle sperimentazioni fotografiche e dei film d’avanguardia, che arriva sino ai nostri anni Novanta. Luigi è più grande di una montagna, mentre i clacson delle automobili cercano di investire le orecchie dei passanti. Egli è solamente l’artista dei propri quadretti di arte vera, fatta di oneste geometrie. Il pittore astratto adesso gentilmente ci saluta, senza inchino esce dalla scena.

L’artista nascosto invece, è il vero fautore dell’opera.

Ora ci osserva con fare serioso, seduto sulla sua giovane sedia; prevede il nostro saltabeccare come un mago e saluta questi convulsi movimenti con la mano.

Incoraggia con un pieno sorriso queste divaganti passeggiate, sventolando un bianco fazzoletto. Soltanto dopo, educatamente, ripone il fazzoletto e si presenta; stringe energicamente la mano al defunto pittore astratto Veronesi da poco uscito dalla scena e si complimenta con noi, gente comune da bar, per l’arguzia dei riferimenti e il tempo libero a nostra disposizione.

All’improvviso però, inaspettatamente muta l’espressione sul volto, insieme aggrotta le sopracciglia e si incazza; dopo un mantra arzigogolato e incomprensibile, invoca la pioggia sugli artisti Land e dice anche, sulle macchine tuonanti in strada. Proprio quelle, urla e piange, gli stanno rompendo enormemente i coglioni. Persino vuole la pioggia e i tuoni, sui passanti che corrono ignari di sotto nei marciapiedi, addormentati dalla quotidianità.

Poi torna copiosa la pace nella stanza e tutti guardiamo in silenzio il monte Meru, appeso.

Sergio ha compiuto l’opera con i suoi pensieri e le sue mani; come con la pioggia. Ha cercato il dialogo tra le voci e attribuito un nuovo significato a più storie passate e presenti.

Ha messo infine in faccia alla montagna sacra un antico rosone, gotico o messicano, forse parigino e nigeriano.

MY BABY IS PLAYING IN THE BATH

Il bambino canta, e pare una bambina, “Oh-Sho-Be-Do-Be”,

nella vasca delle mele. Il bambino a Sain Paul de Vence (6),

sembra stare nudo ai piedi di una chiesa , “Oh-Sho-Be-Do-Be”.

Gli uccelli sono i suoi sogni; si corteggiano e fischiettano sull’albero,

mentre guardano il bambino farsi il bagno, “Oh-Sho-Be-Do-Be”.

IDOLS


La nostra è una guerra del cazzo. Provi ad alzarti in piedi dal letto e, ancora stanco, infili la strada che ti porta ai guasti pantaloni mimetici. Poi nella luce biondo-fioca della stanza, guardi dalla finestra semiaperta e osservi, tra la luce naturale, quel quadro di Sergio, sospeso in un cielo senza regola. Adesso non senti i rumori provenire dalla strada e hai anche dimenticato le condizioni presenti della tua esistenza.

Poco tempo dopo, tutto questo torna a risuonare; tu rimani fermo ricordando chi sei e più non vedi il quadro e i suoi raggi luminosi.

Quel quadro si era impresso come luce nella tua memoria; raccontando di questioni che ci riguardano e rappresentando, tra l’altro, il progressivo appassire della tua guerra quotidiana e insieme di te stesso.

Lì è stata rappresentata la greve sospensione di un autentico caos estremo. Quello dei tuoi giorni quotidiani dove, nel mezzo delle cose insulse, nella tua mente spossata di mezzo combattente, domina su tutti gli altri come una bandiera un saturo e insistente colore verde.

E infili per errore le tue rigide gambe frastornate in una sola gamba dei guasti pantaloni mimetici, estenuati dalle inutili lotte.

Cadi e risuoni senza santi all’improvviso; come un grosso guerrigliero cretino sul pavimento. Hai generato col tuo impaccio una forte e curiosa vibrazione che cresce nella soletta della vecchia palazzina, dove rimani per qualche minuto disteso senza bearti. In quel momento avverti un acuto senso di perplessità sulle tue cose e su quelle del mondo.

La tuta mimetica dell’arte della guerriglia, è quella dei pensieri marziali del mattino che vorresti ti fossero d’aiuto quando qualche ora dopo entri per tratti strisciando, con il volto bianco del perenne sottoposto, nel tuo magro ambiente di lavoro.

Quel luogo salvadanaio per l’anima, nella tua vita senza fiori, a cui allude il quadro.

Dove sempre puoi avere certezza di trovare un’allegra moltitudine di belle persone; spesso molto perbene, molto normali e molto importanti.

Un gruppo appollaiato alle pendici degli uffici, di cantanti uccelli di belle canzoni, o musicisti anche un poco roditori della tua poco grata esistenza di soldato.

Tanti idoli monoformi senza colore, per poca presenza. Un’umanità che diviene statuaria e di grande rilievo; portatrice di un’ideologia pura e di elevato pensiero.

Spezzato sul pavimento giaci nella calma, attorcigliato nell’agonia del risveglio; ricordi confusamente quel colore verde esistito soltanto nel piccolo spazio della tua mente. Adesso tutto è cambiato; comincia a riformarsi, nella chiara verità dei tuoi occhi, quell’impressione di verde ricorrente che vivace si sfilaccia e ingigantisce.

Sul pavimento di casa, hai occhi tremanti rivolti alla terra; il ricordo del quadro abbracciato al silenzio del cielo, prende forma con grandi macchie di verde Guatemala. Sulla tua povera retina d’impiegato, si forma una estrema ribellione al presente.

Un verde guatemalteco che ti nasconde dagli idoli del quotidiano: quei tanti idoli con i baffi all’insù e la tintura di nero che costellano questa normalità senza ideologie. Gli idoli del vuoto, dell’arrivo alla fine del gioco. Gli idoli-uomini della ripetizione del nulla fatto uomo. Idoli ancora incapaci di fischiare, con il fiato maleodorante come peste, sulla terra.

4 marzo 2010

(1) it.wikipedia.org/wiki/Jean-Michel_Basquiat
(2) it.wikipedia.org/wiki/Carl_Andre
(3) it.wikipedia.org/wiki/Chuck_Close
(4) en.wikipedia.org/wiki/Robert_Gober
(5) it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Veronesi
(6) it.wikipedia.org/wiki/Chapelle_du_Saint_Marie_du_Rosaire

NOTA

Sergio Voci (Jos, Nigeria, 1975), vive e lavora a Milano.
Nel '99 ha esposto al 
Care Off/Via Farini a Milano, nel 2000 all'Accademia di Belle Arti di Monaco, nel 2001 e 2002 ha collaborato con la galleria Fabbrica Eos e nel 2007 con Room Gallery, ancora a Milano.http://www.sergiovoci.com/


Morena Fanti
Intervista a Samuele Peroni

APPUNTI PER UN LABIRINTO
Per questo libro d’esordio, Appunti per un labirinto (La Vita Felice, 2009), una raccolta di racconti dallo stile introspettivo e profondo, Samuele Peroni ha scelto un linguaggio immediato e ricco di suggestioni. Il percorso si snoda tra diciannove racconti, che sono spezzoni di vite fotografate nell’attimo del ripensamento o del ricordo. I protagonisti sono i pensieri che fluiscono come scivolassero tra gli anfratti della coscienza ravveduta, ma anche della coscienza incosciente di sé.
I temi dei racconti sono sviluppati dall’autore con introspezione, argomentando di Vita e di Morte e passando per l’Amore, che diventa quindi il simbolo di tutta la vita.
La Famiglia è un altro dei temi che sono spesso presenti in questo libro: il padre e la madre, la loro mancanza, o la mancanza del loro esserci, diventando, quindi, un ossimoro costante nel bene e nel male. La figura paterna è spesso violenta e la madre è sovente morta. Si intuisce, leggendo, che la famiglia è un valore molto prezioso per Samuele Peroni. Tanto prezioso da farne materia viva per i suoi testi.

• È vero ciò che ho affermato? La famiglia è davvero uno dei valori in cui tu credi?
Si, senza alcun ripensamento. Avere una famiglia e starvi bene è indubbiamente una cosa molto bella che può dare serenità e felicità. Ciò significa da bambino avere un padre e una madre, e da adulto avere una moglie e dei figli. In questa immagine c’è tutto; le vicende dei miei racconti sono state concepite per dare respiro a questi difficili concetti, per tentare di risolvere, spiegare, combattere, divulgare tutto ciò che tormenta l’esistenza dell’uomo in questi delicati aspetti. Credo che il mio libro sia un lavoro profondamente filosofico - i temi che affronto arrivano a rivoltare le situazioni come il vomere rivolta la terra - ma scritto con il linguaggio più spontaneo che mi riesce di produrre.
• Molti dei racconti presenti nel tuo libro sono scritti in prima persona, dando l’impressione che siano storie autobiografiche. Alcune lo sono? Da dove hai tratto la materia per questi racconti?
Mi piace scrivere in prima persona: ciò rende, secondo me, la narrazione ancora più cruda e reale, mette tutta la vicenda al centro della sua più disadorna realtà. Molti racconti sono nati da un “punto di sofferenza”; la mia sensibilità mi portava a soffrire per eventi che accadevano ovunque, nel mio paese o fuori, eventi di cui venivo a conoscenza leggendo giornali o dalla televisione, oppure da situazioni che riuscivo a focalizzare, conoscendo e analizzando persone che incontravo.
Ad un certo punto mi sono accorto che nei racconti che stavo scrivendo inglobavo anche mie esperienze, mie paure, mie sofferenze. Mi rendevo conto che “io e gli altri” eravamo (anche) la stessa cosa, stavamo vivendo la stessa situazione oppure l’avevamo già vissuta. Ho immaginato una morale, ho inventato storie, mi sono guardato dentro, e ho trovato la gente.
Per quanto riguarda l’autobiografia (è una domanda che mi fanno spesso), cito sempre Knulp, Klein, Klingsor, Damien, Narciso, Siddharta, Vasuveda, oppure potrei dire un solo nome: Hermann Hesse. Ha scritto decine e decine di romanzi con tanti personaggi, ma alla fine era sempre lui, Hermann, alle prese con la sua vita.
Uno scrittore scrive sempre di se stesso, ma se è capace, lascerà sempre alle storie la giusta velatura di dubbio e curiosità, e se, incontrandolo, ci verrà da chiedergli se i suoi testi sono autobiografici, allora gli faremo capire che è riuscito nel suo scopo.
• Anche la solitudine è un tema che si presenta spesso all’interno dei tuoi testi. E la solitudine è uno dei grandi temi di questi anni. Cosa ne pensi?
Da anni, ormai, ho capito di amare la solitudine, intesa come capacità di stare bene con se stessi per condurre la propria vita più creativa. Da un lato è però un fallimento, un’incapacità ad inserirsi, di dividere il proprio tempo con altri, con le persone che ami per esempio, con i propri figli nei casi più estremi. E’ un discorso complesso e articolato e, nel mio caso, è anche contraddittorio; amo star solo ma ne soffro, e in questo momento della mia vita sto cercando di capire meglio cosa fare, senza per questo cercare un compromesso.
Nella nostra società, la solitudine è una realtà che porta alla depressione e anche oltre. Spesso le persone dimostrano debolezza e incapacità di trovare la propria identità; ciò non deve essere una vergogna, ma è proprio in questo che dobbiamo riconoscere noi stessi, la nostra essenza, la nostra forza; dico spessissimo che dobbiamo imparare a vivere con i nostri difetti e far sì che essi siano i nostri punti di forza. La forza combatte la solitudine e ci fa aprire gli occhi su cose che prima non vedevamo.
• I racconti presenti nel libro sono stati scritti tra il 1998 e il 2006. Quali cambiamenti riscontri nella tua scrittura confrontando i primi testi con gli ultimi?
Indubbiamente i primi racconti sono scarni e disadorni, i concetti si presentano esposti con molta più asciuttezza rispetto agli ultimi, ma secondo me tutti assieme formano un album di prove, di fotografie, di momenti diversi di vita e di situazioni; la diversità diventa un motivo di differire, di distinguersi su canali differenti.
Certo che, negli ultimi testi, mi addentro come una talpa all’interno di sterminati cunicoli, tesso tele, intrappolo microstorie, le incollo, le raffronto, le sciolgo, e arrivo alla fine liberando tutta la tensione accumulata. Mi piace passare da un argomento all’altro mentre scrivo o parlo di una cosa, mi piace la fusione, il sincretismo, usare tutti i linguaggi che posso, perché, alla fine, è solamente un pensiero quello che conta, cioè il mio. L’importante è che io scriva e che riesca a comunicare i miei pensieri.
Molti mi accusano della durezza di certi testi, non capendo purtroppo che il mio scopo è proprio quello di “oppormi” al male. Inoltre vorrei ricordare che chi compie del male o delle violenze, quasi sempre a sua volta ha subito violenza. Il migliore punto di partenza per sconfiggere o evitare il male, è quindi sempre la comprensione della sua “origine”.
• So che pratichi uno sport particolare, il triathlon. La disciplina di questo sport implica un forte impegno fisico, ma suppongo anche mentale, per la concentrazione e per il convincimento. Questo tuo impegno sportivo è come una valvola di sfogo per un corpo compresso nei pensieri della scrittura?
Lo sport che pratico sta alla scrittura come la scrittura sta allo sport che pratico, nel senso che io sono un poliedrico, e sento il bisogno di esprimere me stesso con tante cose; il triathlon è una di queste, la scrittura è un’altra, ma l’essenza è la stessa.
Mi piace vivere la vita fino in fondo e provare emozioni forti, devo vedere come il mio corpo reagisce di fronte a competizioni, allenamenti, ma anche di fronte a un’opera d’arte straordinaria, oppure leggendo un libro; ho provato brividi e sensazioni meravigliose quando ho scoperto alcuni scrittori che reputo “grandi”, oppure di fronte a dipinti su cui mi sono soffermato molti minuti. Ho corso in competizioni di triathlon che mi hanno fatto provare sensazioni straordinarie, e visto luoghi altrettanto straordinari, per cui dico sempre che la fatica non esiste, è un luogo comune, in realtà è la tua mente che comanda, sei tu che vuoi fare quello che senti, la competizione e la scrittura le affronto in maniera direi orfica, credo che bisogna vivere di una coerenza completa ed assoluta in tutte le ore della giornata, solo così si può arrivare a un’integrità con se stessi, sapere chi si è, sapere ciò che si vuol fare. E farlo.
Quello che mi rattrista è vedere l’indifferenza della gente; per esempio quando mi capita di dire che ho scritto un libro, oppure che ho portato a termine un triathlon di oltre 5 ore, di fronte a me vedo persone che restano impassibili, e non sono scalfite né da emozioni né da curiosità. E’ il male del vivere di oggi, la frustrazione continua quotidiana e l’arrugginirsi inarrestabile della nostra mente.
• Usi Internet? Hai blog o partecipi a forum? Parlaci del tuo rapporto con il web.
Uso molto Internet, e dentro a questa parola metto tutto; la posta elettronica, Messenger, i forum, sia di natura sportiva sia letteraria, e ho anche un piccolo blog, che però sfrutto poco.
L’esplorazione del web scatta dalla necessità di qualcosa, oppure, regolarmente, per tenermi informato su avvenimenti sportivi e culturali, e le uscite dei dischi e dei libri.
Uso anche Ffacebook, e sto facendo delle sperimentazioni con questo strumento, nel senso che il linguaggio che si usa quando si scrive nelle bacheche altrui è un ottimo strumento di comunicazione, ma secondo me solo se hai già degli amici, così puoi scambiare fotografie e commenti, per esempio, dopo un viaggio fatto assieme, oppure per invitare sempre gli amici ad eventi.
Al contrario, il discorso di cercare amicizie non mi attira più di tanto; questo concetto è ben esposto nel racconto Il castagno nel giardino: le macchine non possono sostituire la nostra emotività e la capacità di relazionarsi con gli altri; se non sai usare la bocca, gli occhi e le mani e tutto il tuo corpo, per comunicare e trasmettere la tua emotività, allora devi lavorare su cose serie, lascia stare le macchine, che ti renderanno ancora più “disabile” in questo senso.
• Cosa ami leggere?
Le letture sono per me molto importanti, anche se raramente trovo scrittori e libri nuovi che mi colpiscono; spesso, anzi, sempre, rileggo e medito sui miei vecchi libri. Ho diversi libri sparpagliati per casa, alcuni sono importantissimi, quando li scopersi anni fa rimasi colpito dai concetti che vi trovai e da allora sono indispensabili per me, perché racchiudono la base di alcuni concetti fondamentali del mio pensiero, che si è sviluppato in similitudine con “loro”.
Mi spiego meglio: quando li lessi, le cose che scoprii erano talmente profonde, pregnanti e concordanti con me stesso che potevo io stesso averle scritte! E’ incredibile ma è così; quelle opere per me fondamentali mi accompagnano tutto l’anno, minuto per minuto, e rappresentano la base fondamentale per sviluppare il mio “sogno forte” unendolo alla mia capacità di immaginare una morale.
Scrittori come Hesse, Piersanti, Longo e McEwan, stanno in me in perfetta sintonia.
Quando lessi Farfalle di McEwan, dalla raccolta Fra le lenzuola, rimasi sbalordito e mi misi a piangere; quel racconto aveva una forza incredibile, la violenza sulla bambina era sottile, ma tremenda, nessuno vuole che quelle cose esistano al mondo, eppure ci sono, c’è un rapporto fra il ragazzo e la bambina, disarmante, raccontato e descritto con impressionante freddezza e realtà.
Io avevo già scritto Profumo, e i concetti alla fine erano incredibilmente simili.
• Prima di questo libro hai pubblicato un libro di poesie, Agresti armonie (Edit Faenza, 1997). Dalla poesia sei passato ai racconti. Cosa trovi di più appagante nelle scrittura in prosa?
Nella scrittura in prosa amo il respiro che riesco a dare alla narrazione, cosa che con la poesia mi era limitata. Dopo Agresti armonie, sentii subito il bisogno di produrre testi narrativi, i punti di partenza e gli stimoli erano più o meno gli stessi.
Pian piano le mie poesie diventavano lunghe, acquisivano corpo e respiro, sfociavano nella prosa. Nei primi racconti, ma spesso anche nei recenti, l’idea del racconto nasceva sempre da un momento poetico, da un particolare che mi colpisce e spesso mi annienta, e io invece di scriverci quattro versi ci invento attorno una storia, rivelando molto di più di quello che può immaginare un lettore di fronte ad una poesia.
• Il passo successivo potrebbe essere la scrittura di un romanzo. Cosa pensi di questa idea?
Si, buona idea, ottima direi… in realtà anni fa avevo cominciato un racconto lungo che poteva benissimo diventare un romanzo, è già diviso in capitoli, ho già tutta l’idea in testa, anche il finale. Devo solo scriverlo, o meglio, entrare in quell'orbita. Al momento sto scrivendo altri racconti, mi piace scriverli. So che un romanzo sarebbe molto più considerato, ma non mi preoccupo di ciò “che deve piacere”. Sento che devo occuparmi di ciò che devo dire e qui entra in gioco il solito discorso che da tempo sostengo: il vero artista produce sempre per se stesso, poi, esterna il lavoro e lo presenta agli altri. Il messaggio sarà lo stesso? Forse no, ma già esser capaci di accontentarsi e di soddisfare il proprio bisogno interiore è sinonimo di “elevazione” e di coerenza.

Intervista curata da Morena Fanti

NOTA

Morena Fanti, giornalista e scrittrice, vive in una casa immersa negli alberi della campagna bolognese. Dal 2001 pubblica in vari siti web. Collabora al quindicinale
 La voce dell’Isola e alla rivista culturale Pentelite, diretta da Salvo Zappulla. È redattrice del litblog collettivo Viadellebelledonne e della rivista omonima. Ha pubblicato il libro Orfana di mia figlia (editore Il pozzo di Giacobbe, 2007). Ha collaborato come autrice e curatrice alla preparazione della Antologia del Concorso di Emozioni di Manuale di Mari (edizioni Kimerik, 2007). Suoi testi si trovano nelle raccolte Il silenzio della poesia e Lo spirito della poesia (Fara, 2008) e in Poeti Profeti? (Fara, 2009).
MUSICA
Un racconto di Samuele Peroni tratto dalla raccolta Appunti per un labirinto (La Vita Felice, Milano, 2009)

Mi piace ascoltarla
seduto
con le cuffie
negli orecchi
così il suono mi entra
direttamente nel
cervello…

Siamo seduti, stiamo pranzando in un fast-food; ingoio il cibo, mastico, e parlo mescolatamente con lei. So che non è educato, ma la foga di parlare con lei è tale che mi fa tralasciare questa norma ed anche lei se ne frega, tanto che dopo poche parole ci accendiamo a dialogare insieme in questo modo.
Poi all’improvviso, mentre stiamo mangiando e parlando, mi torna alla mente un particolare che da un po’ di tempo mi tormenta; la tumulazione di una ragazza giovane, di cui non so il nome, ma della quale conservo solo il ricordo di un racconto breve e fugace, che ha desiderato essere accompagnata all’ultima dimora da un brano dei Pink Floyd, per la precisione l’inizio della suite Atom heart mother, e nel contempo mi sembra di percepire la fredda esecuzione orchestrale del brano in questione che ha su di me un forte effetto di indisposizione.
Sono leggermente innervosito da questa situazione; sto vicino a lei, le parlo dolcemente accarezzando tante idee che inclinano principalmente alla conquista, ed è appunto tutto un gioco, per cercare di arrivare ad uno scopo. Ma la conquista di una donna non è soltanto sesso: è soprattutto il raggiungimento da parte dell’uomo di una soddisfazione che attinge dall’anima, è il saziare un bisogno primario, è sentirsi appagati, e poi per me in particolare, è un po’ curare il mio male, soddisfare il bisogno che ho di avere conferme dall’altro sesso, per sentirmi vivo ed in salute, per trovare una condizione che non ho mai avuto, per aggrapparmi a una maniglia di vita, per non morire, per continuare.

Quella mattina ci svegliammo e trovammo una neve alta e candida che ricopriva tutto il piccolo paese.
Non so che giorno fosse, ma mia madre, dopo avermi ben vestito ed attrezzato con stivali in gomma, mi portò fuori; dapprima con una vecchia scopa ripulimmo e liberammo tutta la Cinquecento blu dallo spesso strato di neve, poi raggiungemmo la piazza alta del paese dove c’era il bar che spesso frequentavamo.
Facemmo una gustosa colazione, e la ricordo come la più bella della mia vita. Avevo all’incirca quattro anni.

Poi lei mi chiede perché il mio volto è così cupo adesso, ed io le rispondo che sto pensando, sto semplicemente pensando; quando penso sto zitto e sono scuro in volto; quando non penso mi comporto come un idiota, mi esprimo con una grande quantità di scemenze, perlopiù formulate senza riflessione.
Altrimenti non sarei io.
Ma perché oggi mi tormenta in particolar modo la musica? E mentre cerco di spiegarlo a lei ancora penso, ed apro gli occhi, perché ora un altro grigio ricordo mi incupisce e nuovamente mi ammutolisco ed immagino una situazione che mi ha visto protagonista, ma che non posso ricordare.

Il complesso aveva deciso per una pausa; il travolgente rock progressivo aveva cessato per qualche minuto di esistere quando ancora nell’aria calda ed umida della balera sembrava sentirsi il suono ovattato e deciso del flauto. Una giovane donna attraversa la pista da ballo con in braccio un bambino molto piccolo e raggiunge prontamente l’area dei musicisti impegnati a bere birra e a dialogare.
La donna si ferma di fronte all’uomo che suona il basso, si scambiano poche parole.
Da lontano quasi nessuno nota nulla, sembra una normale situazione di allegria, dove una madre mostra contenta il proprio figliolo ad uno o più amici. Ma quasi nessuno nota che la giovane mamma ha il volto segnato dalla tristezza, e proprio nessuno può immaginare che il bassista è il padre del bambino, e che di suo figlio non gli importa nulla.

Quale è secondo te, la più bella canzone della storia della musica italiana?- Irrompe lei, mentre mi chiedo se esiste una sorta di telepatia fra di noi, visto che improvvisamente e senza una motivazione logica entra nel discorso della musica, ed io mi trovo appena uscito dall’acido torpore dello struggente ricordo che ho delicatamente deposto, per l’ennesima volta, nella mia mente ferita, e non faccio in tempo a pensarci che a bruciapelo gli snocciolo il titolo di Al mondo di Mia Martini.
Finiamo di pranzare ed io improvvisamente mi trovo solo. Lei si è appena alzata, mi ha bonariamente liquidato con due parole che non vogliono significare nulla, ma le permettono di compiere un’azione giustificandola appieno. Tipico atteggiamento femminile che mi indispone e che mi lascia ad un destino ineluttabile.
Ho nella bocca un buon sapore di cibo appena consumato, un sapore giustamente sapido che mi consente una regolata salivazione che non mi infastidisce, ma anzi, mi stuzzica la voglia di un caffè.
Cerco di richiamare l’attenzione della cameriera ma non voglio farmi notare eccessivamente dagli altri avventori e così lei non mi vede ed io rimango con la voglia del caffè, però così facendo riesco ad osservarla più in profondità, ed ecco che il suo volto sereno e chiaro mi suggerisce i tratti del suo carattere e sui suoi movimenti decisi, ma misurati con dolcezza, mi perdo nuovamente ad inseguire pensieri di sesso. Ma c’è qualcosa che mi frena il libero pensiero, un qualcosa che conosco e che prevale su tutti gli altri pensieri che assillano la mia esistenza. Ora.
Ieri sera ero fuori con un amico e percorrendo la provinciale ci siamo divertiti a guardare le puttane.
Tutte belle e giovanissime, svestite e provocanti, di ogni regione del mondo.
De Andrè voleva bene alle prostitute; e questa frase mi risuonò più volte nella mente mentre pensavo alla tristezza ed allo squallore del retroscena che non appariva a noi, ma c’era.
A partire da chi sfrutta le ragazze, che poi è quasi la cosa meno grave. Che cosa nascondevano queste ragazze? Cosa stava dietro le loro vite? Qual era il dramma che le aveva condotte a tal punto, al punto di lasciare il paese d’origine e abbandonarsi alle periferie delle più o meno grandi città italiane.
Ecco che non sorridevo più, ecco che le poverette mi facevano pena, a tal punto che dopo essermi congedato dal mio amico, tornai sui quei luoghi, mi fermai e ne caricai una.
Era una bella ragazza dalla carnagione chiara, slava, non molto alta, provocante, perché poco vestita; metteva in mostra il suo corpo con passione e sembrava nascondere molto bene il presunto dramma della sua vita.
Facemmo l’amore, o meglio la scopai, e vi tornai più volte, ma una volta dopo il sesso iniziammo una conversazione. Le prime volte le nostre chiacchiere duravano appena qualche minuto, poi col tempo sempre più, finendo col discorrere per delle mezz'ore intere. A lei sembrava che non importasse nulla del tempo che perdeva.
Eravamo diventati come dei buoni amici e forse c’era qualcosa di più, almeno da parte mia.
Lei mi raccontava poco del suo passato, e sembrava voler cambiare discorso ogni volta che si andava su quell'argomento, ma io capivo e stavo alle regole che ci eravamo involontariamente posti, anche se io non avevo nulla da nascondere e le raccontavo di tutto.
Mi sentivo come un suo amico un po’ speciale, lei gradiva molto la mia compagnia tanto che finimmo per vederci alcune volte anche senza fare sesso.
Un pomeriggio che giravo annoiato a piedi per il centro passai di fronte ad un negozio di gioielli.
Notai un bracciale, particolarmente bello ma semplice, di colore chiaro, aveva inciso una scritta che si notava particolarmente bene, LOVE. L’acquistai e la sera stessa glielo donai.
A lei piacque moltissimo e un poco si commosse, la toccai nel suo intimo più profondo e mi chiedevo se, a comportarmi così, facevo bene o male.
Quando fai stare bene una persona è sempre una cosa positiva, pensavo, ma lei pareva sempre velata da una lieve tristezza che la costringeva ad essere non completamente aperta con me.
Ciò mi rattristava, e mentre pensavo al nostro strano rapporto, quasi piangevo, immaginando come poteva essere stata la sua vita di adolescente, o meglio, quali atrocità aveva conosciuto, perché sicuramente doveva avere avuto esperienze pessime ed anche devastanti. Immaginavo la sua situazione familiare: avrà pur avuto un padre o una madre? Ci sarà stato un momento nella sua giovane vita in cui qualcuno le voleva bene? E allora mi attanagliava il pensiero di questo qualcuno, immaginando suo padre, come sono più propenso a pensare, suo padre che amava sua figlia, che la accudiva da piccola, insieme alla madre, il padre che per il compleanno le aveva regalato un morbido peluche che lei si era coccolato fino alla fine della sua adolescenza, fino a quando nella sua vita non era entrato un uomo, o meglio un ragazzo della sua stessa età o poco più, incontrandolo il sabato, in città, dove trovava il tempo per nascondersi dietro un vecchio muro scrostato e baciarsi ed abbracciarsi e godere e soffrire di quel rapporto ancora tutto da scoprire, di quella vita ancora tutta da trovare, nascosta in fondo ai sogni di una bambina diventata adulta.
Ma poi cosa è successo, e mi vengono i crampi alla testa per sapere cosa di così terribile può essere successo per averla costretta oppure averle fatto scegliere una vita così aspra e sicuramente non voluta.
Cosa rimane di quella bambina ora: solo un braccialetto, rinvenuto tra un mucchio di ossa seppellite in fretta al margine di un bosco non lontano da una strada dove ogni giorno passano centinaia di persone, LOVE, il mio braccialetto, il mio regalo d’amore
L’unico segno di riconoscimento di ciò che resta di una persona, di una dolcissima bambina, amata un tempo dalla sua famiglia che per una serie di misteriose circostanze era venuta in Italia ed aveva cominciato a prostituirsi, e così vanificare tutti gli sforzi dei genitori di farla crescere bene ed in salute, in armonia con il mondo che la circondava.
Sì, sono sicuro di tutto questo, aveva una famiglia che la amava, ma qualcosa le è successo, non per causa di suo padre e sua madre, non sono stati loro a costringerla sulla cattiva strada.
A nulla è servito quindi il bene dei genitori, i loro sforzi, terribile deve essere ora il loro dolore, ancor di più perché non sanno nulla di lei, dove è e cosa fa.
Non sapevano che lei era in Italia a prostituirsi, ed ancor di più non sanno che lei è stata uccisa, ed i suoi resti non sono stati ritrovati che da pochi giorni, e il suo decesso risale a parecchi mesi fa, il suo corpo è stato sepolto in una zona collinare fuori dalla città dove si prostituiva.
Avevo perso ogni speranza di rivederla, poi l’altro giorno, sfogliavo un giornale… Il bracciale… non è stato difficile capire.
Tutti questi pensieri e parole prima con lei, mentre mangiavo a rilento trascinando il cibo per il piatto, raffreddandolo e sciupandolo, poi da solo cercando un contatto con la cameriera, che non è ancora avvenuto e quindi mi è rimasta anche la voglia del caffè che volevo ordinarle, ma non ho più voglia, mi è passata, ora dovrei uscire da questo posto e camminare fino alla mia auto, nel frattempo fuori ha piovuto, già da qualche minuto sto captando l’odore acre della polvere, che si solleva con le prime gocce appena toccano il terreno.

Eravamo bambini, e lei era la Bassi, Federica Bassi, brutta e sfortunata e non sapevamo neanche noi perché, era così e basta, tutti la prendevano in giro, quando la vedevamo ci si toccava per scaricare ed esorcizzare (con grandissima stupidità a pensarci ora) la sfortuna che si pensava che emanasse.
Così, lei, oltre al dramma del rapporto con i genitori (sembrava questa la principale delle ipotesi sulla sua anormalità), doveva abbinare anche il dramma del rapporto con gli altri e così veniva forzatamente emarginata, e man mano che gli anni passavano, noi andavamo a scuola, normalmente, e normalmente ci divertivamo, facevamo le nostre esperienze, scoprivamo l’amore, diventavamo adulti, facevamo varie scemenze, ogni tanto ci si inebriava bevendo un poco, però crescevamo, diventavamo adulti ed eravamo noi, alla fine, che ci ritrovavamo genitori coi bambini per mano il sabato pomeriggio al parco pubblico, e si sbuffava, si sudava a correre dietro ai nostri bambini che scappavano all’impazzata per i prati del parco, mentre adocchiavamo gli altri che ci camminavano intorno, e spesso la si vedeva, la Bassi, con quel suo passo monotono e troppo regolare, con quel suo sguardo con gli occhi sbarrati, e si rimaneva inorriditi e senza parole, così che non ci si lamentava più, e si continuava a fare gli scemi dietro ai bambini.

Ma perché ora mi balza alla mente questo ricordo della Bassi? Certo che la vedo spesso, ma distrattamente, non la osservo mai, anche se alla prima occhiata la mia impressione resta sempre quella di ogni volta, e mi ripeto quella frase che poi non è una frase, ma un sentimento di profondissima pena che sento salire dal centro del mio corpo; pena verso lei, verso la condizione tragica della sua vita,
Verso chiunque sta male, verso ogni dolore acuto che mi si presenta in maniera sottile, cose che vedo bene perché sono dentro di me. Non ci si pensa, ma in fondo si vede sempre e solo quel che si conosce, il resto non ci colpisce, il resto è la retorica della nostra umanità, tutto si sa di questo nostro modo di vivere, di questa realtà, ma nulla ci coinvolge veramente come qualcosa che conosciamo per diretta esperienza; come si potrebbero chiamare quelli che si preoccupano della salute altrui, persone attente o sensibili; ma in fondo non dovremmo essere tutti come loro?

Mi piace molto la musica, mi piace ascoltarla, seduto, con le cuffie negli orecchi, così il suono mi entra direttamente nel cervello, e mirando continuamente l’asettica grafica dell’impianto che produce il suono, come una cosa magica, mi concentro sulla musica, a fondo, riflettendo su tutto ciò che in quel momento mi passa per la testa. La musica stimola la riflessione, ci si abitua ad avere una certa attitudine, ad una disciplina, ad un rigore, questo vale anche per la lettura, però per la lettura è leggermente diverso. La musica penetra nel mio corpo, ed io capto tutte le sfaccettature dei suoni, concentrati in una caleidoscopica dimensione.
Mi chiedo il perché di questa mia passione e mi rattrista la risposta che già so, mi chiedo il perché di questo talento e predisposizione per la musica e la tristezza mi attanaglia ancor di più.
Ma non posso farci nulla, sono stato abbandonato da piccolino ad una svolta incoercibile, da mio padre, il grande musicista che non ho mai conosciuto, ma che ha i capelli come i miei, che ha la voce come la mia, che ha passione per la musica nello stesso modo che io dimostro di possedere.
Non so se amarlo oppure odiarlo; come si può amare o odiare una persona che non si è mai veduta?
E’ davvero necessario, durante la nostra esistenza, fare del bene alle persone?
Oppure la vita è una cosa che deve rifluire, scorrere armoniosamente come un’orchestra, nella quale tutti gli strumenti possano suonare insieme, e prendere tutto come viene, accettare il suono che viene prodotto, con i suoi bassi e con i suoi acuti e con tutto il resto.
Ma questo è improbabile; nella vita è sempre difficile saper accettare ciò che accade, soprattutto le cose spiacevoli. Si può anche godere e creare per tutta la vita, ma in fondo si canta sempre una melodia dopo l’altra, mai risuona tutta la sinfonia, con tutte le voci e gli strumenti simultaneamente.

Citazioni:
Hermann Hesse, L’ultima estate di Klingsor, 1920

NOTA
Samuele Peroni nasce a Faenza (Ravenna) nel 1971; da sempre vive a Brisighella.
Scrive dal 1997 poesie e racconti, e ha redatto diversi articoli e saggi di cultura su artisti locali. Ha esordito con
 Agresti armonie, plaquette di poesia (Edit Faenza, 1997).
Di recente pubblicazione è la raccolta di racconti
 Appunti per un labirinto (La Vita Felice, Milano, 2009).http://samueleperoni.wordpress.comsamueleperoni@yahoo.it


Laura D'Incà
Poesia visuale



Ripubblicando su questo nuovo archivio ideale di esperienze l'intervento sulla poesia visuale di Laura D'Incà, già apparso nella sua veste originale sul Cerchio Azzurro, un desiderio quasi ludico di colori e grafie ha preso forma dentro di me, e io non ho potuto fare a meno di assecondarlo.
Questa accurata selezione di autori e opere, già accompagnata da brevi commenti, era stata presentata in una delle prime e ridotte edizioni del Festival del Cerchio Azzurro. Il tema della poesia visuale era risultato perfetto, proprio in quanto luogo creativo di intersezione fra le Arti, carattere di nostro interesse ed elemento fondante del gruppo.
Rivedere questo passato recente e i suoi contributi, rimasti on line per lungo tempo, ha significato per me effettuare una rilettura, sia sul nostro lavoro come ex gruppo, sia sulla poesia visuale nello specifico.
Da questo ha preso spunto questo mio modesto contributo sulle immagini, che vorrebbe offrire al lettore una breve pausa di riflessione su questa espressione creativa, e al contempo porsi come piccolo omaggio a una forma d'avanguardia artistica presente dentro l'Uomo sensibile sin dalle epoche preistoriche.
Ogni immagine presentata è frutto di elaborazione, anche se minima; rimane invece invariato il suo susseguirsi, e così le didascalie originali dell'autrice.
L'immagine che nasce, come già accennato, diventa libero gioco visivo forse pregno di significati che non attengono alla realtà materiale ma soltanto a quella mentale, come sempre amo fare.

Cristiano Mattia Ricci


La poesia visiva, o visuale, è una forma artistica collocabile a metà strada tra la pittura, o più in generale le arti figurative, e la poesia come testo scritto. Anzi, meglio: la poesia visuale è il filo conduttore tra l’una e l’altra. La poesia visuale utilizza la scrittura in senso iconico, allargardone il significato puramente letterale (fig. 2).
Le radici della poesia visuale sono riconoscibili in varie opere classiche (fig. 3 - George Herbert, Ester Wings, The Temple, Cambridge, 1633).
Il classico dei classici è il Palindromo del Sator. Questa frase potrebbe significare "il seminatore Arepo regge con fatica le ruote [dell'aratro]". Nessuno ne è certo; e il senso della frase ci interessa poi davvero? La parte affascinante è la forma grafica, e il fatto che la stessa frase può essere letta in tutte le direzioni e in tutti i sensi, dal basso verso l’alto, da sinistra a destra e viceversa (figg. 4 e 5).

La poesia visuale può essere suddivisa in due filoni principali. Uno proviene dalle "tavole parolibere" delle avanguardie futuriste, e gioca con l'ampiezza e la forma del carattere tipografico per ottenere effetti figurativi, visivi (fig. 6, Filippo Tommaso Marinetti, Dune, e Giacomo Balla, Canzone di maggio, 1914; fig. 7, Fortunato Depero, Verbalizzazione astratta di signora, 1916).
Il russo Vasili Kamensky elabora dei testi formati soprattutto da sostantivi, connessi in modo non sintattico, ovvero puramente visivo. Nel suo libro piu' innovativo, Tango con Vacche, pubblicato nel 1914, raggiunge i limiti dell'esercizio tipografico, come in Telefono, un esperimento radicale con diversi tipi di carattere (fig. 8).
Dello stesso periodo abbiamo altri esempi più conosciuti, come le opere di Guillaume Apollinaire, FranceCalligrammes, (1913-1916; fig. 9).

Nel 1944 Carlo Belloli pubblica Testipoemi murali e Parole per la Guerra. In questi lavori le parole sono sistemate orizzontalmente sulla pagina a formare strutture più o meno complesse (fig. 10).

Nei primi anni Sessanta la poesia visiva è interessata soprattutto ai rapporti con la cultura e la comunicazione di massa.
Vengono utilizzate immagini soprattutto fotografiche e ritagli di scrittura. In questo modo si recuperano materiali pre-elaborati, come foto pubblicitarie e titoli di giornali e riviste, sviluppando una linea di ricerca che disperde il fascino seduttivo delle immagini della società consumistica, le distacca dal loro contesto e vi contrappone un testo discordante.
La connotazione ideologica di questo movimento artistico è chiaramente di opposizione al sistema, ed esprime una posizione politica di lotta alla coercizione esercitata dai messaggi pubblicitari e dei mezzi di comunicazione di massa, di cui si vogliono ribaltare i codici. Invece di rappresentare il rapporto prodotto-consumatore, si cerca di riappropiarsi di questo linguaggio per recuperare il rapporto di verità tra immagine e comunicazione.
L'immagine e il testo utilizzati simultaneamente formano insieme un opera unitaria; in essa sono contenuti livelli di informazione che riguardano i racconti prodotti dal mezzo fotografico e dalla letteratura, sì, e in più un'analisi dei processi narrativi che tali mezzi possono produrre, nell'intreccio tra parola e immagine.
Tutto comunica, tutto può essere coinvolto nella comunicazione: non solo la parola è nello stesso tempo verbale e iconica, ma anche l'immagine e l'oggetto lo sono contemporaneamente. Segni, figure retoriche, metafore, simboli, associazioni, oggetti, fotografie, il proprio corpo, qualunque cosa (fig. 11, Mirella Bentivoglio, Storia del Monumento, fig. 12, Ian Hamilton Finlay, Poster Poem, figg. 13 e 14, Decio Pignatari, Brazil, figg. 15, 16, 17, Luciano Ori, Non facciamo le solite cose e Tutto il meglio, fig. 18, ritratto di Luciano Ori, fig. 19, Mirella Bentivoglio, Ti amo).

Le mie parole di Ketty La Rocca: parte di una video-opera presentata nel 1972 alla Biennale di Venezia intitolata Appendice per una supplica. Le protagoniste dell’azione sono le mani. Nella prima parte del video l’artista compie gesti semplici, mostrando il palmo e il dorso delle proprie mani. Successivamente compariranno due mani estranee, infine nella terza parte del video alcune dita vengono nascoste, mentre sullo schermo appare il numero corrispondente. Il video, rigorosamente in bianco e nero, è girato a camera fissa e diventa una sorta di boccascena teatrale aperto sulle immagini bianche e luminose delle mani, fantasmi sul fondo scuro (figg. 20, 21).

" […] ho tutti i difetti della donna senza averne le qualità / un femminile negativo, come altre / espropriata di tutto, escluso di quelle cose che non fanno gola a nessuno. / e sono tante, anche se un po' da rimettere in ordine, / le mani, per esempio, troppo tardi per abilità femminili, troppo / povere e incapaci per continuare ad accaparrare, / è preferibile ricamare con le parole e accelerare la paranoia universale, / e al primo degli imbecilli che crede di scoprire l'America " sarà per un / matrimonio andato male", sì, infatti, è proprio per questo / non riuscirò mai a capire".
Ketty La Rocca

Più recentemente, la possibilità di utilizzare tecnologie diverse ha favorito lo sviluppo di nuovi esperimenti, come l’animazione flash The dreamlife of letters, scaricabile da http://www.ubuweb.com/.

NOTA

Laura D'Incà (fig. 1) è nata a Monza. Vive e lavora a Milano. Ha pubblicato una raccolta di poesie per Edizioni Nuove Scritture e un testo singolo per Pulcinoelefante. Altre poesie sono apparse sulla rivista Nuovi Confini n. 10.

Intervento pubblicato su 
www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Sergio Vimercati
Chiara Lampugnani, tra design e arte


Caratteristica principale dell'attività di Chiara Lampugnani è il connubio tra design e arte.
La ricerca è infatti imperniata su due fronti: da un lato il recupero della manualità prettamente artigiana, la volontà di plasmare la materia al fine di ottenere un oggetto ben definito, in questo caso un monile da indossare, dall'altro lato l'intenzione di creare un elemento fine a se stesso, frutto della mera sperimentazione artistica. Le farfalle qui presentate, scaturite dall'assemblaggio di strass, assolvono quindi alla funzione tradizionale di spilla o fermaglio, ma sono nello stesso tempo delle entità avulse dall'uso quotidiano e destinate ad essere oggetto di pura contemplazione estetica.
Il contrasto tra manualità e tecnologia, a ben vedere, non è altro che l'estrinsecazione, ancora una volta riaffacciata nell'universo dell'arte, dei concetti proposti e sostenuti dal Bauhaus, la celebre scuola di arti applicate fondate da Gropius nel primo dopoguerra, fucina di talenti nella Germania degli Anni Venti. E la stessa filosofia ha permeato le ricerche condotte della nostra artista a fianco di Arnaldo Pomodoro. L'esperienza maturata presso lo scultore le ha infatti consentito di impadronirsi di una nuova metodologia nella lavorazione dei metalli: non solo del rame, che ridotto in fili costituisce lo scheletro delle farfalle, ma anche dell'oro e dell'argento. Questi due metalli nobili sono stati utilizzati per realizzare l'arazzo esposto in quest'occasione, il lavoro solo in apparenza più legato alla tecnica artigianale intesa in senso tradizionale. La composizione astratta, infatti, si rivela una rivisitazione in chiave materica dell'arte della tessitura.
Ancora una volta, quindi, innovazione nel solco della tradizione.
Un discorso a parte merita il terzo lavoro qui presentato, costituito da quattro pannelli in plexiglas.
Le immagini sono ingrandimenti di radiografie di organi interni dell'artista.
Il corpo, scomposto, smaterializzato, annullato, è riemerso sotto un nuovo aspetto. Scompare la materialità, rimane semplicemente spirito, anima, elemento impalpabile. L'osservatore percepisce solo forme e colore. Possiamo considerare l'operazione compiuta come una sorta di esperimento di body-art. Parti del corpo riviste secondo una nuova luce. Abolita la performance, durante la quale il soggetto esprime il proprio pensiero, ci viene consegnato solo il gesto di tale prestazione.

NOTA

Sergio Vimercati è nato nel 1972.
Si è laureato in lettere, indirizzo Storia dell'arte moderna, è bibliotecario e annovera tra le sue passioni l'arte moderna e contemporanea.

Chiara Lampugnani è nata nel 1972.
Si è laureata in architettura, indirizzo Disegno industriale e arredamento, presso il Politecnico di Milano.
Ha inoltre conseguito due specializzazioni: trattamento artistico dei metalli al centro TAM di Pietrarubbia (direttore e docente: Arnaldo Pomodoro), e progettazione tessile presso la Stazione sperimentale della Seta, Milano.
Ha seguito il corso Arte nel web. Analisi dei concept. Le interfacce, il design e le potenzialità del mezzo, corso organizzato da UNDO.net, Milano.
E' stata premiata al concorso Moda Prima - Visual Merchandiser (Ente Fiera Milano).
Lavora come designer, e parallelamente come artista.

Intervento pubblicato su 
www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Leonardo Cascitelli
Spigolature metropolitane

SPIGOLATURE DI UNO ZAPPING METROPOLITANO
Racconto in diciannove scatti nel design crudele di Milano

Prologo
La vita a Milano scorre come al solito con un fluire lento e frenetico, opaco e splendente, esaltante e mediocre; insomma tra alti e bassi come nella maggior parte del ricco mondo occidentale. Qui ad Architettura chi mi conosce (e vi assicuro non sono pochi, perché ho fotografato quasi tutto di questi luoghi e delle sue persone) mi chiama Flash. Mi chiamano così i ragazzi, il personale delle pulizie, qualche vigilante e persino alcuni tra docenti, assistenti e segretarie, ma non perché sono oltremodo veloce con le ragazze quanto lento a sostenere gli esami, e neanche per la mia proverbiale pigrizia tanto con le ragazze quanto con gli esami, bensì per il mio immancabile, inseparabile e fedele compagno di strada: una Reflex Nikon F del 1961 con motore elettrico, ma caricata rigorosamente a bianco e nero, che qualche incompetente si ostina, meschinamente, a chiamare ancora macchina fotografica.
Nonostante ci abbia provato, non ho mai vinto un premio serio a un concorso fotografico; se si esclude qualche medaglia, quattro attestati e anche un posacenere a forma di camera, non ho ancora visto nascere dai piccoli granuli d’argento della pellicola e dalla carta per stampe al clorobromuro la mia foto Pulitzer; il mio senso critico mi dice che non mi sono neanche mai avvicinato a un centimetroquadro di un'immagine fotodinamica di Bragaglia, a un soggetto comune di Strand o a una vortografia di Coburn; e non sono nemmeno un punto della retina di Capa che incontrò il suo destino in Indocina, di Bishop che volò in cielo con i condor nelle Ande e di Symour che morì tra la sabbia, il petrolio e il dolore del Medio Oriente.
Sono Flash (nomignolo curioso, per me che non ho mai usato luci moderne dall'antico sapore di magnesio), sono Flash e questo basta per raccontare le mie cronache, spigolature urbane tra vita e design metropolitano o, se preferite condividere con me questo, tra l'indiscreto spettacolo degli usi quotidiani e la sgomenta spettacolarizzazione degli oggetti della città. Riguardo le immagini riprese a Milano in un rigido gennaio qualsiasi, e ripercorro la trama e l'ordito, la grana dell'evento stampato su carta fotografica, i fatti, il design, gli abitanti della città e le relazioni con gli incommensurabili oggetti che la compongono; scruto le geometrie, misuro le distanze e ne leggo il disegno: i crudeli elementi degli oggetti nella cronaca e nella performance singola e collettiva, che segna il momento in cui la grande storia della città incontra l’uso e i destini quotidiani, quella debole relazione con gli oggetti che ogni giorno, oltre la soglia di casa, ci circonda e di cui la memoria non ha ragione.
Nella luce rossa della camera oscura ripercorro i giorni freddi di fine gennaio quando, consapevolmente dimentico dell’architettura e delle cose importanti della città, mi sono imbattuto nell'allestimento dei suoi spazi pubblici, nella forma e nella materia di quegli oggetti (commentai allora) ancora lungi dall’essere addomesticati, nell’opera più o meno conosciuta di noti ed ignoti designer dell’urbano, nel crogiolo di oggetti degli spazi pubblici: fontane, recinzioni e cestini, vasi con panchine e panchine verdi, punti di sosta e di attesa, bacheche, edicole votive e lapidi a ricordo, accrocchi di ombrelloni, vasi, piante e grigliati per bar, pizzerie, take away e Mc Donald’s, pali di ogni genere e misura, archetti, panettoni e dissuasori di ogni specie, cippi e mènhir, marciapiedi, cordoli e gradini, ascensori, e scale mobili, corrimano e ringhiere, allestimenti vari e arredi di giardini rimediati, edicole, chioschi, tende, telecamere, cabine tecniche per l’elettricità o per la posta, aiuole per tutti gli usi, transenne, spuntoni, cartelli di pubblicità, indicazione e consigli, sedute sprezzanti di chi si siede, griglie, tombini e pavimentazioni posate a casaccio, sfiati per l’aerazione, telefoni, orologi, video e display al quarzo, lapidi, iscrizioni, bottoniere, gettoniere e distributori automatici per qualsiasi merce, insegne luminose, insegne spente e lampioni, faretti, gabinetti, porta-biciclette, improbabili tracciati e accessori di piste ciclabili, linee bianche, gialle e blu di graffiti nell’asfalto.
(FIG. 1 - Stazione Centrale, bocche tristi in un labirinto di ferro su sfiati di aria calda)

La declinazione degli oggetti, spiati attraverso l’obiettivo, non mi lascia dubbi circa l’opera di crudeltà nell’orrore del design urbano o, se volete, nello gnommero gaddiano di una ricca inutilità. Esco dalla metropolitana e, mentre lascio che gli occhi si abituino alla luce del sole dopo i neon del tunnel, declino al diaframma ottico l’arte di penetrare gli oggetti e i luoghi.
(FIG. 2 - Stazione Centrale, manette per alberi imprigionati dal pavimento di una piazza; FIG. 3 - Via Vittor Pisani, portico con ombrelloni e paraventi sulla città)

Oggetti muti che cantano le lodi e le nenie della città, la bellezza e la crudeltà degli uomini della città. Lo spazio pubblico si carica di attributi attraverso gli oggetti che di volta in volta determinano la scena, ne formano il fondale, la singola parte o la nota stonata dell’orchestra.
(FIG. 4 - Stazione Centrale, cose e non-cose...; FIG. 5 - Corso Buenos Aires, sguardo fisso di panchina con vaso, per manichini di un giorno speciale, dentro un luogo comune)

Mi lascio colpire dal particolare e dal punctum che per Roland Barthes, nell’immagine impressionata, può ferire lo sguardo e l’anima; gli oggetti della città ci circondano, a volte ne siamo sopraffatti, difficilmente si lasciano usare, segnano un percorso interno allo spazio definito del progetto e un labile spazio esterno, aperto e lasciato alla deriva. Da questa deriva cerco l’origine, gli esiti e le cause, l’inafferrabile anima degli oggetti e la parola progettante che li ha generati.
(FIG. 6 - Facoltà di disegno industriale, dentro il luogo del sapere; FIG. 7 - Via Vittor Pisani, slalom di un invito a ostacoli)

Quotidianamente veniamo in contatto con gli oggetti della città, ma solo distrattamente. L’oggetto o l’elemento di crudeltà è il dettaglio, il particolare nascosto o la palese certezza per pochi (quasi sempre i più sfortunati della massa), l’angolo, la punta o la curva suadente, il materiale, il colore, la posizione o la combinazione, il dislivello e l’inutile ingombro.
(FIG. 8 - Via Vittor Pisani, soldatini di porfido per la conquista della città; FIG. 9 - Stazione Centrale, aspettando la pubblicità)

Cerco la differenza tra gli oggetti domestici e quelli fuori della soglia di casa ancora “da addomesticare”: quei piccoli e grandi oggetti della città che usiamo di malavoglia, che impediscono dei comportamenti, che ne provocano altri, diversi o inaspettati. Gli oggetti segnano lo spazio urbano indifferenti, sempre uguali a se stessi ovunque essi siano.
(FIG. 10 - Via Vittorio Veneto, mosso di diaframma urbano; FIG. 11 - Via Vittorio Veneto, albero in gabbia)

Gli oggetti denunciano l’arroganza dei poteri tecnici, della separatezza delle competenze, che al dialogo preferiscono impalare la crosta della terra con i loro mènhir: pali della luce, pali per cestini portarifiuti, pali per insegne, pali per segnaletiche stradali, pali per semafori, pali di staccionate, pali che reggono fili che reggono qualcos’altro, pali per ogni uso, per legare biciclette, per attaccare messaggi e pubblicità, per una pipì per cani, per appoggiarsi, per impedire il passaggio di un’auto, di carrozzine, di stampelle, di bambini alla mano. Si percepisce la regola e il suo contraltare: l’uso.
(FIG. 12 - Quartiere di Greco, aspettando l’autobus: il viaggio è un divertimento, l’attesa meno; FIG. 13 - Via Padova, panchina di acciaio distesa al sole)

Mi appare d’improvviso un mondo schiacciato su un unico polo, senza la ricerca di coerenza e bellezza; l’apparente esatta disposizione e l’accostamento casuale, il voluto o l’inconsapevole, il mettere in mostra e l’allestimento dell’effimero minuto trova negli oggetti gli attori inconsci della scena urbana.
(FIG. 14 - Via Vittorio Veneto, alla scoperta di un percorso di un trial pedonale; FIG. 15 - Via De Marchi, cornici su cornici su cornici su cornici su cornici su cornici su cornici su cornici. E il quadro dov’è?)

Mentre le ombre si allungano, disegnando inconsueti paesaggi animati, le architetture della notte e gli oggetti approdano nell'inquietudine urbana di esperienze reali. La logica geometria del giorno, nella notte esplicita le sue regole e i suoi divieti. Gli oggetti (“non-cose” di giorno) di notte annunciano il riflesso di un’anima arrogante e grossolana, una geometria variabile tra il giorno e la notte.
(FIG. 16 - Piazza Duca d’Aosta, fine della comunicazione?; FIG. 17 - Giardini Bacone, comode panchine con bracciolo anti-barbone)

Siamo circondati di oggetti, a volte ne siamo sopraffatti, quasi mai ci stupiscono. Spesso gli oggetti, o i piccoli dettagli che li compongono, ci umiliano: l’inutilità, la volgarità, la crudeltà ci colpisce più della fantasia che li ha prodotti.
(FIG. 18 - Giardini Bacone, giochi urbani e accessori per bambini; FIG. 19 - MM2 Repubblica, rinfilo il tunnel delle viscere metropolitane. Che odore hanno gli oggetti? Quello di chi li usa o di chi li ha fatti?)

Epilogo
Quella giornata passò tra la rigidità del tempo e l'inesorabile esattezza del tempo; oggi disvelo il contraltare di un dipinto mandalico, un diagramma semplice e complesso allo stesso tempo, una traccia di polveri colorate, un intreccio di fili tesi a disegnare la foggia del telaio o, forse, solo una particolare disposizione dello spazio, un'architettura, un allestimento di oggetti, oggi come sempre, quale processo di reintegrazione dell'esperienza individuale nell'unità del cosmo. Mentre vedo svanire nell’acido fotografico l’illusione e il buon gusto, perso tra le frattaglie di un osceno urbano che mette in ridicolo lo spazio pubblico, mi chiedo, tra gli oggetti scrutati, dov’è l’allusione, l’invenzione, l’arte, il progetto. Mi chiamano Flash, come tutti i miei simili ho sempre troppa poca memoria per ricordare veramente, ed è per questo che conservo le foto in un album speciale per me e per qualcuno che avrà ancora voglia di cercare il bandolo della matassa per continuare a tessere il filo, né a colori né in bianco e nero, di una verità.

NOTA

Leonardo Cascitelli, nato nel 1961, è architetto e professore a contratto di Architettura sociale alla III° Facoltà Architettura-Design, Politecnico di Milano.
Dal 1990 si occupa di pianificazione e progettazione urbana presso il Comune di Milano.
Ha partecipato a diversi progetti di recupero e riqualificazione urbana, occupandosi delle tematiche ambientali e sociali, anche attraverso l’attivazione di tavoli di progettazione partecipata.
Nel 1997 ha collaborato con l’Ufficio tempi alla realizzazione delle mappe del rischio per la sicurezza urbana e dal 2000 è uno dei responsabili dell’implementazione e della valutazione di programmi integrati d’intervento, anche come consulente di altre amministrazioni pubbliche.
Attualmente, tra i lavori in corso, è responsabile del progetto La casa delle esperienze, per la realizzazione di un centro interattivo per bambini sui temi dell’ambiente e della natura.


Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Giovanni Schiavo Campo
Uno Tutto


Vuoto di inesistenza, pienezza di tutto: solo espressioni appartenenti alla schiatta dei servitori della parola. Tolti gli attributi rimane l’indifferenziato. L’indifferenziato, privato di tutto il resto, resta l’Uno, indifferenziato rispetto a tutto, come sussistesse malgrado tutto ciò di cui si può spogliarlo. Se l’Uno fosse il Nulla non sarebbe ugualmente tutto?
Poiché il Nulla, essendo uguale al circolo, è come il simbolo della totalità. Ma il Nulla non aggiunge comunque nulla all’Uno. All’Uno non manca la totalità; a maggior ragione ciò che è meno del totale come potrebbe aggiungergli o sottrarre qualcosa?
Uno, Totalità, Eternità dell’infinito temporale: anche se in relazione questi termini non paiono avere bisogno l’uno dell’altro per sussistere.
L’Uno è come il Signore perché è del tutto indifferente tanto alla totalità che all’eternità. Infatti, aggiungendovi la totalità non gli si aggiungerebbe nulla. Aggiungendovi l’infinità gli si aggiungerebbe l’intera serie numerica; e quando così fosse dell’Uno non rimarrebbe traccia se non come un numero tra gli altri.
Totalità è come la figura dell’infinito temporale che vi si espone; ma il tempo vi balza fuori dalla concentrazione dell’istante. Dunque è solo la figura dell’Eternità: figura del tempo.
L’Eternità dell’infinito temporale non è totalità, poiché presuppone sviluppo, successione e ordinamento dall’inizio alla fine della serie.
Ciò che si può esprimerne è tutt’al più una congerie di momenti coesistenti. Come mai presentandosi uno solo di questi eventi, altri vi si accompagnano come per intima relazione? Li si trae da qualche parte dove sono preesistenti; o dalla nostra stessa mente? O tutto ciò non è che un effetto? Un mondo si apre, un altro si chiude, come si sfogliano le pagine di un libro; e l’uno conserva la certezza dell’altro come si ricorda un sogno. Dov’è la coerenza? A un sogno si chiede forse di essere coerente? Forse, solo a conclusione della serie, a poterla abbracciare per intero, si arriverebbe a coglierne la concatenazione. Ma anche allora, in fondo a tutto, si ritroverebbe l’Uno; e l’infinito rimarrebbe senza altra cognizione all’infuori dell’Uno.
Infatti, non si parla ormai più di altro binomio che dell’Uno e dello Zero. Lo Zero, siccome è la totalità, è l’inapparenza dell’Uno; ma è ciò grazie a cui la figura dell’Uno appare completa.
Solo lo Zero dà all’Uno il pieno potere dell’apparenza per cui qualcosa ‘è’. L’Uno è troppo isolato, troppo astratto, per poter apparire come ‘Essere’. Lo Zero, a poterlo immaginare in relazione al sogno, si può chiamarlo il Sognatore.
L’Uno invece, nell’articolazione infinita dell’eternità temporale, si identifica piuttosto col Sogno.
Lo Zero è quanto vi è di reale dell’inapparenza dell’Uno: è l’Essere.
L’Essere è infatti tutta quanta la totalità. Tutta la Totalità appare in relazione col Sognatore che non è nessuno.
Di certo senza il Sognatore non vi sarebbe sogno; ma l’Uno rimarrebbe sempre a testimoniare la realtà di qualcosa contro l’apparenza: soltanto, senza il sogno, non si saprebbe che cosa.

NOTA

Giovanni Schiavo Campo è nato il 22 giugno 1960 a Milano, dove vive e lavora come collaboratore indipendente di vari periodici e critico d’arte.
Come poeta, dopo il pieghevole
 Le mandrie del sole (Monza 1988), ha esordito con L’oro e il fuoco (All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1995). Si segnalano tra gli sparsi riferimenti editi su antologie e riviste: Annuale 2, supplemento al n. 2 di FinisterreRiga (1993), Mondo giovani/mondo poesia, rassegna antologica del Comune di Milano a cura di Biagio Cepollaro e Giancarlo Majorino (1993), Anterem – Scritture di fine Novecento (Verona 1998). Singole poesie sono comparse in cataloghi di mostre e altre pubblicazioni in collaborazione con artisti: diversi volumetti stampati delle edizioni Pulcinoelefante di Osnago con interventi visivi dello stesso Casiraghi, di Paolo Schiavocampo, padre scultore di Giovanni, e di Lamberto Correggiari; una cartella di grafiche dello scultore Giancarlo Bulli (Persezioni, 1991); E il merlo?, poesia con relativa traduzione in francese accompagnata da un’acquaforte e acquatinta di Gino Gini (I libri del Merlo, Il Laboratorio, Nola 2005); laminette incise e altri esemplari unici d’artista della moglie Jelica Tipic'.
Di rilievo teorico l’interpretazione di un frammento di Eraclito (
Che cosa non nasconde l’oracolo, Manocomete 3, dicembre 1995) e, sul piano dell’elaborazione poetica, l’intervento Segnatempo: frammenti sul segno come orientamento, pubblicato negli atti del convegno Scritture e realtà – linguaggi e discipline a confronto, a cura di MilanoCosa (Milano 2000).
Frutto di una ricerca intrapresa negli ultimi anni, improntata agli esagrammi dell’I Ching, il millenario oracolo cinese, e finalizzata alla grafica del libro, è invece Ausa (2006), esperimento di autoproduzione editoriale con una ventina di testi riprodotti sia con mezzi elettronici, sia in versione realizzata con la tecnica d’ incisione su lastre di zinco (fotoincisione e acquaforte) in 30 copie, numerate e firmate, tirate a mano e rilegate dall’autore.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
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Giovanni Schiavo Campo
Suono e Tao

Il Taoismo riconosce la priorità ontologica del suono come dato di fondo che permea la struttura dell’universo, accessibile alla mente aperta e esprimibile nel linguaggio dei colori. L’azzurro, associato per eccellenza al cielo, si ricollega a questa sensazione ‘mistica’ più che l’intensità del celeste atmosferico. Quest’idea si accorda comunque con la cosmologia contemporanea, e soprattutto con le rilevazioni strumentali della radiazione di fondo a tre gradi Kelvin diffusa nell’universo, residuo dell’esplosione iniziale. (“Conosco l’oscurità: più per un suono d’azzurro/che l’attraversa…”); e tra l’altro i tre gradi Kelvin della radiazione di fondo corrispondono anche al tre della triade celeste.
I due aspetti fondamentali del suono sono: propagazione e stabilità. A quest’ultima ogni manifestazione deve la sua persistenza nel tempo. Siccome è un suono ‘totale’ si tratta anche della sommatoria di ogni vibrazione che compone singolarmente ciascuna delle cose, ripercuotendosi nell’intero senza che l’una o l’altra venga mai a cessare. In quanto totale, non solo la somma ma anche ogni singolo particolare di questa totalità è immodificabile. La propagazione, come un principio proprio del suono, costituisce l’immagine di un universo in divenire, che altro non è se non un’amplificazione, trovando sponda in un’eco come se l’intero universo fosse racchiuso all’interno di una caverna: l’immagine chiarisce anche il carattere di finitudine, essenziale (tradizionalmente) alla manifestazione.
La dimostrazione di questa ‘eco’ è data dalla ciclicità come aspetto di ripetizione proprio della manifestazione nel suo corso. La manifestazione è altresì subordinata a cicli che ne ripetono il timbro iniziale. L’amplificazione è un effetto sommatorio, per cui ad ogni ciclo sussiste il ricordo dei cicli passati che si assomma al presente. Si crea così una sorta di interferenza totale di tutti i cicli, presenti, passati e futuri, fino a rispecchiare la totalità del suono che è anche immagine totale del cosmo in tutta la sua evoluzione. Il divenire di questa evoluzione è però in ‘nuce’ dall’inizio: perciò la possibilità di ascoltarne il ‘suono’ di fondo si ha riportandosi a questa sorta di germinazione, ripercorrendo la scala delle esperienze, per concentrarsi sulla propria vibrazione come qualcosa di distinto.
Ogni essere ha infatti la sua distinzione che lo costituisce come unico: ciascuno è come una sillaba distintamente pronunciata all’inizio di quel grandioso ‘discorso’ che è la creazione. Ma come nessuna sillaba da sola è la totalità di un discorso, così nessuno esaurisce in sé l’insieme di questa totalità universale senza apprenderne gli infiniti dettagli. Quindi, a rigore, risalire fino alla germinazione, significa lasciarsi riassorbire (passando attraverso l’esperienza del distinto) dalla fonte comune di tutte le cose: questa è la finalità di ogni esperienza mistica (altro che coltivazione autistica del ‘Sé’!). Questo riassorbimento può avere anche lo scopo di una reintegrazione successiva a una fase di assimilazione di una somma di conoscenze, che porta a perdere traccia della loro unificazione: conservare traccia del distinto senza perdere il senso del globale, questo si può definire conoscenza. Massima distinzione e massima unitarietà non si ottengono tuttavia senza precisi requisiti di metodo nell’acquisizione.
Il suono dal principio al termine di tutte le cose
Stando alla rappresentazione numerica che ne hanno fornito i cinesi, i suoni dovrebbero essere cinque: tre per il cielo e due per la terra. Si ha qui una corrispondenza tra le note della scala pentatonica e le vocali. Si possono considerare tre vocali fondamentali e metterle in relazione col cielo: la A, la O e la I. La A rappresenta il principio unificante, la O è espressione della pienezza della manifestazione, la I si ricollega all’aspirazione e quindi al principio ‘aereo’. Tutte le altre espressioni di suono vocalico assumono un carattere misto, eterogeneo. In particolare la E e la U sono quelle che per la loro forma aperta alludono maggiormente alla dimensione terrestre. E’ da notare che nella notazione musicale, i greci, utilizzando lettere dell’alfabeto, potevano disporle sia nel senso normale di lettura, sia rovesciarle o rappresentarle orizzontali. La scala eptatonica occidentale aggiunge due ulteriori note che trovano corrispondenza alfabetica come dittonghi. La corrispondenza si estende inoltre dal suono al colore, dato che in natura si ritrovano tre colori fondamentali che danno origine a tutta la gamma cromatica: blu, giallo, rosso; quindi A, blu; O, espressione della piena manifestazione della luce (solare), giallo; I, rosso.
La cromatologia delle vocali nella poesia di Rimbaud ‘Voyellles’ è tuttavia differente: “A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu”. In questo caso la A allude a un indifferenziato significativamente connotato dall’immagine della putrefazione (“noir corset velu des mouches éclatantes”) come aspetto geminale-generativo che precede la manifestazione. Per converso, la O, quasi in perfetta simmetria con il principio cristiano (“Io sono l’Alfa e l’Omega”) chiude il ciclo (“O l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux”). La I, rossa, si identifica con la porpora e il sangue (connessi con la dignità cardinalizia e il sacrificio), la collera, l’amore e la penitenza: aspetti che sintetizzano l’idea di spiritualità in relazione all’ambito sacerdotale. La E esprime condizione di regalità, perciò di purezza raffigurata attraverso i relativi simboli: nuvole, accenno allo spirito divino (investitura); ghiaccio, cioè imparzialità e ‘durezza’ adamantina (rettitudine e esercizio della giustizia); fiore, sublimazione spirituale, innocenza (santificazione e beatificazione al termine della carriera umana del regnante). La U acquisisce infine l’idea dell’alimentazione, intesa come tutto ciò che è subordinato a dei cicli vitali, come il mare e la vegetazione. Ma è anche l’alimentazione come cultura, cura e passione della saggezza (“paix de ride que l’alchimie imprime aux grands fronts studieux”). La poesia le ‘Vocali’ in questo spettro di attributi, rispecchia così anche l’ideale di un ordinamento umano con le sue differenti qualità e categorie di individui: sacerdoti, regnanti, ‘produttori’ nel senso più ampio (agricoltori e pescatori; dotti e studiosi). La A sembra rappresentare tutte le attività ‘fuori casta’, associate al seppellimento dei morti e al trattamento delle sostanze in putrefazione; la U (“Suprême Clairon plein des strideurs étranges”) appare infine un’allusione alla categoria delle ‘arti’ che comprende ‘inventori’, artisti e artigiani.
La I, corrispondente al La della scala musicale, è l’’arciere’: questa vocale indica infatti i successivi ‘anelli’ della scala, come fosse la freccia scagliata a infilarli a uno a uno. La I, con la sua ‘verticalità’ è anche il piolo di congiunzione che crea la mediazione tra cielo e terra.
La A, nota di colore ‘scuro’, è come il cielo notturno. Questa vocale, mutuata dai fenici dal pittogramma corrispondente alla parola ‘toro’, e per questo in seguito rovesciata, si trova infatti associata all’idea del cielo notturno come dio-toro, ovvero del cielo che giunge come un toro portandosi con sé la nera notte, per avvolgere la terra nel suo amplesso.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
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Giovanni Schiavo Campo
Sulle "ragioni"

Ultima: una parola che indica come ciascuno segue una propria traiettoria. Indica proprio la traiettoria che si segue. Certa ‘ritenutezza’ nel pronunciarla. E’ qui che si vorrebbe dire come la traiettoria della parola sarebbe diversa da quella che si segue nella realtà. Così la parola rischia di finire irretita in continue diversioni. Ma la si potrebbe trattenere, come se la si avesse di ‘riserva’?
In che modo si potrebbe fare a meno di ‘giocare’ con le sue possibilità?
Ovvero, di giocare quella carta che è, appunto, l’ultima rimasta, volendo giocarla come se fosse soltanto una delle tante distribuite nel corso del gioco? Dovendo giocare dalla fine al principio il gioco, si saprebbero soltanto alla fine le carte distribuite, cioè si avrebbe la situazione del vantaggio nella configurazione in mano al giocatore. Questo sembra il modo in genere di rendersi conto delle ‘ragioni’: a partita conclusa. La situazione è impari in questo senso: che io gioco una carta come conseguenza – senza saperlo – di una carta che in realtà non ho giocato e solo dopo averla giocata mi accorgo che ne è la conseguenza. La spiegazione di un fatto è così, spesso, un ‘gioco cieco’ in cui io esprimo le mie ragioni come conseguenza di una situazione iniziale che mi diviene chiara all’ultimo. Il discorso è appunto la situazione da cui prende avvio l’esposizione delle parole, ma io ne conosco l’effetto soltanto dopo averle pronunciate e udite: tutte conseguenze di un qualche evento che ancora non si è prodotto. C’è la costruzione di cui rintraccio le articolazioni per darle uno splendore iniziale.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
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Giovanni Schiavo Campo
Nodo detto

Azione pensante: incisiva – vuol dire che sposta qualcosa nell’economia dell’intero? Se si imprime è scrittura (historia) si va al di sotto del “detto” (fari): ma come pensare un “al di sotto” che non sia guardare dall’altra parte il nodo? Quando il nodo lo si rigira da tutte le parti è ciò che si potrebbe dire “penetrare il detto”? Potremmo dire che annodare è segno dell’atto che rivela di sé il pensiero“Penetrare il detto” come un’azione? Si dovrebbe dire invece compenetrarsi di qualcosa per essere “detto”Il “detto”: se è superficie (scrittura) lo è tridimensionalmente: come un che di coinvolgenteIo mi coinvolgo nel significato che mi fa dirlo: vi giungo “coinvolgendomi” della parola (o della azione) che lo èTornando all’economia: come vi si incide coinvolgendolo nel nodo che fa che qualcosa sia detto? Ne orienta l’asse? Se è forza, direzionalità, sì –Ma come possiamo ritenere che le direzionalità in un intero, proprio per essere intero, non si annullino? Che la loro somma non sia uguale a zero? Che l’universo con tutto il suo straordinario dispiegamento di direzionalità all’infinita potenza non si riduca a zero, o a una potenza equivalente allo zero?Forse si può pensare: l’ordine delle cifre è scisso, così che i numeri positivi e i numeri negativi siano disposti parallelamente, ma che il loro totale è zero? Che da una “differenza di potenziale” in seno allo zero scaturisca? Appoggiandosi con bastoni ora all’una ora all’altra corda potremmo mai pensare di annodarle? Ma è compatibile che pensiamo l’intero come corde disgiunte (direzionalità distinte) col concetto del coinvolgimento nel nodo che fa che qualcosa sia detto?

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Laura Montingelli
Intervista a Eleonora Fiorani

ELEONORA FIORANI, O DEL PENSIERO VIGILE

Il mio primo incontro con Eleonora Fiorani non è avvenuto quest’anno, bensì nel 1990, al Liceo Musicale del Conservatorio “G. Verdi” di Milano, dove ho studiato e dove lei è stata, per tre anni di cui conservo straordinari ricordi, la mia insegnante di filosofia e storia.
Personalità intellettuale unica e affascinante, non fu allora per me solo una docente fra gli altri, ma una guida formidabile nel mio primo incontro con saperi totalmente nuovi, un mentore che ha lasciato, nel periodo cruciale della mia formazione, tracce profonde, come pochi sanno fare. A distanza di anni, il
 Cerchio Azzurro mi offre lo spazio e l’opportunità di incontrarla nuovamente, e di farla incontrare e conoscere (o conoscere meglio, per i più informati) a chi segue il nostro sito.
Il breve profilo biografico riportato in calce non rende certamente giustizia alla vastità e alla complessità degli argomenti filosofici, storici, letterari affrontati dalla Fiorani nella sua lunga e intensa attività di pensiero.
Desidero sottolineare quanto contributi culturali ed intellettuali come il suo siano oggi, nella difficile situazione di appiattimento e “perdita del centro” che stiamo attraversando, più che mai indispensabile e preziosa testimonianza di un pensiero vigile. Quel pensiero che sa ancora contrastare, con forza instancabile, il “vuoto che avanza”, e nel quale risiede senza dubbio la possibilità del riscatto dai minimi termini culturali che caratterizzano questi anni.
Con la modestia e la naturalezza delle persone che non hanno bisogno di ostentare la propria statura, la Professoressa Fiorani ha accolto con grande disponibilità la mia richiesta di rivolgerle qualche domanda, e mi ha aperto, in uno dei roventi pomeriggi del luglio scorso, le porte della sua casa. Una casa dove, lo ricordavo da tanti anni fa, sono i libri e gli oggetti d’arte etnica e contemporanea a predominare nello spazio domestico, e a colpire l’attenzione dell’ospite.
Una tazza di refrigerante karkadè, la compagnia di un cocker pigro e sonnacchioso, qualche momento concesso al riassunto dei nostri avvenimenti recenti, e poi ha avuto inizio l’intervista.

- Vorrei innanzitutto, se Lei è d’accordo, tracciare sinteticamente un profilo della Sua riflessione filosofica, dagli inizi della Sua attività sino ai tempi più recenti, per dare ai frequentatori del nostro sito la possibilità di orientarsi su chi è, cosa ha fatto, cosa fa Eleonora Fiorani.

Sono nata filosoficamente come epistemologa e filosofa della scienza, infatti ho studiato e mi sono laureata alla Statale di Milano con Ludovico Geymonat, che era appunto epistemologo. Ho svolto inizialmente la mia riflessione filosofica in stretto contatto con il movimento operaio e con i grandi fenomeni di trasformazione sociale che si stavano avviando in quegli anni. Mi sono laureata proprio nel ’68, anno in cui ha avuto inizio il movimento della contestazione studentesca, e la mia è stata la prima tesi “non istituzionale” alla Statale. Ho affrontato argomenti rispetto ai quali la sinistra, fino a quel momento, non aveva alle spalle una propria tradizione. Dunque il mio interesse si volgeva verso le cosiddette discipline “dure” della filosofia, ma anche verso la società e le sue profonde trasformazioni; orientavo quel tipo di studi verso la dimensione del sociale, in piena fase di mutamento, per capire cosa stava accadendo. Questo periodo è durato circa dieci anni, nel corso dei quali ho scritto diversi libri.
In seguito ho aperto un nuovo filone di ricerca e di pensiero, che andava a considerare il vegetale e l’animale, andava a recuperare cioè le dimensioni “altre” rispetto all’Uomo, ciò che lo circonda e con cui egli si rapporta e si confronta. Ho voluto occuparmi del territorio e del paesaggio: le piante, gli animali, l’acqua, tutto ciò in cui l’Uomo immerge il proprio corpo. Questo voleva dire, naturalmente, soffermarsi sulla memoria del passato remoto dell’Umanità, il tempo che viene prima della storia, studiare e capire le tracce di questa antichità remota sotto le apparenze dell’Uomo attuale, le tracce che portiamo su di noi. Sono riaffiorati, in questo contesto, ricordi di giovinezza, ad esempio la figura di Anati, studioso che affrontò per primo un’analisi scientifica dei graffiti della Val Camonica e che fondò in quella zona il grande Centro Mondiale della Preistoria, oggi riconosciuto come patrimonio dell’Umanità. Sono passata insomma sul terreno di quelle che i francesi chiamano “scienze molli”, ossia quelle discipline che non utilizzano categorie rigorose di pensiero, ma categorie più fluide, mutuate spesso da altri ambiti. Ho approfondito la botanica, la zoologia, l’etnologia, ho anche portato in Italia alcune discipline che qui non ancora non esistevano.
E’ stato un viaggio affascinante in queste dimensioni dell’Umano, il corpo, il corporeo, non come li vediamo adesso, come li abbiamo intorno (quello è un corpo truccato, manipolato, esibito), ma invece il corpo come dimensione essenziale e profonda dell’Uomo. I libri che ho scritto su questi argomenti e in questo secondo periodo sono molto diversi, nello stile di scrittura, dai precedenti. Anche Il mondo senza qualità, uno dei miei lavori più recenti, vive di una doppia dimensione, si organizza su due piani, quello del pensiero e della ragione e quello dell’emozione e del sentimento; questo secondo piano era, prima, occultato, nella convinzione della forza assoluta dell’espressione del concetto. In tutti questi libri più recenti comincio a utilizzare la prima persona, mentre prima essa non compariva, quasi ci fosse in me il timore di espormi emotivamente e di mostrarmi in ciò che io stessa scrivevo.
Un altro ambito di cui mi sono sempre occupata è quello delle arti, e anche da questo punto di vista ho analizzato la relazione Uomo/ambiente. Ad esempio, Arnaldo Pomodoro (lo scultore romagnolo ma lombardo d’adozione, da tempo grande amico di Eleonora Fiorani, ndr) ha realizzato una scultura, l’Arco-in-Cielo (un arcobaleno verde-azzurro che cambia colore a seconda della luce) che ha poi collocato all’interno del parco termale ischitano di Negombo, su cui io ho teorizzato e che è stato progettato da uno dei più grandi architetti del paesaggio, Ermanno Casasco. Casasco ha recuperato e trasformato un’area coltivata dell’isola in un immenso giardino botanico diviso in aree diverse, in cui si trovano specie vegetali mediterranee e tropicali; è un giardino delle delizie, dell’Eros, che nasce da una lettura narrativa dello spazio naturale, come il giardino orientale. Fra l’altro l’Arco-in-Cielo è un’opera particolare nella produzione di Arnaldo, in quanto realizzata in ceramica. Pomodoro adesso è anche in esposizione alla Torre di Michelangelo di Ischia, con una mostra essenzialmente antologica molto suggestiva, in questo posto bellissimo che guarda verso il Castello, detto Torre di Michelangelo perché pare che lui avesse lì degli incontri amorosi, una di queste leggende che sono sempre affascinanti… (la mostra si è tenuta ad Ischia, alla Torre di Guevara, fino al 20 luglio, varie informazioni al riguardo sono reperibili in Internet facendo una ricerca con Google, ndr).
Dopo questo lungo periodo, sono tornata a occuparmi della società attuale e delle nuove, epocali trasformazioni in atto. Sono andata a rileggere i contributi di diversi autori degli anni ’60/ ’70, fra cui ad esempio Adorno e Horkheimer, e ovviamente di quello straordinario personaggio che fu Walter Benjamin, nonché altri studi più recenti, per tornare a considerare la società e le sue trasformazioni rispetto ai modi del vivere e alla comunicazione. Ho ritrovato e riscoperto cose estremamente interessanti scritte in quegli anni. Mi sono quindi riaccostata allo studio del “qui e ora”, sentendo l’urgenza di capire in quale mondo stiamo vivendo, di trovare delle risposte, comprendendo che il pensiero filosofico vola alto, ma deve poi anche spostarsi “rasoterra”, deve occuparsi delle cose reali, occorre applicarlo alla dimensione del reale. Ero però, a quel punto, anche forte delle esperienze di studio degli anni immediatamente precedenti. Quindi ho continuato a considerare gli aspetti inerenti il corpo e la fisicità, a maggior ragione tenendo presente che la nostra è una società che è andata sempre più orientandosi verso l’esteriorità, l’estetica, ciò che si vede. Mi sono interessata anche al rapporto che viene a stabilirsi fra l’Uomo e gli oggetti, dopo aver studiato i meccanismi di relazione fra l’Uomo e i materiali; tutto cambia, infatti, quando i materiali si fanno oggetti, diventano oggetti…
- E’ così vero che nel nostro modo di vivere noi instauriamo dei rapporti spasmodici con gli oggetti, che questa dimensione è preponderante? Quanto c’è di autentico in questa affermazione e in quanta parte invece essa è divenuta, forse, luogo comune?
Il grande punto di snodo e di cambiamento si ha nel momento in cui l’oggetto cessa di essere l’oggetto arcaico dell’Uomo preistorico, e diventa oggetto–merce. Quello è il punto nodale, e lì cambia tutto. In parte il nostro attuale modo di rapportarci agli oggetti è quello “consumistico”, come si dice, quello caratteristico della “società dei consumi” (che in realtà è qualcosa di più complesso e articolato di questa definizione), ma noi abbiamo molti modi di confrontarci con gli oggetti, perché gli oggetti possono essere per noi molte cose, a seconda delle situazioni. Solo in parte l’oggetto è oggetto–feticcio. Un oggetto non è soltanto tale, in realtà noi ci confrontiamo con esso perché rappresenta il veicolo attraverso cui comunichiamo e cerchiamo il contatto con noi stessi e con gli altri.
Cerchiamo gli oggetti perché, in qualche modo, essi vengono a sostituire, nella società attuale, le istituzioni che non esistono più e che erano punto di riferimento per le comunità. Le comunità oggi hanno bisogno degli oggetti per coagularsi, per ritrovarsi, per comunicare, sia in luoghi reali sia in luoghi virtuali come Internet, e anche nei cosiddetti non-luoghi, quelli teorizzati e descritti da Augé, che in realtà sono adesso delle aree in cui avvengono delle cose straordinarie, pur senza che per questo essi perdano le loro caratteristiche di non-luoghi. Quindi chi crea nuovi oggetti nel nostro mondo, li crea sempre meno come oggetti–funzione, e sempre più, invece, perché essi inneschino il meccanismo del riconoscimento e anche della ritualità che viene a crearsi intorno agli oggetti stessi (che possono essere l’indumento, il telefono, una squadra calcistica ecc.). Da qui poi il concetto del nome particolare, della marca.
Ho dovuto recentemente occuparmi di queste tematiche anche a causa della mia attività di insegnamento al Politecnico e all’Istituto Europeo di Design di Milano, dove sono a contatto con studenti che si occupano di estetica prima di tutto, persone che studiano la moda, il design, fanno gioielli eccetera. In tali contesti sono stata stimolata a riflettere anche su questi argomenti, e ho scritto dei libri che dovevano servire come materiali di studio per gli allievi, che altrimenti facevano fatica a reperirli all’interno di mille testi diversi. E’ nata così, ad esempio, la Grammatica della comunicazione.
- Ha senso, secondo Lei, sottoporre a un giudizio “morale”, tra virgolette, l’attuale nostro rapporto con gli oggetti? In altre parole, non è che effettivamente le masse siano oggi, nei loro comportamenti, ancor meno intelligenti di quanto siano mai state nelle epoche passate?
Questa è un’impostazione del problema di tipo adorniano. Io credo che il giudizio morale sui fenomeni debba venire dopo la loro comprensione. Noi dobbiamo prima di tutto capire, per poi poter eventualmente anche giudicare. Se constatiamo che le persone si comportano in determinati modi, dobbiamo pensare che esse lo facciano non per stupidità, ma perché si manifestano in loro delle necessità, delle esigenze, dei bisogni profondi che non possono evidentemente essere ignorati, né possono rimanere inevasi.
Infatti, io constato tutto questo su me stessa (è osservando i miei stessi comportamenti che spesso inizio a pormi delle domande). Quando io compro un oggetto, a prescindere dal fatto che l’abbia desiderato tanto, poco o così così, io vivo (anche se per quanto tempo duri questo sentimento poi è da vedere) una felicità vera, autentica, tale da indurmi a chiedermi se essa si possa davvero considerare, forse riduttivamente, come una risposta a una sollecitazione che mi proviene dall’esterno, o non sia piuttosto una risposta a un bisogno profondo che nasce in realtà dal mio interno, non mi viene indotto da fuori.
Il discorso è precisamente questo, cioè dobbiamo capire che le strutture esterne lavorano sulla nostra interiorità, sulla nostra dimensione profonda, generando in quella sede i nuovi bisogni.
- In realtà, però, i veri bisogni, le vere necessità, restano insoddisfatti.
Restano insoddisfatti. Noi infatti, nella situazione attuale, siamo sempre più circondati da oggetti, ma in realtà siamo sempre più poveri, poveri rispetto alla capacità di comunicare, di elaborare stimoli, di interpretare ciò che ci circonda, pur nell’iperstimolazione che ci proviene dalle parole e, ancora di più, dalle immagini. Certamente io sono dell’idea che le cose vadano molto male; penso che quello che sta capitando è che stiamo cercando di fare a noi stessi quello che abbiamo fatto alla Natura, vogliamo dimenticarci la nostra dimensione originaria, remota, e questo mi fa molta paura, mi spaventa molto. Vogliamo cercare di adeguare i ritmi umani, biologici, del corpo, che hanno i loro tempi, ai ritmi dell’artificiale, mentre sarebbe giusto vivere anche, ma non solo, la dimensione artificiale e tecnologica.
Noi pensiamo di manipolare le macchine, ma in realtà anche le macchine manipolano noi, agiscono su di noi; non è mai un rapporto unilaterale, ma di scambio. E’ il problema della cosiddetta “deriva tecnologica”, cioè la tecnologia che non è più in funzione dell’Uomo ma del mercato, ed è questo che non funziona. Non è la tecnologia in se stessa ad essere un male, ma il modo in cui la società la vive e la gestisce.
- A questo punto io Le chiedo: come crede che si uscirà da questo empasse? Da dove verranno le soluzioni?
Noi non abbiamo che noi stessi. Le risposte devono venire da noi stessi. Certamente stiamo attraversando un periodo molto difficile, di transizione, che non sappiamo quanto potrà durare e dove ci porterà; io non ho delle risposte ma so che non abbiamo che noi stessi, non c’è niente e nessuno che può aiutarci.
- Noi ci siamo portati in questa situazione e noi ne dovremo uscire, insomma…
Sì, “noi” che non vuol dire “noi qui” e basta… pensiamo che esiste anche il Terzo Mondo, a cui l’Occidente ha creato dei problemi…
- Certo, ci sono anche altri che ultimamente, diciamo, “si stanno un po’ arrabbiando”, giustamente…
Appunto, è un discorso allargato.
- Ma se io Le chiedessi se si può ancora pensare, come è stato detto “romanticamente” in altre epoche, che “l’arte ci salverà”, Lei cosa mi direbbe al riguardo?
Che non lo credo, anche perché non vedo per quale motivo l’arte dovrebbe assumersi l’ingrato compito della salvezza del mondo. Questo poi è indubbiamente un momento molto difficile anche per l’arte; ciò non vuol dire che non ci sia più niente da fare e da comunicare in tale ambito, non sto dicendo questo, ma l’arte senz’altro non sta attraversando un momento facile.
- Lei negli ultimi anni è entrata in contatto con diversi artisti, ed è intervenuta come commentatrice e critica a varie mostre di giovani sul territorio milanese. Quale opinione si è fatta dello stato dell’arte attuale? Ritiene che ci sia, attualmente, dell’arte “di qualità”?
Non sono la persona adatta a cui rivolgere questa domanda, perché non ho competenze tali da poter giudicare a questo livello, anche se negli ultimi tempi mi ha interessato molto il lavoro di diversi artisti e in varie occasioni mi è stato chiesto di scrivere o fare degli interventi critici; erano amici, e agli amici non si può dire di no… In giro si vedono molte cose brutte, in effetti, c’è poco di interessante; tuttavia è un momento di passaggio in cui stanno accadendo anche cose rilevanti, è un periodo di sperimentazione. Il problema è che non siamo più nel ‘900, che è stato caratterizzato da una predominanza dell’arte nel contesto sociale; ora siamo nel secolo della tecnologia, ed è come se l’arte fosse stata relegata in un cantuccio, per così dire. Naturalmente mi aspetto una sua alzata di capo, magari nel senso che essa sarà in grado di fagocitare la tecnologia o comunque di stabilire un dialogo maturo con essa, ma saranno processi molto lunghi. L’arte ha ancora bisogno dei suoi tempi per confrontarsi con la tecnologia e assorbirla al proprio interno, trovare degli equilibri rispetto alla componente tecnologica.
- Mi pare proprio che senza farLe tutte le domande che avevo preparato, Lei abbia spontaneamente toccato tutti gli argomenti su cui avrei voluto una Sua opinione. Adesso stavo riguardando le mie domande, la seconda ad esempio concerneva proprio l’esperienza di docente…
Io ho sempre insegnato, e insegno tuttora, anche se potrei non farlo più, perché per me insegnare è sempre stato un modo per confrontarmi, perché solo gli studenti potevano offrirmi determinati spunti e determinate occasioni di riflessione; non ho mai insegnato solo perché era il mio mestiere e per vivere, o per trasmettere delle informazioni, ma perché questa attività era ed è vista da me in termini di scambio.
- Le è piaciuto insegnare al Liceo Musicale del Conservatorio?
Molto, perché mi ha riavvicinato a una dimensione diversa, che non avevo avuto negli anni precedenti, avendo insegnato in contesti anche molto difficili, ad esempio Quarto Oggiaro, con ragazzi anche più piccoli con i quali, chiaramente, lo scambio non poteva avvenire nella stessa misura. L’allievo di Conservatorio era un tipo di allievo molto interessante e particolare, essendo già fortemente motivato nello studio, non dicendo “chissà cosa farò” ma avendo invece un obiettivo preciso, e vivendo in maniera totale la dimensione della musica; anche se poi naturalmente c’era anche molta fragilità…
- Quello che Le posso dire è che ancora oggi, quando mi capita di incontrare qualche compagno di allora e di parlare del Liceo, il Suo nome viene sempre fuori e tutti si ricordano delle Sue lezioni.
Perché quello che si coglieva era il fatto che la persona era lì a parlare di qualcosa in cui credeva fortemente, e non soltanto per spiegare.
Mi ricordo in particolare la lezione sul Mito della Caverna, quella su tutte le possibili implicazioni del Flauto Magico, quelle su Giordano Bruno e su Walter Benjamin; in generale, comunque, più quelle di filosofia che quelle di storia, forse perché in filosofia Lei affrontava gli argomenti per grossi blocchi monografici. In storia però ricordo, ad esempio, lezioni molto dettagliate sulla Restaurazione. Spesso comunque erano temi al di fuori del programma previsto…

Certo, spessissimo. Io poi non mi attengo mai rigorosamente ai programmi, e le lezioni stesse non sono pianificate. Oggi, ancora più di allora, io non preparo le lezioni ma decido al momento cosa dire; è un pensare ad alta voce, anche perché ogni volta che si affrontano gli argomenti il modo di affrontarli cambia, non può essere identico. Ogni volta ti accorgi, parlando, di un particolare a cui non avevi pensato, come quando si guarda lo stesso quadro in momenti diversi: vedi sempre qualcosa di diverso e di nuovo. Oppure (tu lo sai, avendo studiato musica), è come suonare lo stesso pezzo più volte, due esecuzioni non saranno mai identiche, se così è vuol dire che è soltanto tecnica, ma non c’è niente, non viene fuori niente.

Intervista curata da Laura Montingelli

NOTA

Laura Montingelli è nata a Milano nel 1974.
E’ laureata in lettere moderne e diplomata in pianoforte.
Ha lavorato nell’ambito della ricerca sulla musica contemporanea (Centro Studi Arcipelago Musica), e ha svolto collaborazioni di carattere bibliotecario/archivistico (Ufficio Ricerca Fondi Musicali della Biblioteca Nazionale Braidense), radiogiornalistico (Rotoclassica di Claudio Ricordi, sulle frequenze di Radio Popolare) e redazionale (società di servizi editoriali Mirabilia), occupandosi di argomenti musicali e non.
Fra il 2004 e il 2006 ha inoltre lavorato nel settore Produzione dell’Orchestra sinfonica di Milano “Giuseppe Verdi”, affiancando a mansioni gestionali e organizzative una consulenza musicologica, con la presentazione dei concerti al pubblico attraverso incontri settimanali di guida all'ascolto.
Successivamente ha condotto esperienze di lavoro gestionale anche presso Studi di architettura, design e sperimentazione videoartistica, e ancora attualmente svolge questa professione.
Parallelamente conduce attività e collaborazioni redazionali su argomenti di cultura, arte, società (si segnala in particolare l'audiorivista per l'apprendimento della lingua italiana Incontro Italiano).

Nata a Milano, Eleonora Fiorani ha studiato filosofia della scienza con Ludovico Geymonat. Epistemologa e saggista, dopo alcuni libri sui temi del materialismo ha discusso, fra l'87 e oggi, le questioni fondamentali delle nuove scienze del territorio, della cognizione e della mente, delle forme e dei linguaggi della comunicazione, per una ridefinizione dei saperi e dell'analisi critica dello stato del mondo. Opera pertanto con le scienze di confine, tracciando nuovi percorsi e intrecci disciplinari tra epistemologia, antropologia e semiotica.
La sua attività di scrittrice è stata, negli anni, ininterrotta e intensissima, e prosegue tuttora. Ha fondato diverse riviste ed ha collaborato con altrettante, spesso insieme a Francesco Leonetti. Molti titoli si potrebbero ricordare, ci limitiamo a citarne alcuni: Il naturale perduto (ed. Dedalo), Selvaggio e domestico (ed. Muzzio), Il mondo senza qualità (1995), La comunicazione a rete globale (1998), Grammatica della comunicazione (II ed. ampliata e aggiornata, 2002), Leggere i materiali (2000), Il mondo degli oggetti (2001).

Intervento pubblicato sul www.cerchioazzurro.com (2007)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Laura Montingelli
Il gioco degli specchi

IL GIOCO DEGLI SPECCHI
La riflessione filosofica di Vladimir Jankélévitch e la musica di Claude Debussy

Qualche parola di chiarimento circa l’impostazione del mio lavoro, che ho voluto sintetizzare, “fissare” nel titolo. Perché, infatti, Il gioco degli specchi? Perché il pensiero filosofico di Vladimir Jankélévitch e la musica di Claude Debussy rimandano in modo davvero sorprendente l’uno all’altra, proprio come specchi che si riflettano scambievolmente e incessantemente un’unica immagine. Questa immagine, nel caso di Jankélévitch e Debussy, è la loro affine visione del mondo, della realtà, delle cose. Ma c’è di più: il filosofo riteneva che non solo il proprio pensiero, ma il pensiero filosofico in generale non avesse la possibilità di cogliere e comprendere a fondo il reale, prerogativa questa che la tradizione occidentale sin dalle più remote origini sempre gli aveva attribuito, se non comportandosi “come la musica”, per così dire, cioè compiendo lo sforzo sovrumano di prendere le distanze dalla propria razionalità, per vestire i panni irrazionali della musica stessa.
Dunque il caso della coppia Jankélévitch/ Debussy non è un analogo più tardivo di quella, famosa, Nietzsche/ Wagner. Infatti qui abbiamo una parte di una speculazione filosofica di ampio respiro dedicata ad una polemica e demolitoria disamina della musica wagneriana, mentre la filosofia di Jankélévitch non si limita ad occuparsi parzialmente della musica di Debussy, anzi, ne fa il proprio principale oggetto (vogliamo qui isolare le riflessioni di Jankélévitch sulle questioni della morale, che pure tanta parte hanno avuto nel quadro della sua produzione scritta), e mira ad assorbirne le caratteristiche di leggerezza, trasparenza ed evanescenza che le consentono di cogliere il reale dietro le apparenze. Dal canto suo, la musica debussyana vede detta e spiegata filosoficamente se stessa dalla parola di Jankélévitch come mai prima era avvenuto, né più tardi avverrà. E questo senza che la musica esca appesantita o, peggio, snaturata dall’essere stata prescelta come oggetto di speculazione filosofica, proprio perché il pensiero di Jankélévitch vuole assomigliare alla musica, e non spiegare la musica, fin quasi a rinunciare a se stesso; sicuramente rinunciando ad una razionalità in cui non crede più.

I. Vladimir Jankélévitch, o della musicologia filosofica
Le premesse fondamentali del pensiero di Vladimir Jankélévitch si trovano in quello di Henri Bergson. In un certo senso il primo si presenta come espansione del secondo. Infatti il problema centrale è, per l’uno e per l’altro, quello del tempo; Jankélévitch arriva ad affermare: “Il tempo è l’unico problema della filosofia” (1). Già Bergson criticava nella metafisica tradizionale la tendenza a ridurre la realtà a concetti, metodo che non avrebbe mai potuto restituire l’essenza della temporalità. Quest’ultima poteva essere colta, secondo Bergson, non con l’analisi, che spiega cos’è un oggetto dicendoci ciò che esso non è, ma con l’intuizione.
E arriviamo così ad un’altra categoria fondamentale per il pensiero di Bergson e di Jankélévitch. Le loro filosofie partecipano intensamente a quella forte crisi che attraversa, e altera irreversibilmente, ogni manifestazione del pensiero, della cultura e dell’arte nel XX secolo.
In esse il segno di questa crisi sta proprio nel rifiuto della “ratio” filosofica, che è poi come dire l’essenza del pensiero occidentale, nella piena ed assoluta convinzione che essa non garantisca la conoscenza del reale per ciò che esso è. La conoscenza del reale e del vero si può raggiungere intuendo, non speculando (benché nemmeno l’intuizione, secondo Bergson, basti a se stessa).La temporalità di Bergson e di Jankélévitch non è né quella cronologica né quella psicologica, ed è questo il “trait d’union” fra il loro pensiero filosofico e la musica.
Infatti anche nella musica il tempo non è né meramente cronologico, né meramente psicologico, ma è qualcosa di ancora diverso. Allora per la filosofia occuparsi della musica vuole dire entrare in contatto con un contesto in cui la temporalità forse si lascia cogliere più facilmente, non ci sfugge dalle mani come sabbia.
Ma c’è un altro buon motivo perché la filosofia si avvicini alla musica: l’arte in generale fa da modello alla filosofia, perché realizza l’immersione nella realtà sensibile e ci mostra aspetti inediti del reale, ovviando così all’insufficienza della nostra ragione, ma anche della nostra intuizione. Occorre poi sottolineare un’altra questione scottante: quella dello statuto ontologico del reale. Vale a dire: di quale reale stiamo parlando? Cos’è il reale? Per Bergson, ed anche per Jankélévitch, il reale non è affatto una cosa sola, statica, sempre uguale a se stessa. Il reale è invece “durata”, e dunque cambiamento, mutamento incessante che il pensiero razionale e le categorie filosofiche tradizionali non possono cogliere e “imprigionare”.
Torniamo ora alla questione della temporalità musicale. “La musica - dice Jankélévitch – è l’arte del temporale”. Affermare questo significa, da parte sua, porre le premesse per poi sottolineare anche la “non-cosalità” della musica, il suo porsi come realtà “derealizzata”. Prima ancora della musica, a monte della musica stessa, queste prerogative riguardano il suono singolo e isolato. Il suono è impalpabile, evanescente, nasce dal nulla per tornare nel nulla, non lascia tracce, come il fumo o la nebbia. E la musica è fatta di questo fumo. E’ proprio per questo che essa illustra meglio di ogni filosofia che cos’è il reale, nell’accezione bergsoniana e jankélévitchiana: “La musica attesta il fatto che l’essenziale in tutte le cose è non so che d’inafferrabile e d’ineffabile; […] la cosa più importante del mondo è proprio quella che non si può dire” (2). 
Ecco perché nel caso di Jankélévitch si può parlare di una musicologia filosofica, e, si potrebbe forse aggiungere, di una filosofia musicologica: la filosofia rinvia alla musica, perché qui più che altrove il reale si manifesta per ciò che è, e quindi la filosofia parla della musica per parlare del reale “altro”, cioè alludendo a questo reale, come la musica vi allude.
Quest’ultima infatti, e qui sta la fondamentale presa di coscienza dei compositori del ‘900, non sa e non può “esprimere” come il linguaggio verbale. E non è in grado di farlo perché in essa non c’è niente da esprimere, nessun contenuto, nessun senso. Tutti i sensi che noi crediamo di trovare in essa, in realtà li annettiamo alla musica attraverso la speculazione, e neanche tanto forzatamente, poiché la musica è, da questo punto di vista, una sorta di contenitore vuoto, disposto ad accogliere in se stesso di tutto. Resta però il fatto che la musica allude all’inesprimibile, e questo emerge con chiarezza proprio nel nostro secolo, perché essa finalmente si libera delle categorie formali “pseudoespressive” in cui è stata imprigionata, secondo Jankélévitch, fino al secolo scorso.
Quella di Jankélévitch è una filosofia della ricerca incessante, del dubbio, della rinuncia alla certezza pretenziosa e ingiustificata, e anche alla verbosità che nasce da questa certezza. Egli, cioè, assorbe nella propria filosofia le caratteristiche che ravvisa nella musica, e ritiene che il compito della filosofia non debba essere che quello di cercare di intravedere il reale “altro”, facendo costante riferimento alla musica stessa: “[…] non si dovrebbe scrivere “sulla” musica, ma “con” la musica e musicalmente, restando complici del suo mistero […]” (3). Lo stesso modo di scrivere di Jankélévitch riflette le caratteristiche del suo pensiero: è cioè libero, elastico, morbido e antieloquente; è una scrittura che vuole avere la stessa liquidità e la stessa assenza di forma della musica, vuole poter tornare sul già detto e avvolgervisi intorno come le volute di fumo o le spirali di un arabesco (e si potrebbe notare che quella dell’arabesco è una delle forme o delle categorie centrali del pianismo debussyano).
Del resto il tema dell’erranza, del vagare incessantemente spinti da un anelito di ricerca, scaturisce anche dalla condizione biografica di Jankélévitch; ebreo, egli è profondamente consapevole dei segni che la tragedia secolare del suo popolo poteva aver lasciato nella sensibilità degli intellettuali come lui, nel loro stesso modo di pensare, sempre inquieto e insofferente rispetto agli schemi precostituiti, nonché venato di quello humour che è a sua volta spia di un errare del pensiero senza meta, dopo la demolizione delle verità fasulle.

II. La “rivoluzione silenziosa” di Claude Achille
Che cos’è e come si manifesta quella crisi del linguaggio musicale che trova agli inizi del secolo un suo iniziatore in Claude Debussy? Intanto bisogna sottolineare che essa non è che un aspetto particolare di una crisi di ben più ampie proporzioni, cioè quella della visione del mondo dell’Occidente, che comincia a sgretolarsi già sul finire dell’800 ed è principalmente, e sostanzialmente, crisi di una civiltà. Il soggetto non si ritrova più nel mondo, è smarrito, confuso, iperstimolato da molteplici e contraddittori input esterni, e di conseguenza non è più in grado di utilizzare il linguaggio che era per lui abituale. Non riesce cioè più ad esprimersi. Ecco cosa viene meno: la capacità/possibilità di dire. E’ una totale, tragica afasia, che ha radici nella perdita di identità dell’uomo occidentale: “Oh, parola, parola che mi manchi!” dice Mosè, nel Mosè e Aronne di Schoenberg, straordinaria e terribile testimonianza di questo smarrimento. Anche il linguaggio tradizionale della musica, il secolare linguaggio tonale, comincia a scricchiolare sotto il peso di queste difficoltà di espressione, che generano naturalmente la ricerca di alternative.
Questi cedimenti cominciano a manifestarsi proprio nella musica di Debussy. Con lui, infatti, si introducono nella musica occidentale degli elementi che spingono verso trasformazioni radicali e irreversibili, soprattutto verso la fuoriuscita dalla tonalità. Mario Bortolotto, nell’Introduzione al suo Fase seconda, ha elencato con particolare meticolosità queste novità radicali. Cito testualmente: “distruzione del “discorso” musicale orientato, condotto secondo una retta e una sola; successione temporale la quale “non fa che esporre ciò che come significato è simultaneo”, presenza cioè di più eventi musicali contemporanei, di vere e proprie “compenetrazioni”; abolizione conseguente del classico arco romantico, tendente ad un Hohepunkt […]”, e ancora: “tecnica di accostamenti […]; tendenza sempre più marcata all’asimmetria ritmica, metrica, fraseologica, rifiuto delle forme prestabilite […]; subordinazione a questa concezione di immobilità spaziale della vecchia dinamica armonica […]” (4).
Ora, quella crisi dell’espressività musicale che nell’ottica di Adorno e della scuola di pensiero adorniana costituisce l’irreparabile tragedia della musica del nostro secolo, nella prospettiva di Jankélévitch è un punto di svolta indubbiamente difficile, ma inevitabile e positivo, perché prelude ad un affrancamento dalla certezza, ormai ingombrante, della supposta, ma non effettiva, espressività della musica.
E precisamente il linguaggio musicale completamente e radicalmente nuovo di Debussy, trasparente, fragile, fatto di sonorità ora cristalline ora velate, ma sempre sospese in una dimensione del tutto particolare, fuori dallo spazio e dentro un tempo che è istante ma anche continuità incessante (forse la migliore incarnazione della “durée” bergsoniana), precisamente tale linguaggio, dicevo, attesta con forza l’affrancamento da quella certezza e il potere allusivo della musica rispetto ad un regime ontologico insostanziale, l’unico autentico regime ontologico che esista e si possa conoscere. La rivoluzione di Debussy non si serve di magniloquenti dichiarazioni programmatiche, ma agisce direttamente sulla musica. Sbriciola le sue certezze tonali “dal di dentro”, per così dire, allentando le maglie dell’impianto armonico tradizionale, trattando i suoni singoli e gli accordi come entità sonore, prima che armoniche, liberando queste entità dalla gabbia dei metri e dei ritmi rigidi della tradizione, rifiutando il concetto di sviluppo di un’idea tematica e soppiantandolo con quello di accostamento di frammenti, a volte solo di singoli “punti” sonori (abbiamo visto tutto questo con Bortolotto); rivalutando (anzi, forse prendendo per la prima volta seriamente in considerazione nella storia della musica occidentale) la potenza espressiva, l’eloquenza sconvolgente del silenzio. La musica di Debussy è fatta in uguale misura di suono e di silenzio.
Dunque “rivoluzione silenziosa”, in quanto realizzata in silenzio e col silenzio. E rivoluzione del linguaggio musicale funzionale al dire l’unica cosa che la musica sa e può dire: l’essere inconsistente, labile, provvisorio del reale, che se può essere alluso dalla musica, non può certamente esserlo dalla parola (e rieccoci a Schoenberg): “La musica – dice Debussy – incomincia là dove la parola è impotente ad esprimere”, e questa sua convinzione emerge con particolare evidenza dove parola e musica si incontrano, cioè nell’opera, e quindi nel “Pelléas et Mélisande”, di cui più avanti parleremo.
Nelle nostre precedenti osservazioni è possibile cogliere, in due punti nodali del discorso, una implicita contrapposizione tra mondo francese e mondo tedesco, che è ben nota, ma sulla quale vale ora la pena di tornare, anche perché in questa contrapposizione risulta coinvolta la stessa figura di Jankélévitch.
Si è detto che la crisi dell’espressività musicale è vissuta come tragedia irreparabile da uno dei più grandi rappresentanti della musicologia filosofica tedesca, Theodor W. Adorno, e in generale dalla civiltà musicale tedesca, mentre quella francese, che non è meno conscia della necessità di una dolorosa rottura con il passato (e che peraltro non si incarna nella sola figura di Debussy, ma anche ad esempio nel graffiante Satie o nell’oggettivo Ravel), reagisce diversamente anche a livello di posteriore riflessione filosofica, con Jankélévitch. Si è altresì osservato che la rivoluzione silenziosa di Debussy non abbisogna di magniloquenti dichiarazioni programmatiche. Si potrebbe allora aggiungere che non solo non ne ha bisogno, ma non vi ricorrerebbe mai, data la totale sfiducia nella capacità della parola di dire effettivamente qualcosa di sostanziale. Lo spaventoso “vuoto spinto” della parola Debussy lo vede lucidamente, lo sente risucchiare l’aria fino a consumarne l’ultimo granello nel Gesamtkunstwerk wagneriano, oggetto in questo senso di totale (nonché ironica) repulsione. Occorre forse aggiungere che Jankélévitch non amava la musica di Wagner, e che le sue allusioni ad essa sono state poche, ma sempre pungenti? Occorre sottolineare come i suoi interessi musicologici si siano sempre rivolti ad un universo musicale diametralmente opposto a quello wagneriano, un universo tutto costruito sul frammento, sul pezzo breve, sulla fraseologia spezzata ed esitante, sulla sospensione data dal silenzio, sul bagliore istantaneo, sul movimento circolare ed ipnotico?
Questo è l’universo musicale di Debussy, ma anche di Faurè e Ravel, per restare in Francia, di Rimsky-Korsakov e Musorgskij, e più tardi anche di Prokofiev, in Russia, e ancora di Janacek e Bartok, nella periferica area slava, di Albeniz e Mompou, volendo guardare alla Spagna.
Non ritengo tuttavia inutile ricordare, a margine, la posizione assunta da Adorno in merito al rapporto Debussy/ Wagner nella sua Filosofia della musica moderna, posizione che può aiutarci a non liquidare sbrigativamente la questione in termini di mera opposizione. Dice Adorno: “La natura adinamica della musica francese può forse risalire al suo nemico giurato Wagner, a cui pure si suol rimproverare una dinamica insaziabile.[…]. In realtà l’instancabile dinamica di Wagner che alla fine, essendo priva di contrapposizioni, si annulla, nasconde un che di illusorio e di vano. […]. La “tristesse” fisica dell’impressionismo è l’erede del pessimismo filosofico wagneriano.”(5). Vale a dire, in sintesi, che Debussy senza Wagner non avrebbe potuto esistere, e che esistette in rapporto a lui non solo per contrapposizione ma, in un certo senso, anche per continuità!
Cerchiamo ora di approssimarci ulteriormente alle riflessioni di Jankélévitch sulla musica di Debussy, di “zoomare”, per così dire, su alcuni punti che ritengo di particolare importanza. Per farlo, ci serviremo di alcune delle categorie che il filosofo elaborò per parlare di questa musica, categorie che hanno in parte assunto anche il ruolo di strutture portanti del suo stesso pensiero.

III. I significati filosofici del nuovo linguaggio di Debussy nell’analisi di Jankélévitch
Abbiamo visto come per Jankélévitch il reale “altro” si possa afferrare intuitivamente, e come, a suo giudizio, la musica vi sappia alludere meglio di qualsiasi altra arte. Ma nella sua filosofia l’idea che gli enti debbano per forza alludere ad un reale inteso come verità trascendente viene meno. Il che equivale a dire che dietro le apparenze, ed anche dietro le apparenze sonore, il reale è il nulla. L’apparenza, per Jankélévitch, significa in sé. Le cose esistono senza cause e senza fini, solo per esistere. Questo è il grande mistero dell’Essere, il mistero ontologico. All’interno di tale contesto teorico si colloca primariamente l’interesse di Jankélévitch per Debussy.
Infatti per lui la musica debussyana è l’espressione “più profonda e più intensa” di quel mistero (6). Come l’Essere a cui allude, anche questa musica esiste senza “perché”, senza dover dire né spiegare niente. In particolare, Debussy spesso allude a quel momento del vivere quotidiano di tutti gli esseri in cui la consapevolezza dell’esistere sembra farsi più intensa, ma sembra anche più legata a quella della propria fine, ossia della morte. Questo momento è il Mezzogiorno: il tempo dell’immobilità di tutte le cose nell’aria che vibra infuocata.
Qui le citazioni d’obbligo sono due: Dall’alba a mezzogiorno sul mare, primo tableau de La Mer, e naturalmente il Preludio al pomeriggio di un fauno, entrambi lavori attraversati e lacerati da un profondo senso di eternità/caducità delle manifestazioni della Natura. Laddove essa dispiega completamente il proprio splendore, nell’accecante luce meridiana, là comincia già il suo declino, già abbiamo la profezia della sua morte. A mezzogiorno tutto si ferma, esiste nell’immobilità. Ma “immobilità” non equivale a “stabilità”. L’immobilità può rivelarsi anche nel movimento apparente, che è per eccellenza quello circolare, continuamente e ossessivamente legato allo stesso percorso. Il movimento circolare si ripete incessantemente. E infatti un’altra categoria che Jankélévitch individua nella musica debussyana è quella della ripetizione/circolarità. A questo proposito si potrebbero ricordare la terza Image per pianoforte, Mouvement, dove in realtà abbiamo una “vorticosa stagnanza”, un agitarsi delle terzine per non andare da nessuna parte, il dinamismo nervoso dell’Isle joyeuse, o ancora, in ambito sinfonico, le Rondes de printemps, fra le Images per orchestra. Fra le opere dell’ultima stagione creativa, lo studio Pour le cinq doigts è legato alla stessa idea. La possibilità di ripetere della musica è, secondo Jankélévitch, una delle prerogative che non solo la distanziano dal linguaggio verbale, ma pure la rendono superiore ad esso. Infatti quando parliamo la ripetizione non è mai gradita a chi ascolta, a meno che non si configuri come artificio retorico per rilevare un concetto rispetto agli altri. In musica, invece, una frase o un frammento ripetuti non sono un riempitivo, vuoto di senso (come non lo è il ripresentarsi del tema in un'opera ciclica o del Leitmotiv in Wagner). Anzi, qui (come in poesia) ripetere giova a far meglio comprendere. E poi, “panta rei”, “tutto scorre”; dunque anche qualcosa che si ripropone, per il fatto stesso di riproporsi non può più essere identico a se stesso, non può più avere lo stesso significato.
Il falso movimento, il movimento apparente, che si caratterizza per l’insistenza, ha in sé una sorta di potere ipnotico, incantatorio, magico. La magia della musica di Debussy è però una “magia bianca”, molto diversa da quel perverso potere che sottrae l’uomo alla propria Ragione e lo fa preda del furor panico.
Dice Jankélévitch: “Cave carmen! Guardati dal carme incantatorio! Il che però non vuol dire: rifiutate in generale di essere incantati. Questo implica che si possa distinguere fra incantesimo e incanto […]” (7). Ancora una volta, insomma, ci troviamo in presenza di quello straordinario Giano bifronte che è la musica, che incanta con Orfeo, ma strega con le Sirene. E la musica di Debussy è senz’altro da assimilare alla benefica musica orfica.
L’incanto è una categoria su cui Jankélévitch insiste molto, chiamandolo “charme”, termine che noi in italiano connettiamo all’idea di fascino e grazia. Cos’è esattamente questo “charme” della musica? E’ la sua capacità di mostrarci la straordinaria varietà, le innumerevoli forme, i colori cangianti della Natura, con la leggerezza e la provvisorietà che sono propri delle stesse creature che essa trasforma in armonie e sonorità suggestive e avvolgenti. Abbiamo detto “la provvisorietà”. Infatti il mistero dell’Essere non è solo mistero della vita senza causa e senza scopo, ma anche mistero della morte. Se non sappiamo perché esista la vita, la più grande tragedia è che non sappiamo perché esista la morte. Il momento di esplosione della vita, il mezzogiorno, è anche il primo momento in cui si preannuncia la morte, lo “scandalo dell’annientamento” (8). Il mistero della morte è “il mistero per eccellenza” (9), il quale nella musica debussyana si può manifestare tipicamente attraverso la contrazione e intensificazione dei ritmi, che reagiscono al pericolo imminente.
Il grande e inconsolabile dolore causato dalla morte ventura o venuta promana da tante pagine debussyane, che sono, al contrario, di una agghiacciante staticità. Il gelo della morte è alluso talvolta attraverso il gelo dell’inverno: The snow is dancing, all’interno del Chidren’s cornerDes pas sur la neige, uno dei Preludi. Ma in altri casi si esprime attraverso un’austerità definita “crudele” (10), ed è quella dei Dodici Studi, che sono il testamento spirituale di Debussy, la sua ultima composizione, ormai proiettata non solo al di là della tonalità, ma anche dell’ impressionismo/simbolismo.
Tuttavia, il mistero della morte trova la sua silenziosa celebrazione nel Pelléas, l’unica, straordinaria opera di Debussy. Qui, nell’antidramma dove l’azione si svolge nell’interiorità dei personaggi, e tutto è avvolto dal mistero, la fine di Mélisande è una fine tragicamente silenziosa e silenziosamente tragica. Mélisande muore senza che l’inutilità delle parole soffochi la sua morte, una morte evanescente come la sua vita e come, in fondo, la vita di ogni creatura.
La contraddizione assoluta che informa la vicenda di sé, ossia quella fra necessità e impossibilità di amare, non può che risolversi nella morte, nell’annientamento dell’oggetto amato. Qui, peraltro, il mistero della morte si consuma attraverso il mistero del destino, che colpisce e riguarda ciascuno dei personaggi, ed è per tutti ugualmente tragico e inspiegabile.
Ora, poiché ciò che sarebbe veramente importante dire non si può dire, ma vi si può solo alludere, nella musica debussyana il silenzio riesce ad essere più eloquente non solo delle parole cantate nel Pelléas, ma della stessa sua musica. La trama del discorso musicale si sfilaccia, lasciando ampi momenti di vuoto che segnano già il cammino poi ripreso da Webern. La stessa dichiarazione d’amore fra Pelléas e Mélisande, che è il nodo cruciale della vicenda, è fatta più di silenzio che di parole.
Ma molti esempi possono essere portati anche dalle opere strumentali: nel repertorio sinfonico, i tre Nocturnes sono straordinari dialoghi fra sonorità ora pulviscolari ora festose e sgargianti e la potenza evocatrice del silenzio, così come i tre schizzi de La Mer; fra i lavori pianistici, quasi tutti i Preludi del I Libro e parte di quelli del II giocano anche su questo elemento (un titolo per tutti: La cathédrale engloutie). Dice Jankélévitch: “[…] se l’esistenza, che ci rappresentiamo fragile, superficiale e provvisoria, tende asintoticamente verso il nulla, la musica, esaurendo a poco a poco tutte le combinazioni possibili, tende inesorabilmente verso il “grande anno” del silenzio.” (11). E ancora: “[…] si può distinguere un silenzio antecedente e un silenzio conseguente […]. Questo doppio silenzio bagna la musica di Claude Debussy […]” (12). Nello stesso Pelléas c’è un silenzio iniziale “carico di promesse” (13) e c’è un silenzio finale, che sta a rappresentare “il nulla al quale fa ritorno la vita” (14).
Ma il silenzio non è, comunque, il non-essere assoluto, che la nostra mente peraltro non sa nemmeno immaginare, e non è mai totale. Il silenzio più “tipico” è quello delle parole; la musica è il silenzio delle parole, ma al tempo stesso riempie quel silenzio. Imponendo al Logos di tacere, la musica esercita appieno il proprio incantamento, diffonde intorno a sé il proprio charme.Ecco perché essa non dice, ma preferisce alludere. Quella debussyana, in particolare, è tutta un fitto reticolo di allusioni a realtà umane e naturali che essa suggerisce fra le righe, ma non rappresenta e non descrive. Tant’è che Debussy volle sempre porre i titoli dei suoi Preludi alla fine, in modo discreto, e non solo per un capriccio da esteta. Questo, tra l’altro, la dice lunga sul rapporto tra Debussy e la musica: il compositore infatti, con questa scelta, sembra dirci: “Questa musica l’ho scritta io, ma ora è di tutti, e a ciascuno può suggerire ed evocare immagini diverse. Perciò siete liberi di associarla a ciò che volete”. Un atteggiamento che definirei profondamente moderno e, al tempo stesso, ammirevolmente “etico”. Del resto Debussy non si attiene ad una concezione soggettivista della musica; viceversa, partecipa pienamente alla svolta oggettivista attuata dal modernismo. Prende cioè le distanze dalla propria musica, anche attraverso l’artificio dello humour e dell’ironia. Non vuole prendersi troppo sul serio, perché guai a diventare la parodia di se stessi, e guai a voler essere “espressivi”! Satie aveva aperto la strada in questo senso, e Debussy e Ravel imparano bene la lezione del suo oggettivismo.Questa tendenza nasce anche dalla volontà di tornare ad aderire al reale in quanto tale, senza il tramite della percezione psicologica, ed ha tra le sue conseguenze la scomparsa della figura umana dalla musica.
Debussy ci parla di pesci d’oro, mare, vento, neve, brughiere, foglie che si agitano alla brezza primaverile, nuvole; ci parla persino di Sirene! Ma della presenza dell’uomo ci viene detto attraverso la sua assenza: in Canope, Preludio del II Libro, o nelle Six épigraphes antiques per pianoforte a quattro mani, ad esempio, dove si fa riferimento ad un passato aureo ma lontanissimo e alla tomba, come luogo del ricordo che eterna la presenza.
Mi piace sottolineare, a conclusione di questo excursus fra alcuni luoghi topici della filosofia di Jankélévitch e della musica di Debussy, come sia stato possibile per me collegarli l’uno all’altro seguendo un ordine molto diverso da quello in cui mi erano stati sottoposti nei testi di riferimento. Ritengo che questo sia una prova significativa della profonda coerenza di un pensiero filosofico e di un linguaggio musicale. Se c’è coerenza, come si può rilevare qui, in un certo senso “cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia”. I punti di partenza e di arrivo, nonché le tappe intermedie del ragionamento, possono mutare; ma la logica regge, il filo conduttore non si spezza.

IV. Alcune osservazioni critiche sulla filosofia di Jankélévitch
Leggere un libro come Debussy e il mistero significa, a mio giudizio, fare una lettura prima di tutto gradevole, per come il libro stesso è scritto, e poi anche illuminante, perché quando Jankélévitch si concentra sulla musica di Debussy riesce ad entrare nelle sue pieghe più segrete e riposte, e a svelarcele con grazia e delicatezza, e al tempo stesso in modo intrigante.Leggere invece La musica e l’ineffabile equivale ad entrare prima di tutto in contatto con il pensiero filosofico di Jankélévitch, e di conseguenza seguirlo anche nelle sue riflessioni sulla musica in generale, e su quella di Debussy in particolare.
Personalmente ho apprezzato Jankélévitch quasi più per le sue qualità di musicologo e scrittore che non per i contenuti del suo pensiero, e ritengo che, volendo, questi aspetti della sua figura di intellettuale si possano anche considerare e valutare separatamente. Egli infatti, senza dubbio, ha nei confronti della musica una sensibilità particolare, e ne sa scrivere in modo non semplicemente accattivante, ma denso sotto il profilo concettuale. La sua filosofia può naturalmente trovare consenso, perché è una filosofia solida dal punto di vista delle motivazioni e delle giustificazioni di ciò che afferma. Niente viene proposto o imposto come verità assoluta da accettare come dogma. Tutto è spiegato e ha un senso logico nel quadro delle sue riflessioni.
Tuttavia ho avuto la sensazione che lo Jankélévitch meritevole della definizione di “filosofo” sia prima di tutto quello degli scritti sulla morale, perché questo deve essere stato per lui il vero punto di partenza per elaborare un sistema filosofico di interpretazione del mondo e della realtà nella loro interezza.
Forse, da parte mia, si verifica l’errore di correre col pensiero a giganti della storia della filosofia occidentale, e in particolare a due nomi della modernità che non bisognerebbe scegliere come pietre di paragone, ossia Kant e Hegel, i quali mi hanno sempre impressionato per la loro capacità di creare un sistema filosofico realmente onnicomprensivo. In altri termini, è come se le loro filosofie mi dessero la sensazione di potermi spiegare veramente tutto, di darmi tutte le risposte, di estirpare il dubbio alla radice.
Ciò non toglie, inutile dirlo, che altre figure della storia del pensiero possano colpire e affascinare proprio per la loro “parzialità”, sia nell’età moderna che nell’antichità. Jankélévitch mi piace, perché ama una musica che amo anch’io, sa esaltarne le qualità e la profondità. Ma leggere i suoi scritti sulla musica non mi ha dato risposte a domande universali, e inoltre, piuttosto che pensare che esista della musica buona e della musica cattiva (leggi: Debussy e affini versus Wagner), preferisco credere che tutta la musica abbia qualcosa da dirci, da insegnarci, da regalarci, e che, come lo stesso Jankélévitch sostiene, lo sappia fare in virtù della sua magica e misteriosa superiorità rispetto alla parola.

Note

(1) Desidero precisare che nel mio lavoro si trovano brevi citazioni di cui non ho potuto specificare la provenienza, citazioni fatte dal Prof. Migliaccio durante il seminario La questione della temporalità musicale, abbinato al corso del Prof. Piana tenutosi presso l’Università Statale di Milano nell’anno accademico 1998/ 99, o che erano contenute nei testi che ho letto, i quali non davano indicazioni in questo senso. Quando non ho fornito l’indicazione numerica è stato per questo motivo.Per quanto concerne le indicazioni che seguono, si segnala la mancanza della città di pubblicazione della versione italiana de “La musica e l’ineffabile”.
(2) B. BERLOWITZ, V. JANKÉLÉVITCH, Quelque part dans l’inachevé, Parigi, Gallimard, 1978, pag. 247.
(3) ib., pag. 248.
(4) M. BORTOLOTTO, Fase seconda, Torino, Einaudi, 1969, pag. 21.
(5) TH. W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi, 1959, pag. 184-186.
(6) V. JANKELEVITCH, Debussy e il mistero, Bologna, Il Mulino, 1991, pag. 142.
(7) V. JANKELEVITCH, La musica e l’ineffabile, Tempi Moderni Edizioni, 1985, pag. 8. (8) ib., pag. 140.
(9) ib., pag. 36.
(10) ib., pag. 40.
(11) ib., pag. 178.
(12) ib., pag. 180.
(13) ib., pag. 181.
(14) ib., pag. 181.

Musiche di Claude Debussy citate

Opere per pianoforte
Children’s corner, in particolare :
The snow is dancing
Images
 I e II serie, in particolare:
Mouvement
-Canope
L’isle joyeuse
Preludi, I e II Libro, in particolare:
Des pas sur la neige
La cathédrale engloutie
Six épigraphes antiques per pf. a quattro mani
Studi, in particolare :
Pour le cinq doigts
Opere sinfoniche
Images, in particolare :
- Rondes de printemps
La Mer

Nocturnes
Prélude à l’après-midi d’un faune

e inoltre Pelléas et Mélisande

Bibliografia

TH. W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi, 1959.
M. BORTOLOTTO, Fase seconda, Torino, Einaudi, 1969.
E. FUBINI, Vladimir Jankélévitch e l’estetica dell’ineffabile: da Debussy alle avanguardie, in C. DE INCONTRERA (a cura di), All’ombra delle fanciulle in fiore. La musica in Francia nell’età di Proust, Monfalcone, 1987, pagg. 371-382.
V. JANKELEVITCH, Debussy e il mistero, Bologna Il Mulino, 1991.
V. JANKELEVITCH, La musica e l’ineffabile, Tempi Moderni Edizioni, 1985.

Intervento pubblicato sul www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Laura Montingelli
André Francois Marescotti


Vorrei dedicare un piccolo ricordo ad una figura legata a una di quelle realtà della geografia musicale europea generalmente considerate (più o meno a ragione) periferiche e un poco “sbiadite”.
L’area geografica nella fattispecie è quella della Svizzera, e la figura in questione è quella di André – François Marescotti, di cui si è celebrato il 30 aprile 2002 il centenario della nascita (essendo egli nato a Carouge, presso Ginevra, il 30 aprile 1902, e morto a Ginevra il 18 maggio 1995). Ho scelto di parlare di lui perché, a mio parere, è stato un compositore non geniale, ma comunque interessante, e capace soprattutto di confrontarsi, da una posizione musicalmente un poco isolata e “ovattata” come quella della Svizzera, con alcuni grandi momenti e alcune questioni cruciali della musica del ‘900 europeo.
Marescotti, dato interessante, aveva alle spalle una formazione tecnico-matematica al Technikum di Ginevra, a cui fece seguito il suo ingresso nel Conservatorio di quella città, dove studiò pianoforte, composizione e tecniche di strumentazione. Si perfezionò poi a Parigi sotto la guida di Roger Ducasse. Divenne maestro del coro al Sacro Cuore di Ginevra nel 1924, docente di pianoforte al Conservatorio nel 1931, e ancora maestro del coro nella chiesa ginevrina di San Giuseppe nel 1940. Parallelamente, fu attivo in diverse organizzazioni musicali svizzere. Nella sua prima fase creativa fu molto influenzato dai francesi: Debussy, Ravel, ma ancora di più Roussel. In seguito fu affascinato dalle possibilità di esprimersi con leggerezza ed ironia offerte dal Neoclassicismo.
La composizione che lo portò ad acquisire fama internazionale è il Fantasque per pianoforte solo, scritto per partecipare al Concorso Internazionale di Composizione di Ginevra nel 1939. Nel 1942 avvenne per Marescotti l’incontro sconvolgente con le asprezze espressioniste del Wozzeck di Alban Berg, che gettò Marescotti in una fase di profonda crisi creativa. Durante i successivi sette anni, egli si dedicò allo studio approfondito delle tecniche compositive della Seconda Scuola di Vienna. Dal 1948, i primi frutti di questo studio: Marescotti cominciò a scrivere in uno stile liberamente atonale, nonché dodecafonico e seriale. L’influenza dell’Espressionismo musicale e soprattutto di Alban Berg perdurerà su di lui per lungo tempo.
Agli studi sulla Seconda Scuola di Vienna si collega la sua unica opera teorica, il trattato di strumentazione Les instruments d’orchestre, pubblicato a Parigi nel 1950. Marescotti ha lasciato inoltre un paio di articoli sulle tendenze della musica contemporanea e su dodecafonia e serialità, pubblicati su una Rivista di teologia e filosofia e su Musik der Zeit.
A margine ricordiamo anche che nel 1963 e nel 1964 ottenne due importanti riconoscimenti: fu premiato al Composer’s Prize di Ginevra e dall’Associazione dei Musicisti Svizzeri.
Marescotti ha scritto musiche di scena e per balletti, opere per orchestra, orchestra d’archi o ensembles da camera, tanta musica vocale (specie corale) e svariati lavori per pianoforte: gli Schizzi in due serie, del 1922, tre Suites (del 1929/ 1932/ 1944), il già ricordato Fantasque, del 1939, ed altri piccoli pezzi.
Vorrei soffermarmi proprio sul Fantasque, perché questa breve e vivace composizione fu portata alla notorietà e alla perfezione esecutiva da un musicista di altissimo rango: il giovane Arturo Benedetti Michelangeli, le cui scelte di repertorio negli anni ’40 si caratterizzarono per queste scelte un poco eccentriche, poi abbandonate con la maturità. Il Fantasque nell’interpretazione di Michelangeli (CD Ermitage 183-2 ADD) mi ha vagamente ricordato, in alcuni suoi passaggi incalzanti e trasparenti insieme, le sonorità raveliane.
A proposito di questo accostamento un po’ temerario Marescotti/ Ravel, vorrei leggere un brevissimo, significativo passaggio delle note critiche di Piero Rattalino al disco Ermitage:“(…) Il “moderno” è qui rappresentato da Debussy e da Marescotti. Rimpiangiamo molto il fatto che Benedetti Michelangeli non abbia inciso negli anni ’40 i Jeux d’eau di Ravel, scomparsi più tardi dal suo repertorio e mai registrati. Il pezzo del Marescotti, per quanto bonhomme, ci dice però indirettamente quanto fosse già allora la tecnica della sonorità raveliana in Benedetti Michelangeli: una tecnica miracolosa. (…)”.
Ancora a proposito di Marescotti, ho detto che scrisse brani per svariati organici. E’ del 1933 ad esempio un lavoro che mi è parso carino e curioso, La cicala e la formica, musica da balletto composta per un disegno animato di un certo Courvoisier. Ma molti altri lavori si potrebbero citare. Tra le sue principali composizioni vengono solitamente ricordati il poema sinfonico Aubade, del 1936, il Mistero di Natale Dove la stella si fermerà, per coro maschile e cinque strumenti, del 1938, La lampada d’argilla, musiche di scena eseguibili però anche sotto forma di oratorio su testi di René Morax, per soli, coro maschile e dodici strumenti (oppure coro, soli e orchestra), del 1947.
Mentre parte della musica scritta per messinscene e, ancora di più, la musica sacra corale, sembrano sin dai titoli influenzate dalla fede cristiana, ed in particolare da diversi episodi evangelici legati alla Natività (i pastori, la Stella cometa ecc.), i lavori per pianoforte paiono ispirati sul piano tematico da atmosfere e argomenti più profani, su quello musicale dal Debussy più impressionista e dal Ravel più colorato e “liquido”.
Ho pensato che il sito e i frequentatori del Cerchio Azzurro, sempre alla ricerca di figure marginali ma meritevoli, del ‘900 storico come dell’attualità, potessero trovare nella figura di Andrè-François Marescotti un qualche motivo di interesse, benché forse (ma resta un’opinione personale) più sotto il profilo intellettuale che non sotto quello strettamente musicale.

Intervento pubblicato sul www.cerchioazzurro.com (2005)
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Laura Montingelli
Chen Zhen

IMPRESSIONI SULLA PERSONALE DI CHEN ZHEN AL PAC (marzo 2003)

Non ho la pretesa di scrivere un commento critico alla mostra di Chen Zhen che in questi giorni è possibile vedere al PAC di Milano. Le mie sono solo delle riflessioni e delle considerazioni personali, perché le opere di questo artista cinese mi hanno veramente molto colpito e la visita alla mostra si è rivelata un’esperienza rara, per intensità e godimento estetico e intellettuale.
Il lavoro di Chen Zhen, questo lo si avverte sin dal primo contatto con le sue opere esposte al PAC, può vantare entrambe le peculiarità del lavoro di ogni grandissimo protagonista dell’arte, ossia da una parte, uno straordinario impatto visivo e una superiore finezza estetica, dall’altra una grande densità concettuale, che poi significa consapevolezza del reale, legame profondo dell’artista con il reale.
Dal punto di vista di ciò che si vede, è evidente il riferimento forte alla cultura orientale e cinese, nella scelta dei colori come dei materiali, e naturalmente nel ricorrere degli ideogrammi (elemento, quest’ultimo, con il quale già ci spostiamo sul piano dei contenuti, che esaminerò successivamente): il rosso e il nero, il legno, le vernici scure e lucide, i pigmenti puri di colore che si usano nell’arte calligrafica cinese, l’acqua e la vegetazione, che a loro volta rimandano all’idea del giardino Zen (e infatti una delle opere, Zen Garden, del 2000, rappresenta proprio un giardino Zen in miniatura, un progetto che l’artista aveva fra l’altro pensato per una realizzazione in Toscana). Ma sempre dal punto di vista della percezione visiva, si notano molte altre cose interessanti e coinvolgenti: la vivacità cromatica di diversi lavori, spesso associata all’utilizzo delle cere colorate delle candele (ad esempio Human Tower, del 1999, o Beyond the Vulnerability, del 1999/2000), la delicatezza e/o impalpabilità di alcuni materiali, come il vetro di Crystal Landscape of Inner Body (2000), o la carta velina di Prayer Wheel (un altro materiale ricorrente nella cultura millenaria dello scrivere e del leggere in Cina), o ancora i tubi di plastica trasparente che formano i bozzoli di Lumière innocente (2000), illuminati da una fievole e poetica luce di vita proveniente dal loro interno…
Questo piano, il piano visivo e, più in generale, sensoriale, si intreccia fortemente con quello concettuale, dei contenuti. Chen Zhen rivela, attraverso le sue opere, una sensibilità profonda e delicata, un atteggiamento umanistico che conduce l’artista a parlare di sé senza trascurare gli altri, lo rende attento testimone dei travagli e delle contraddizioni della storia moderna del suo Paese e della sua cultura senza per questo ignorare l’Occidente, anzi soffermandosi e ragionando sugli intrecci e i contatti fra i due mondi, e sulle problematiche complesse di tali intrecci. Si sviluppa allora, all’interno del suo lavoro, un filone che approfondisce appunto l’incontro/scontro fra Oriente e Occidente, fra natura e tecnologia, fra tradizione contadina e modernità. Tutte istanze che l’Oriente di oggi mette a confronto al suo stesso interno, con esiti oscillanti fra conciliazione e contraddizione, talvolta addirittura paradossali.
La capacità di sintesi di Chen Zhen rispetto a tali complesse tematiche emerge, a mio avviso, con particolare chiarezza ed efficacia in Bibliothèque musicale (2000), opera affascinante, costituita da un accostamento di vasi da notte cinesi, simbolo pregnante di vita contadina, e componenti elettroniche assemblate in modo fantasioso e casuale. Aggiunge un elemento di particolare finezza il sottofondo musicale registrato, che riproduce il rumore ipnotico delle spazzole che le contadine cinesi utilizzano ancora oggi tutte le mattine per pulire i vasi. Ecco dunque un’attenzione costante e concentrata sulla dimensione del sociale e sulle sue inquietanti evoluzioni, un’analisi che comprende tutti gli aspetti più “universali” della vita umana: la nascita, la morte, l’invecchiamento, la quotidianità, il rapporto che in tale quotidianità viene a instaurarsi fra l’uomo e gli oggetti, la libertà di pensiero e immaginazione.
E’ da quest’ultimo elemento che si diparte la riflessione critica di Chen Zhen nei riguardi della dittatura maoista nel suo Paese, in particolare sulla manipolazione e sulla censura dell’informazione. Si veda, al proposito, soprattutto la prima opera esposta, Bibliothèque (1992), sorta di personale e ironica interpretazione del tazebao: una bacheca di vetro in cui giacciono sotto vuoto ritagli bruciati di giornali cinesi, simbolo della parola schiacciata e vilipesa dalla tirannia.
L’attenzione dell’artista per l’offesa alla libertà e alla dignità dell’essere umano lo porta anche fuori dai confini del suo Paese, e lo mette a diretto contatto con analoghe esperienze di sofferenza in altre, lontanissime parti del mondo. E’ commovente l’esperienza di Chen Zhen con i bambini delle favelas brasiliane, un’esperienza degli anni 1999/2000 in cui egli propone laboratori creativi per i ragazzi, li fa lavorare con le candele, fa loro creare delle case in miniatura che rappresentano le abitazioni dei loro sogni e poi le dispone su un lungo tavolo di vetro, in una coloratissima successione ininterrotta di fantasia finalmente liberata, al di là della povertà, della fame, della disperazione: Beyond the Vulnerability, appunto.
Un altro tema fondamentale della poetica di Chen Zhen è poi quello, come poco fa accennavo, della sensibile auscultazione della propria, individuale e personalissima vicenda umana, segnata dal confronto doloroso e sofferto con la malattia. Un’esperienza che ancora una volta porta l’artista a riflettere sulle diverse modalità di comportamento dell’uomo occidentale e di quello orientale. In Balaì-serpillière (1998) inquietanti aghi da siringa sbucano inaspettatamente dalle estremità dei tubi di gomma che sono serviti a creare una gigantesca scopa appesa al soffitto, un oggetto di uso quotidiano apparentemente innocuo e inoffensivo. Inoltre, gli stessi tubi di gomma evocano l’immagine dei lacci emostatici. Invece in Obsession of Longevity (1995) il riferimento è alla maniera orientale di affrontare la malattia e il dolore fisico, al suo approccio naturale, antitetico rispetto a quello chimico e artificiale dell’Occidente: si tratta di un’installazione che rappresenta due camere affiancate, in una c’è un materasso da cui spuntano chiodi acuminati, riferimento diretto e toccante al dolore, in quella attigua ci sono tanti scaffali e un tavolino, ingombri di barattoli e vasi pieni di polveri, erbe ed estratti vegetali, gli antidoti orientali al dolore.
Colpisce di quest’opera anche il titolo, che contrasta, nel suo forte impatto comunicativo con lo spettatore, con la delicatezza e la moderazione con cui Chen Zhen tende a trasmettere il suo pensiero e le sue idee. Ma forse il tema della malattia induce l’artista a soluzioni più forti e provocatorie proprio per l’intensità emotiva con cui egli l’ha vissuto a livello personale.
Un’ultima riflessione riguarda invece il rapporto di interscambio e interazione che alcuni noti lavori di Chen Zhen stabiliscono con il pubblico, in una maniera molto diretta e “fisica”, cioè attraverso il suono, la musica.
In diverse opere egli si è servito di oggetti vari (soprattutto sedie) trasformati attraverso un semplice intervento in rudimentali strumenti a percussione, che gli spettatori possono suonare servendosi di appositi bastoni, o bacchette e simili. L’aspetto interessante è che questi oggetti sono collocati all’interno di una stessa stanza o assemblati a formare strani monumenti, per cui attirano nello stesso momento l’attenzione di più persone, che si uniscono, più o meno consapevolmente, in un concerto spesso straordinariamente armonioso. E si ha forte la sensazione che l’artista voglia suscitare una riflessione, oggi più che mai attuale e doverosa, su quanto sia più felice e costruttivo stare insieme in armonia piuttosto che procedere individualmente sulla propria strada di isolamento umano e culturale, o, peggio ancora, cedere alla tentazione della violenza prevaricatrice sull’altro da sé.

NOTA

Nato a Shanghai nel 1955, Chen Zhen è considerato a ragione uno dei protagonisti del nostro tempo, che ha fatto della sua opera un esempio di pluralismo nell'arte, condensando nella nozione di 'transesperienza' il fulcro del suo lavoro.
Formatosi nel periodo della Rivoluzione Culturale Cinese, Chen Zhen ha vissuto e lavorato fra Shanghai, New York e Parigi, città nella quale si è trasferito dal 1986, muovendosi sempre, senza barriere, tra il pensiero orientale e quello occidentale, nell'ottica della sintesi piuttosto che in quella della scelta e delle rigide classificazioni.
Il suo linguaggio artistico, che affronta molte questioni, dalla politica internazionale alla vita in sé, lo ha condotto a cercare una sintesi visiva della sua arte dove fosse riconoscibile, innanzitutto da un punto di vista estetico, il bisogno di farsi comprendere in un mondo dalle prospettive diverse da quelle che lo avevano circondato e cresciuto, di mescolare il sapore della sua Cina con i paesi che andava conoscendo. Un progetto che Chen Zhen ha sempre portato in giro per il mondo.
Proprio per questo Chen Zhen, inizialmente orientato sulla pittura, si è concentrato successivamente su installazioni di grandi e medie dimensioni, cominciando ad assemblare oggetti tratti dalla vita comune come letti, seggiole, tavoli, vasi da notte, culle e materassi, allestiti in composizioni che li privano della loro originaria funzione.
Chen Zhen ha spesso condotto progetti in luoghi e contesti atipici, coinvolgendo direttamente le popolazioni locali: con i bambini di Salvador de Bahia, nei quartieri neri poveri di Houston o con gli shakers del Maine.
Al centro della sua ricerca anche l'indagine sul diverso approccio alla medicina in oriente e occidente che emerge in alcune opere incentrate sulla figura del corpo umano e degli organi interni. In particolare, fra le opere in mostra, saranno esposte alcune grandi installazioni ricche di fascino realizzate fra il 1991 e il 2000 con tavoli, sedie, polistirolo, ventilatori, registratori di cassa, tessuti e candele colorate, come Obsession of Longevity (1995), Un-interrupted Voice (1998), Human Tower (1999), Zen Garden (2000), Lumière innocente (2000).
Fra le più importanti esposizioni internazionali di Chen Zhen vanno ricordate The New Museum of Contemporary Art, New York (1994), Center for Contemporary Art, Kitakyushu, Giappone (1997), Guggenheim Museum Soho, New York (1998), Biennale di Venezia (1999), Ludwig Museum, Colonia (1999), GAM, Torino (2000), Serpentine Gallery, Londra (2001), Institute of Contemporary Art, Boston (2002), PS1, New York (2003).
La mostra nasce da una collaborazione fra il PAC di Milano, il CCC di Tours e il Westfälisches Landesmuseum für Kunst und Kulturgeschichte di Münster.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
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Laura Montingelli
Outis

RIFLESSIONI SULLA RAPPRESENTAZIONE DI OUTIS DI LUCIANO BERIO ALLA SCALA (ottobre 1996)

Outis si è proposto ai nostri occhi, in quell’ottobre di qualche anno fa, come la rappresentazione, la “teatralizzazione”, per così dire, dell’immaginario collettivo dell’uomo occidentale di un XX secolo che ormai si è consumato. E’ un vortice di idee, immagini, paure, manie, ossessioni, figure, che appartengono a ciascuno di noi.
In Outis non c’è storia. La trama è stata disintegrata, polverizzata, proseguendo fino agli esiti estremi su una strada che qualcuno di nome Svevo o Pirandello volle spianare, all’inizio del secolo che ci siamo da poco lasciati alle spalle, in letteratura, lasciando delle tracce su cui altri potessero porsi: un discorso aperto da proseguire.
Luciano Berio svuota e libera sul palcoscenico la coscienza (e l’inconscio) dell’Occidente, che si materializza in un caleidoscopio vorticante, una concentrazione straordinaria di teatralità.
Nella struttura a pannelli di Outis, ogni scena si apre, non a caso, con l’evento con cui solitamente, nella narrativa “tradizionale” occidentale, noi vediamo chiudersi un racconto: la morte del protagonista, che posta invece all’inizio "schiaccia", comprime lo svolgimento ed elimina la conclusione, aprendo questi spazi ad altro.
Berio dunque non racconta, ma allinea oggetti teatrali di fronte a noi, che non abbiamo una trama da seguire ma veniamo coinvolti, attirati entro i confini dello spettacolo. Questo perché tutti possiamo riconoscerci in Outis, anche solo per un piccolissimo frammento di ciò che vediamo. Ecco allora la Grecia antica, le nostre radici, il nostro più remoto passato. Ecco Outis, che è sì Ulisse, uno dei nostri mitici padri, ma è anche Nessuno. Nessuno è il protagonista di Outis. Questo consente a ciascuno di noi di pensare a un protagonista e di costruire la trama, posto che noi lo si voglia fare. Infatti potremmo anche decidere di fruire di questo spettacolo così come è stato concepito, come serie di quadri che ci propongono frammenti della nostra coscienza.
In questo senso Outis è più interattivo dei giochi interattivi, è un gioco interattivo “al quadrato”, poiché lascia a noi persino di decidere se “giocarlo” o no. Però se lo lasciamo inattivo non rimane privo di senso, dato che il suo senso, mi si permetta il gioco di parole, può essere il non-senso. Ecco la favola, il gioco, il fantastico-grottesco, così profondamente scandagliati da Freud. Ecco il viaggio, l’avventura, il mare, che poi sono ancora Ulisse. Ecco la guerra, la morte, la distruzione, sfondo contro cui si staglia l’incomprensione infantile. E poi, forse soprattutto, la parola. Greca, latina, inglese, tedesca, antica e nuova, misteriosa e muta, eloquente e dispiegata, compatta e frammentaria… ma sempre universale e musicale.
La dimensione eterna dell’uomo, con i suoi dubbi e le sue paure, (“Non ti ho conosciuto mai”, detto milioni di volte alla madre, al figlio, all’amante…), e la dimensione presente e contingente di un ‘900 frenetico e inquietante per noi, che ne siamo stati gli stessi attori, si sovrappongono e si intrecciano. Perché noi siamo fatti del passato e dell’ora, di eternità e di contingenza ardente.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
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Laura Montingelli
Parole e musica


LA MUSICA COLTA IN OCCIDENTE
Spunti di riflessione sul rapporto tra linguaggio verbale e linguaggio musicale

Avevo inizialmente pensato di dedicare questo mio intervento ad un unico tema, ma dato il tempo relativamente breve a mia disposizione ho poi preferito l’idea di fornirvi una serie di “flash”, per così dire, di spunti di riflessione su un argomento altrimenti decisamente troppo complesso per poter essere affrontato in modo approfondito in questa sede. Tale argomento è, come forse avrete già avuto modo di vedere dal programma distribuito, il rapporto, o meglio alcuni dei rapporti che si sono creati fra linguaggio verbale e linguaggio musicale, tra parola, anche poetica, e musica, nella storia della musica cosiddetta “colta” dell’Occidente, quella che più correntemente viene definita “musica classica”.
La scelta di affrontare questo argomento vuole avere come obbiettivo “indiretto” quello di illuminare la parola, e anche la parola poetica, da una prospettiva un po’ diversa da quella dei poeti presenti in queste serate, ed evidenziarne anche le possibilità di contatto, relazione, intreccio con la musica, considerata a sua volta come un linguaggio. Queste possibilità sono state, e forse ancora oggi sono, talmente numerose da far quasi pensare che siano infinite. Si può affermare che l’intreccio parola – musica sia stato cercato e creato dall’uomo dell’Occidente sin dagli albori della nostra civiltà musicale, per i più diversi motivi e con i più diversi scopi. Mi pare anzi che nel tempo di queste origini si sia manifestata la tendenza a ricondurre in un certo senso l’ignoto o il meno noto, cioè il fatto musicale, al già noto, ovvero la parola, il linguaggio verbale.
Dimostrandovelo, vi fornisco anche il primo spunto di riflessione; dobbiamo risalire la corrente del tempo fino all’XI secolo, e ricordare un nome, quello del monaco Guido d’Arezzo, al quale in pratica dobbiamo i nomi delle note che ancora oggi noi utilizziamo: do, re, mi, fa, sol, la, si. Guido era musico e didatta, e il suo problema era facilitare ai suoi allievi cantori la memorizzazione dell’altezza delle note, dei suoni, che ovviamente non poteva essere loro suggerita da uno strumento, perché allora il canto religioso, il famoso gregoriano, avveniva senza accompagnamento. Guido utilizzò un sistema ingegnoso ed efficace; fece imparare ai suoi cantori un inno a san Giovanni Battista in latino, la lingua del gregoriano; i suoni corrispondenti ad ogni prima sillaba di ogni versetto di tale inno formavano una sequenza continua, senza “buchi”: la nostra scala musicale. Ebbene, a quei suoni Guido diede il nome utilizzando proprio la sillaba corrispondente; nacque così la sequenza UT (queant laxis) RE(sonare fibris) MI(ra gestorum) FA(muli tuorum) SOL(ve polluti) LA (bii reatum) S(ancte) J(ohannes). L’ut venne tempo dopo sostituito dal do.
Questo permetteva ai cantori di memorizzare molto più facilmente i suoni della sequenza, attraverso il nome e il fatto di impararli appunto in sequenza, e perciò consentiva loro di riconoscerli anche all’interno di altri canti e in ordine sparso. L’operazione di Guido è di importanza capitale per la nostra musica, perché è un operazione di “nominazione”, di riconoscimento di entità sonore fino ad allora senza nome; la sua idea fu talmente efficace da resistere per secoli, fino ai giorni nostri, senza subire alterazioni. Le note sono rimaste do, re, mi, fa, sol, la, si. A questo punto vorrei spostarmi con voi molto più avanti nel tempo, diciamo nella prima metà del ‘600.
La seconda tappa di questo mio discorso ruota intorno alla figura del compositore Claudio Monteverdi, nato a Cremona nel 1567 e morto a Venezia nel 1643. Monteverdi è, come Guido, un personaggio – chiave nella storia della musica occidentale, e soprattutto dal punto di vista che a noi in questa sede interessa, vale a dire quello del rapporto parola – musica. All’epoca di Monteverdi la musica era essenzialmente polifonica, cioè a più voci, voci che cantavano simultaneamente eseguendo ciascuna una diversa melodia, armoniosamente fusa alle altre. Questo aveva spesso come conseguenza una difficoltosa comprensione del testo cantato, che veniva per così dire “spezzato” fra le varie voci, ciascuna impegnata in un percorso autonomo rispetto alle altre. Monteverdi è il musicista che rompe questa tradizione, comprendendo quanto la parola sia importante, quanto valore abbia anche nel rapporto, fino ad allora per essa svantaggioso, con la musica, quanto di conseguenza vada resa comprensibile e valorizzata. Perché? Perché la parola ESPRIME IL SENTIMENTO, o, come allora si usava dire, l’ “affetto”. E allora, come agisce concretamente Monteverdi per effettuare questa valorizzazione?
Prima di tutto riduce gradualmente il numero delle voci, e quindi delle melodie eseguite, fino ad arrivare ad una sola voce che esegue un’unica melodia, cantando il testo poetico, ora restituito alla sua integrità e dignità; quindi introduce un accompagnamento strumentale alla voce, per dare sostegno e “pienezza” all’esecuzione. Dunque, da più voci a una voce; dalla polifonia, canto a più voci, alla monodia, canto a voce sola; da una prevalenza della musica sulla parola al rovesciamento di questo rapporto a favore della parola, e specificamente della poesia, che però con Monteverdi non va a prevalere a sua volta sulla musica, ma a compenetrarsi con essa in modo equilibrato e tale che le due discipline possano reciprocamente alimentarsi, trarre linfa vitale e pregnanza espressiva l’una dall’altra. Varrà forse la pena di aggiungere a margine che tale vera e propria rivoluzione sarà poi anche alla base della nascita del teatro musicale, dell’opera, in cui il brano vocale è monodico, con accompagnamento di uno strumento o di tutta l’orchestra.
Dunque, Guido d’Arezzo, Claudio Monteverdi. Ovvero i protagonisti di due momenti assolutamente fondamentali per una definizione della musica attraverso la parola e in rapporto alla parola. C’è però da dire che con queste due figure ci muoviamo in un passato molto lontano, addirittura remoto nel caso di Guido. Cosa succede invece nel nostro tempo, nel nostro secolo, anzi nel secolo che si è appena chiuso? Data la piena appartenenza dei nostri ospiti poeti al tempo presente, vale la pena di avvicinarci un po’ alla nostra epoca e alla nostra realtà, con un altro grosso nome, a cui si lega un terzo momento cruciale della storia della nostra musica “colta”.
Questo nome è quello di Arnold Schoenberg, nato a Vienna nel 1874 e morto a Los Angeles nel 1951. Schoenberg va senz’altro considerato come uno dei padri della musica del ‘900, della musica, diciamo, “moderna e contemporanea”; quella musica ancora oggi tanto discussa, ancora oggi spesso ritenuta, un po’ a torto un po’ a ragione, difficile all’ascolto, tanto osteggiata da pubblico e critica quando i suoi pionieri la sottoposero per le prime volte alla loro attenzione nelle sale da concerto. Ma perché, da parte di questi compositori, queste proposte così “provocatorie”, così incomprensibili, perché quei grovigli di note così sgradevoli, quella disgregazione programmatica, voluta, quasi esibita, delle forme musicali della tradizione? Quelle forme (la sonata, il concerto per strumento solista e orchestra, il quartetto ecc.) rendevano un brano musicale solido, strutturato, un organismo che poteva essere seguito, nell’ascolto, dai suoi inizi, nel suo svolgimento logico e coerente, fino alla conclusione; ora tutto questo non era più possibile, il pubblico era disorientato, confuso, e la critica faticava a capire dove questi musicisti intendessero “andare a parare”, quali messaggi volessero esprimere (o, nel caso della critica conservatrice e benpensante, lo capiva benissimo ma non poteva accettarlo). Il mondo di Schoenberg e dei musicisti suoi contemporanei è un mondo che sta cambiando, sta passando dalla civiltà dell’800 a quella moderna, anche attraverso immani tragedie, come quelle delle due guerre. Questi compositori si sentono testimoni di enormi, epocali trasformazioni, e vogliono parlarne, raccontarle nella loro musica. Spesso, peraltro, le loro vicende biografiche li portano ad osservare con preoccupazione e disperazione le follie e la violenza del loro tempo e della società in cui vivono, da emarginati: sono ebrei (lo sono, oltre a Schoenberg, i suoi allievi Berg e Webern, ma anche Mahler e altri ancora), non provengono dai ceti abbienti, spesso non hanno alle spalle un percorso di formazione musicale regolare ed accademico, ma compiuto invece da autodidatti, e gli ambienti accademici continueranno a tenerli ai margini anche dopo la loro emersione. Era praticamente impossibile pensare di esprimere dei contenuti e delle idee così negativi servendosi degli strumenti tradizionali del linguaggio musicale; come dire la tragedia di quei tempi, come poterla riversare nella musica utilizzando solo suoni armoniosi, consonanti, e forme perfette, equilibrate, conchiuse? Occorreva qualcosa di nuovo, di diverso.
Occorrevano un nuovo linguaggio e delle nuove forme (perché le opere dei nuovi compositori non sono, come può sembrare, prive di forma; sono solo formalmente organizzate in modo diverso, meno facile ed immediato, ma godono comunque di una loro organizzazione interna, fra l’altro molto rigorosa). C’è un’opera di Schoenberg, che si intitola Pierrot Lunaire, del 1912, che ci mostra molto bene tutti questi elementi, e inoltre risulta particolarmente significativa rispetto al nostro tema, il rapporto parola – musica. Si tratta di una serie di brani per voce femminile e otto strumenti, su testi del poeta simbolista belga Giraud tradotti in tedesco da Hartleben. Il Pierrot Lunaire è unanimamente considerato un manifesto dell’espressionismo musicale, che ci propone in musica le stesse tematiche dell’espressionismo figurativo: gli orrori della guerra, una società in disgregazione, violenta e razzista, l’emarginazione dei relitti di questa società, e anche un’esplorazione dei più profondi e inquietanti abissi dell’animo umano. La caratteristica più straordinariamente innovativa del Pierrot resta, a livello musicale, l’invenzione da parte di Schoenberg di un nuovo modo di usare la voce, che non è né propriamente canto né propriamente recitazione. In tedesco si chiama Sprechgesang, ovvero “canto parlato”, e consiste in una particolarissima emissione della voce, che non intona perfettamente la nota e non la tiene a lungo, ma la lascia subito per passare a quella successiva, come nel parlare noi non ci soffermiamo a lungo su ogni sillaba che pronunciamo, ma subito passiamo a quella che la segue nella parola o nella frase. Lo Sprechgesang risulta particolarmente adatto all’espressione dei contenuti testuali, che ci parlano di una realtà deformata e allucinata, surreale e sanguinosa; questo Pierrot non ha più nulla della delicatezza e della dolcezza a cui siamo abituati ad associare la sua maschera, ma è una caricatura, inquietante e drammatica, un simbolo delle paure e delle violenze che l’uomo del ‘900 vive, compie o subisce.
Ci troviamo dunque di fronte a un caso estremamente interessante di lavoro di un musicista sulla parola per potenziare le capacità e le possibilità espressive della musica: nel Pierrot lo Sprechgesang alimenta ed esalta il forte senso di straniamento e angoscia già comunicato dalla musica, molto basata sulla dissonanza, il contrasto stridente di suoni e timbri strumentali, gli strappi improvvisi dati dal passaggio brusco dal “piano” al “forte”, l’irregolarità ritmica, l’intonazione volutamente imprecisa.
Siamo così giunti all’ultima tappa di questo nostro breve percorso; con essa vorrei coinvolgere nel discorso uno dei più grandi protagonisti della poesia del ‘900: Eugenio Montale. Montale è un poeta che può offrirci molti spunti di riflessione sul rapporto poesia – musica, perché fu talmente vicino alla musica da “rischiare” quasi di diventare cantante professionista e perché la sua poesia resta densissima di contenuti e riferimenti musicali. Forse pochi sanno che Montale studiò privatamente canto lirico con il baritono Ernesto Sivori dal 1915 al 1923. Ebbe a dichiarare più tardi che fare il cantante avrebbe sacrificato la sua intelligenza, facendo ironia su un’ottusità e una scarsa cultura che all’epoca si dovevano riscontrare nei cantanti piuttosto frequentemente, a causa di un’impostazione del loro corso di studio che tendeva a farne dei divi del Belcanto spesso tristemente ridicoli. Ma l’allontanamento di Montale dagli studi musicali e dall’idea della carriera non significò affatto un allontanamento dalla musica; egli ricoprì l’incarico di critico musicale del Corriere d’Informazione fra il 1954 e il 1967, trattando vari argomenti e parlando di vari compositori (gli operisti italiani, ma anche i nostri compositori d’inizio secolo, Leoncavallo, Mascagni, Puccini, la triade viennese Haydn/ Mozart/ Beethoven, e altri ancora), e riferimenti alla musica sono presenti in interviste da lui rilasciate, discorsi, appunti, e soprattutto nelle sue poesie.
Pubblicate nel 1922, le prime poesie montaliane sono dedicate ognuna a uno strumento musicale diverso, e la raccolta si intitola Accordi. Anche fra le opere a lungo inedite troviamo alcuni esempi interessanti, come Musica silenziosa o Suonatina di pianoforte. In Ossi di seppia le prime 4 poesie formano una tetralogia: I limoniCorno ingleseQuasi una fantasiaFalsetto, dal titolo complessivo di Movimenti.
Ma si potrebbero riportare altre testimonianze. Per i giovani della generazione di Montale, la nuova musica era quella di compositori come Debussy e Ravel, la nuova pittura quella degli Impressionisti, e l’associazione Debussy/ Impressionismo, che per la verità lo stesso compositore aveva sempre rifiutato ritenendola decisamente semplicistica, valeva per il poeta come per tutti i suoi contemporanei. Porterò ora un esempio di come alcune prove poetiche di Montale intendano muoversi nella stessa direzione della musica debussyana. “(…) avevo sentito i Mintrels di Debussy (uno dei Preludi per pianoforte, n.d.r), e nella prima edizione del libro (Ossi di seppia, ndr), c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata (…)” dice Montale nel Quaderno genovese.
La poesia di Montale aderisce alla musica di Minstrels di Debussy innanzitutto a livello tematico; si parla infatti di tre menestrelli fragili e umili, che ricordano molto gli evanescenti personaggi della fantasia musicale di Debussy, compresi i protagonisti della sua opera Pelleas e Melisande. Ma il livello più importante a cui l’accostamento si può attuare resta quello fonico; come nel Preludio debussyano abbiamo l’elemento caratteristico dell’acciaccatura, qui già dai primi versi abbiamo la sonorità graffiante e ricorrente delle “R”: “Ritornello, Rimbalzi/ TRA le veTRAte (…)” e poi più avanti “ACRE GRoppo di note soffocate (…)”, e ancora più volte fino alla fine, ad inseguire il gioco fonico, peraltro non nuovo per Montale. Qui però esso non è più, come fino ad allora, fine a se stesso, ma mira a riprodurre il carattere scanzonato e divertito del Preludio. Come qui il tema ricompare variato alla fine, così nella poesia di M. troviamo alla fine la ripresa del secondo verso. Non si tratta di un semplice omaggio al musicista, ma di un esperimento linguistico a metà fra musica e poesia, un messaggio completo in cui la parola SI FA musica, in senso letterale e non solo simbolico, per arrivare a dire ciò che altrimenti non può dire meglio della musica. Nel Quaderno genovese Montale stesso ci dice: “E’ un fatto che le lettere tendono sempre di più alla musicalità e al colore” e ancora “(…) e, in fondo, diciamo pure tutta la coraggiosa verità: la letteratura E’ MUSICA”. L’elemento che in parte effettivamente accomuna la musica debussyana e la pittura impressionista, e che tanto affascina Montale da indurlo a tentare una sua “traduzione” poetica, è quello della leggerezza incorporea, dell’assenza di forza e peso, del confondersi e mescolarsi di colori e/o sonorità che però non significa assenza di conenuti e significati, inconsistenza concettuale.
Tutto ciò emerge con chiarezza inequivocabile dalla montaliana, giovanile Suonatina di pianoforte. Cogliamo qui la polemica verso la musica di Ravel, giudicata invece vuota e fragile, e per questo contrapposta alla musica di Debussy, definito da Montale “grande homme de lettres”, uno che per le sue canzoni d a camera non si accontentava di poeti mediocri, ma sceglieva Verlaine, Baudelaire, Maeterlinck. Come dire che non esistono una sensibilità letteraria, una musicale, una pittorica, ma solo la sensibilità artistica, e partendo da tale presupposto possiamo comprendere come la poesia possa farsi musica e la musica poesia.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Giovanni Grosskopf
Opinioni

My goal is mainly to create profound, highly communicative, spontaneous refined atonal music. What does this mean exactly? My colleagues, the musicians that will read this page, will probably smile at this question, but you can't imagine how many people have asked it to me and even sent me e-mails to know what tonality and atonality are!
So, I'll try to put it in these terms: the traditional classical music of the past ages was based on arranging all the tones and chords of a composition in relation to a central 'key' note (called the 'tonic'), thus forming a system or an arrangement of seven tones built on a tonic key or note, which ought to be also the last note of the piece in order to obtain an effect of satisfying conclusion. This traditional system was also based on a number of mainly consonant well-known traditional chords which could be easily classified according to the well-known traditional rules of harmony. It was named 'tonality'. Pop, rock and non-classical music are still based on tonality nowadays.
During the 20th Century, on the contrary, classical music has developed greatly, getting more and more different from tonality-based music: composers tried to avoid arranging music in relation to a conclusive sound, and began to employ even strong dissonances as ordinary sounds with wonderful astonishing suggestive effects, and irregular rhythms as ordinary rhythms, and also began to abandon the use of motives and of leading musical themes, focusing on tone color and timbre qualities rather than on melody. This new musical style is very distinctive of the contemporary classical music, sometimes called also 'learned' contemporary music, or 'new music', or 'avant-garde' music. This fascinating, strongly evocative new style of music is not really 'new' at present: it began to exist in European and Western music about the year 1900, and we must remark - for instance - that some of its features have always been part of ethnical musical traditions of many peoples in the world. It is not therefore a music without natural bases, of course, but it has only different natural bases. This new musical style is simply not based on tonality, so it is often referred to as 'atonal' music. It's sad that so many people today do not even know what atonal music is, because it is the classical music of our age.
Of course, this evolution did not occur without problems. Classical music is no more based on tonality nowadays. But it was. When the musical system of tonality has been left aside, we have also abandoned a certainty, a commonly accepted system that ensured the possibility to build chord sequences that surely were to sound logical and consequent, a feature that has always been distinctive of the music of Europe, in my personal opinion clearly influenced by the diversity of the Christian faith, that states that the Sense of the History has entered the History and so that the man has become free and can have an active part in its development, because his task is not only to follow some teachings or laws or to recreate an eternal myth: History has a direction, a sense.
Now a standard method to ensure a feeling of consequentiality (and then a feeling of Sense, of proceeding towards a Destiny) does not exist any more; on the contrary, the need to make the listeners perceive in what direction a music will go on has become more and more attenuated in many composers, in my opinion proceeding side by side with a loss of clarity about the sense and direction of the life itself, so typical of the present age. Besides, also in the domain of the contemporary music a tendency to the creation of static, repetitive, hypnotic atmospheres has been spreading all about us in the last years, partly owing to the influence of certain vaguely Oriental conceptions.
Facing all this, I have been concerned, since fifteen years ago, with doing some research to find a solution to what seemed a problem to me. When, years ago, I started to feel interested to atonal music, I guessed that the problem of understanding and appreciating spontaneously a music written in an atonal style should necessarily be connected to the revivification of a method to give a feeling of logical consequentiality in music also outside the old rules of tonality. At the same time, however, the practical experience, the facts, demonstrated clearly that the atonal music was not at all necessarily the product of a situation of crisis and disorientation, as many erroneously think, and that the contemporary music could and can certainly be as great as the traditional classical music used to be. I perceived that to dismiss the great expressive goals that have been attained through the use of the dissonant atonal chords would have been like to suppress a cardinal part of the 20th Century musical heritage, a sort of apostasy committed towards an objectively beautiful and poetic experience, which had been created with the labor and struggles of many; in other words, to ignore the beauty of atonal music would have been like to ignore deliberately an important part of reality in order to escape the problems related with it, instead of reflecting on them. To ignore facts and experience.
So, I simply tried to start from the observation of reality: that is, I sometimes felt that a given succession of two atonal chords sounded more logical and more consequent than other ones, and I started to wonder why it was so. I wondered: how does the atonal harmony work when we feel that "it works", that is when it has an appropriate and clear effect? What is lacking in it when, on the contrary, we feel that "it doesn't work" properly?
In other words, I tried to do some research on the hypothetical rules that could govern a system of atonal chords, to order them in logical and consequent successions, just in the way that chord sequences based on tonality used to sound logical and consequent. I tried to obtain something that could work as a common shared technical basis, so that I will not be obliged to put aside something that has always been one of the essential features of music in my culture: a feeling of consequentiality, indeed, a feeling of being proceeding towards a ultimate final goal, a sense given by its directionality, by the presence of a clearly perceivable thread in the music. I try to actuate this practically above all through my music, of course. As a researcher, however, these thoughts brought me also to explore the development of a method to analyze the atonal chords.
Yes, I work also as a researcher. My work as a researcher is related to the fact that I do not agree with classifying the discussions on structure and technics as academic and dry. I believe that in music meaning and poetry are in structure, or at least rely on it. Of course a structure that causes some audible effects, that you hear (possibly also without noticing its presence), not the type of structure that can only be viewed on a score. Any music has necessarily a structure. A structure in itself is far from being arid. I mean, poetry and emotion rely on structures that cause a feeling of coherence, or a feeling of hypnosis, or a perception of dialoguing voices, or a feeling of tensions, and relaxations, so that each passage derives from the former one and brings to the following one, and you are forced to wait something, until the end of the piece comes and you feel that you are waiting for the completion not only of that piece but of your life, which you will of course find only in Heaven. Really, the poetry of music, or of a passage, or of a single sound or tone color, is in its form (also a few milliseconds of sound have a form, as I learned from my electronic music studies)...this is the way I usually think about this problem. Atmospheres, emotions, already exist. But isn't it poetry and a fascinating task to try to understand (always in part, because a music is like a living person, and you never know it completely) why that emotional effect is there, what causes it, which structure is emanating such a beauty, and how could I do it again? Thus you discover that everything, every structure, conveys and points to a meaning that you never reach in this life... But why should we reject structure, technics, materiality? It's only through this one that some Meaning seems to appear. My problem is never how I feel, but what reality is made of! And reality is also materiality and rationality, I am also made of rationality and I feel complete only if also my reason is considered. The fact is that I compose what I like, but I need also to understand technically why I like that passage in a particular way, so that I can gain more control in what I am doing and understand more profoundly what I really want and what I really like and especially why. In my experience, the technical comprehension and the aesthetic emotion are not separated and also the technical research is poetic in some way, because it is made to understand where the beauty is coming from!
Really, sometimes analysis, when analysing or playing, or building structures, when composing, can be poetry, in this way. This gives me emotion: the unity and collaboration between spirituality and materiality, the fact that what you feel when you listen to Beethoven, for example, IS related in some partly inexplicable and partly understandable way to how Beethoven used to modulate from I to III or to write a pizzicato. We are one, body and soul. Also any good interpreter knows that there is a profound unity between technics and interpretation, for example. And this is what I find fascinating.
What are my favourite music genres? Besides the contemporary and 20th Century classical music, I love the authentic field-recorded ethnic music (I'm fond of ethnomusicology). I believe that a composer has much to learn from it, and that the authentic ethnic music and the contemporary music have much in common. I love ancient music very much, too, from the Middle Ages to the Baroque and Haydn (philologically performed, please! "The method to know an object properly is suggested by the object itself", said somebody). I usually love to work with people who deal often with ancient music: they often know the importance of accuracy, understanding, precision and absolute and passionate dedication to their work, and I like this. And often they like modern and contemporary classical music, too, like me. I really love Grieg, too. That's peculiar for me: I am not particularly inclined towards Romanticism and opera, generally speaking, although with some remarkable exceptions. I often find excellent music in the works of the so-called minor authors (in music, and also in painting!), and I absolutely agree with those who study them. Besides, I often find music in the precise observation of natural elements (birds songs, animal calls, natural forms, natural sounds).
With regard to the question whether we should go on to regard the classical music as a genre apart, somewhat profounder than the others, or we should regard all the genres as having a substantial parity and compose cross-genre music without any problem, well, I confess that my opinion is the first one.
What are my favorite contemporary composers? Among them there are Messiaen, Lutoslawski, Castiglioni, Takemitsu, Crumb, Berio, Nordheim, Ligeti, Gubaidulina, and also Ives, for instance, or Jonathan Harvey, but also many, many others.
There is a LOT of wonderful contemporary (especially atonal) music, there is an atonal tradition, too, full of dignity EXACTLY as the classical tradition of the past, but the mass media and record labels almost ignore it. There are not only the great pieces composed by the aforementioned authors, of course. But also many pieces composed by friends of mine, after a life of studies, hard work and efforts. When I see that so many people despise contemporary music and throw away the good one with the bad one, I become really irritated. More, I feel hurt, and I think to me and my friends, and our passionate work considered as if it were nothing. I'd rather to save both (good and bad contemporary music) than to throw away the good part with the bad one, to give up and destroy the love and passion for beauty that so many composers demonstrate with their hard work and their life. I think that one must be concerned with the prejudices of those who speak badly of contemporary music without even trying to understand it. Understanding the contemporary classical atonal music is often a problem of what education you have had (and musical education cannot be separated from human relationships and from a global education of a person, as we can learn from the classical early music or from the traditional cultures), and also a problem of what the mass media let you know. For instance, sometimes the little children and non-musicians understand it better.
Really, contemporary (atonal) music is not (and shouldn't be) a matter who interests only some cerebral academics: there are plain, simple people who love it, and they are more than what one usually imagines. Being involved with it can only enrich you. Besides, I believe that one should prefer - and should be prone - to be changed in his soul by the music he listens to, than to change the music he listens to according to his mood. A music that does not surprise you, a music that you already listen without problems, is not interesting for your life. So I'm always very concerned with making people love good atonal music (of course there is the bad one, too!) and get enriched, and free from prejudices. For instance: tuneful atonal melodies CAN exist. Yes, it occurs to me quite often to whistle themes from Berg (sonata op.1), Messiaen (a lot, really, and very often!) and even Stockhausen (Tierkreis, that can be one of the possible demonstrations that atonal melodies can indeed be tuneful). Why not? They come to me spontaneously and unconsciously. I believe that music is not ONE universal language. There are MANY languages, as in speech. One should simply know the language, so, as already stated, it is also a problem of education (and mass media, and so...money), and the language itself must be understandable, that is (for me), it must be partly based on natural foundations and on the culture of the environment from which it spreads. And, at least for us Europeans (I'm Italian), on consequentiality.
And, like with language minorities, each language must have the right to exist and must have its space, equal to the others. We all have the right to speak our native, spontaneous language. And atonality is absolutely spontaneous, for me, more than tonality. (…)
I am even thinking of establishing a group or list of web pages, called "NT music", of people concerned with the defense and survival (and more than survival, also with public knowledge, support, comprehension, correct appreciation and diffusion) of "NT" communicative music, "NT" meaning non-tonal, non-triadic, non-thematic, non-tempered... (not necessarily all these things together at the same time: I am especially interested in "non-triadic" or "non-tertian" music).
Also all my work, together with my other colleagues, on software for computer-aided composition and music analysis (though less important than the musical one, of course!) is done for the same reason.(…)Do I have interests other than music? Oh, yes, several ones: watching and identifying animals in the wild, birdwatching, strolling in the Alps, among fir forests, high meadows, brooks and moors, reading as much as I can, looking to the works of the great painters (Bruegel, Monet, Seurat, Kandinsky, Klee, and my great Chagall...), collecting rare authentic traditional music field recordings, reading good literature and theatre, watching movies by great directors when I have time (almost never), playing with little children and learning from them. I have also a strange attraction for languages, linguistics and ethnic minorities, and for funny tricks based on logic and maths, for music boxes (but I have only one of them) and for astronomy, for mountain life and nature, for the Northern Countries and especially for Norway, for the hardingfele, for the old fairy tales, legends and surviving old rituals and customs, and for studies about any of these subjects. And I love museums (don't make strange faces) :-), but also cartoons...

NOTA

Giovanni Grosskopf è nato nel 1966.
Si è diplomato in pianoforte, composizione e musica elettronica col massimo dei voti al Conservatorio "G. Verdi" di Milano, perfezionandosi poi presso l'Accademia "G. Marziali" di Seveso e la Civica Scuola di Musica di Milano. Ha seguito seminari compositivi con Franco Donatoni e György Ligeti.
Dal 1985 svolge attività concertistica come pianista, occupandosi soprattutto di Bach e del '700, di programmi monografici di rara o rarissima esecuzione, del '900 e di musica contemporanea, sia come solista sia con altri interpreti.
È molto attivo come compositore, con brani eseguiti in rassegne anche internazionali all'estero e in Italia, e regolarmente nel repertorio di diversi ensembles e solisti. Nel gennaio 1999 Radio Vaticana gli ha dedicato un'intera puntata di un programma sui compositori contemporanei, e in simili programmi la sua musica è stata anche presentata su RAI-RADIOTRE ed alla Radio Nazionale Argentina. Sue composizioni sono pubblicate dalle Edizioni Suvini Zerboni.
È autore di un metodo per l'analisi degli accordi atonali non triadici su basi psicoacustiche (il suo software NonTonalAnalysis, elaborato insieme a Didier Guigue, è distribuito in tutto il mondo) e di studi sull'armonia nell'ambito della musica non tonale o tardo-tonale. Su questo è stato invitato a tenere relazioni in Italia e in Lituania.
Ha pubblicato articoli su
 La Rassegna Musicale Curci, in altre pubblicazioni anche online su pagine Internet e atti di convegni.
Vivamente interessato alla collezione di registrazioni etnomusicologiche "sul campo" e a ciò che da esse si impara nell'ambito della composizione e dell'educazione musicale, ha pubblicato scritti e tenuto incontri sull'argomento.
È attualmente titolare della cattedra di Armonia complementare (Cultura musicale generale) presso il Conservatorio "G.Verdi" di Milano.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO



Cristiano Mattia Ricci
Il Brasile moderno di Lina Bo e Pietro Maria Bardi

L’esperienza umana dell’architetto romano Lina Bo (Roma 1914 – San Paolo 1992) e il suo percorso a cavallo tra arte, teatro, design, architettura, prima nella società italiana e poi nel differente tessuto socio-economico del Brasile degli ultimi anni Quaranta, meritano di essere ricordati più di quanto sia stato fatto sinora.
Verrebbe da considerare quale inizio di questo ricco episodio della nostra storia artistica recente l’accelerata partenza per il Brasile di Lina Bo e Pietro Maria Bardi (nel 1946, poco dopo essersi conosciuti), e la conseguente e difficoltosa realizzazione di quello che, grazie al loro contributo, diventerà uno dei più importanti musei d’arte latinoamericani, il MASP di San Paolo. Così facendo, faremmo però torto per incompletezza storica e biografica a due protagonisti della cultura artistica mondiale del Novecento, che già nella precedente loro esperienza italiana misero profonde radici nel dibattito culturale in atto.
Lina Bo era stata con Carlo Pagani alla direzione della rivista Domus (1943); dal 1940, era collaboratrice presso lo studio milanese di Gio Ponti. Pietro Maria Bardi aveva fatto esperienza come critico d’arte e gallerista; da tempo era giornalista presso il Corriere della Sera. Alcuni suoi scritti teorici fanno di lui uno tra i principali propulsori del modernismo in arte e architettura. L’occasione per il significativo trasferimento in Brasile dei due viene loro fornita dall’invito a Pietro Maria Bardi (da parte dell’intellettuale Assis Chateaubriand) per un incarico di consulenza alla costituzione del nuovo Museo d’arte della città di San Paolo, ma diventerà in breve tempo un’esperienza più generale di profondo confronto e scambio tra la cultura europea più innovativa, da loro ben rappresentata, e la più popolare e infinitamente ricca cultura brasiliana. Questo “trapianto” eccezionale di innovativa sensibilità europea offrirà altre possibilità alle ragioni stesse del modernismo, nonché nuove forme praticabili, più umane e ragionevoli, di progresso culturale. La conoscenza di questo lavoro, svoltosi in più campi e nell’arco d’un cinquantennio, svelerà a chi non ne sia già a conoscenza percorsi alternativi ancora attuali, anche eticamente interessanti. Semplificando l’immensa ricchezza di questa lunga esperienza, ci limitiamo a segnalare due opere d’architettura che ben rappresentano questo percorso.
Una è la Casa de Vidro (1951), un esempio alternativo di architettura razionale, ben impiantata nella più selvaggia vegetazione del nuovo continente, sarà il primo progetto realizzato di Lina Bo in Brasile. Attualmente è sede dell’istituto Bo Bardi, costituitosi per divulgare e proseguire l’opera dei due maestri.
Dell’innovativa concezione architettonica che caratterizza il MASP (1957-1968) la stessa Lina Bo disse: “Credo, nel Museo de Arte de Sao Paulo, di aver eliminato lo snobismo culturale così amato dagli intellettuali, optando per soluzioni dirette, spoglie”. E noi, almeno idealmente, accogliamo il suo insegnamento.

NOTA

Cristiano Mattia Ricci è nato a Cesena (FO) l’8 agosto 1973. E’ diplomato al Liceo artistico, e laureato in architettura presso il Politecnico di Milano; parallelamente all’attività artistica, pratica la professione di architetto.
Tra il 1995 e il 2003 ha scritto poesie e ha partecipato di frequente a reading poetici; suoi testi sono stati pubblicati su riviste di settore, antologie e edizioni d'arte.
Nel 2000 ha fondato il gruppo del Cerchio Azzurro, che si occupa di esplorare i nessi tra le diverse forme di espressione artistica: arti visive, letteratura, musica.
Nel 2003, presso la Quadreria del Lotto di Trapani, con la mostra Retornos de lo vivo lejano, il suo linguaggio visivo è radicalmente cambiato.
Da allora partecipa regolarmente a esposizioni collettive, tra le quali si segnalano in particolare Fundus (galleria Artycon, Offenbach – Francoforte, 2008), Polifonie (Cavenaghi Arte, Milano, 2008), Din Don d’Arte – Richiami d’espressività giovane (Villa Bertarelli, Galbiate - Lecco, 2007), Preghiere – Approdi minoritari dell’anima (Art Gallery Bistrot Garden Grove, Roma, 2007), 10 per 10. Questioni di Matematica (Florilegio Arte, Leno – Brescia, 2006), Settimana bianca in galleria e Il segno del Nuovo (Galleria del Barcon, Milano, 2005 e 2004).
Tra le mostre personali più recenti segnaliamo Kunst im Wechsel – Arte in cambio (galleria Artycon, Offenbach – Francoforte, 2007), sua prima esposizione all’estero, e Sulle acque della luna (Florilegio Arte, Leno – Brescia, 2006).
A settembre 2009 terrà una nuova mostra personale presso la galleria Artycon di Offenbach, dal titolo Vahine's ballad, all’interno della manifestazione d’arte contemporanea Kunstansichten 2009.
Sue opere sono presenti presso collezioni private italiane ed estere.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
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Cristiano Mattia Ricci
Intervista a Dino Serra

Vorrei introdurre questa breve intervista con il vissuto della mia esperienza a Trapani, in occasione della mostra Retornos de lo vivo lejano presso la galleria d’arte contemporanea Quadreria del Lotto. E desidero anche dire che in questo nuovo contesto mi sono reso conto di quanto l’esperienza umana venga sempre prima, in ordine d’importanza, di quella artistica.
Questo incontro ha avuto inizio attraverso quella modalità di “viaggio” a cui sono avvezzo da tempo, che si sperimenta tramite un utilizzo pressoché costante di Internet. Così ho scoperto l’esistenza di questo piccolo spazio trapanese, dei suoi artisti, ed ho avuto modo di conoscere Dino Serra e il suo mondo. Ci siamo tenuti in contatto telefonico per una mezza dozzina di mesi; poi in ottobre, finalmente, ci siamo conosciuti di persona. La mia esperienza diretta della città di Trapani è stata motivo di intensa gioia, si è rivelata un momento di stimolo e conoscenza. L’allestimento della mostra, le scelte di natura estetica conseguenti, sono state solamente una piccolissima parte di ciò che interiormente in quei giorni ho vissuto.
Voglio raccontare, in verità, di un’amicizia particolare e profonda, sviluppatasi in un brevissimo arco di tempo. Dino Serra è un punto di riferimento essenziale per la cultura artistica trapanese, e non solo. La città è ricca di autentici artisti e intellettuali: un luogo forse poco conosciuto per queste sue spiccate qualità, benché particolarmente vive. Tra gli artisti che ho avuto la fortuna di conoscere e incontrare, sono rimasto affascinato dalle qualità umane e dalla maestria pittorica dell’artista e amico Enzo Romeo: un pittore complesso, dal percorso sempre in evoluzione; un uomo affascinante e di rara simpatia. Più anziano ma altrettanto vitale è l’artista Mario Cassisa. Quest’uomo è conosciuto finora dai trapanesi soltanto per le inesauribili avventure della sua vita, per i suoi continui spostamenti nel mondo e per la sua amicizia con Leonardo Sciascia. Nei primi anni Cinquanta è stato a Chicago, studente di action painting presso la casa-atelier dell’artista Mark Tobey.
Il maestro Cassisa vive in una “casa museo” (così dice l’insegna) presso la via Poeta Calvino. Per chi vada a Trapani anche una volta soltanto, è imprescindibile la conoscenza del maestro. Altre persone che ho avuto modo d’incontrare, come l’artista Antonio Sammartano e l’architetto Vittorio Maria Mancuso, mi hanno convinto che si tratti di gente speciale, affabile, colta, creativa e originale. 
La vita nel Milanese, da cui provengo, i suoi codici statici, la sua mancanza di calore umano e di proficue relazioni interpersonali, hanno contribuito a fare di questa mia breve permanenza una sorta di rivelazione delle possibilità in positivo dell’animo umano, dei suoi toni colorati. Desidero però soffermarmi sulla personalità del gallerista e amico Dino Serra, che più di altri ho frequentato; non mi dilungherò tanto sulle cortesie e gentilezze che ha usato nei miei confronti, quanto sulle peculiarità della sua personalità speciale. Dino Serra è un gallerista “diverso” per profonda passione, non uno dei molti mercanti d’arte italiani ed esteri. Anzi, l’aspetto più commerciale del fare artistico, l’idea economica associata all’opera, gli ripugna, ed è criterio d’esclusione nella scelta personale che fa degli artisti per la sua galleria. La visione dell’arte che lo contraddistingue è intesa quale fenomeno rigenerante dell’anima: una sorta di “semplice” terapia alle brutture della vita, ai sempre imprevedibili ritorni, nel percorrere la vita, d’una mancanza di senso. Il contatto con l’Arte viene da lui vissuto come momento anche educativo per sè e per la sua famiglia, per i suoi concittadini e amici; si tratta, per lui, di dare significato aggiunto alla propria quotidianità, in un confronto personale ma attivo col proprio tempo. Dino Serra è un uomo dal carattere spiccatamente creativo, mai prevedibile, dal pensiero inarrestabile. La disciplina per la quale pare più tagliato è il sogno; attribuendo a questo un ruolo di primo piano nell’economia di una vita ben spesa.
La Quadreria del Lotto, il prezioso sogno di via Mancina a Trapani, ha ospitato in diverse occasioni il lavoro di persone colpite da disturbi psichici come di artisti nazionali ed internazionali. In particolare, quest’attenzione al sociale ha creato gratificazione e nuovi stimoli ai malati locali, rendendogli dignità con l’arte. Alcuni di loro, a riprova dell’effettiva utilità in tal senso della galleria, sono diventati assidui frequentatori delle mostre ed hanno sviluppato un interesse specifico per gli aspetti della creatività.
In una delle nostre conversazioni, Dino Serra mi ha spiegato dell’uso originario del suo spazio: “La città aveva sino a quarant’anni fa tre esattorie del lotto, di cui l’attuale galleria era la terza”; e ancora, “I trapanesi hanno sognato, in questo luogo. Hanno sognato ricchezze, pur se materiali. Questo spazio è, sin dalla sua origine, un luogo adibito al sogno”. Così nel rispetto d’una propria personale vocazione, viene allo stesso tempo confermato il rispetto per la storica vocazione d’un luogo. “Altra lieta sorpresa è stata la scoperta di un settecentesco arco in tufo, precedentemente murato”, e nel raccontarmi di questa sua recente scoperta gli s’illuminano gli occhi, rivelandomi un pensiero quasi “magico” associato alle proprietà di questo specifico luogo. Il termine “quadreria” è termine dal sapore antico, secentesco, e corrisponde al più specifico amore per i quadri di Dino Serra. Sebbene si occupi d’arte contemporanea, discorrendo egli rivela un profondo amore per l’arte del passato, e in particolare la pittura del Seicento. L’amore per la nostra storia dell’arte è il movente della sua ricerca nella contemporaneità. La sua visione dell’arte passa ininterrotta tra passato e presente.


- Vuoi raccontarci cosa ti ha spinto ad occuparti d'arte, quali ragioni del profondo?
Ad un certo punto della mia vita ho avvertito il bisogno, la necessità di dare un senso a gran parte della mia vita, che non poteva essere soddisfatta solo dal ricorso a valori tradizionali. Cresceva in me l'urgenza di controbilanciare con altri valori una esistenza che tentava di appiattirsi su interessi di basso profilo, alienanti e spesso squallidi. Nasce da questa autoanalisi il "sogno" QL. Un colpo d'ala, servito a riconvertire la mia sensibilità, a dissetare la mia coscienza con il ricorso all'arte. Una scelta terapeutica e di necessità. Una scelta per certi versi obbligata per chi sa leggersi dentro e sa guardarsi attorno.
- Quali parametri usi nella scelta che fai d'un artista; cosa cerchi nell'arte e che cosa trovi?
Sono un fruitore e un propositore d'arte molto curioso. La curiosità mi porta spesso ad indagare la personalità e l'opera di giovani artisti che tentano nuovi linguaggi di comunicazione. Questa premessa non è certo il criterio di scelta, ma rappresenta il "luogo di scelta" all'interno del quale mi muovo cercando esclusivamente la qualità non solo pittorica, ma soprattutto di pensiero; una cornice che deve racchiudere capacità introspettive, dell'artista prescelto, di assoluto livello.
- I primi anni della Quadreria hanno visto una folta presenza di artisti europei ed extraeuropei; prevedi di proseguire in questa direzione?
Ritengo che una giovane galleria d'arte contemporanea debba sentire il dovere di ricercare sinergie, approcci ed esperienze per il mondo. In quest'ottica, sulla via della Qualità, chiunque si incontri, italiano o straniero che sia, alla QL troverà spazio.
- Puoi descriverci il tuo punto di vista sulla situazione artistico-culturale sicilana?
La situazione artistico-culturale della Sicilia non è delle migliori, secondo me per due ordini di ragioni: la scarsa sensibilità per la cultura in genere dimostrata dalle amministrazioni locali, e non ultimo anche una certa capacità (tutta nostra) di saperci piangere addosso aspettando che altri facciano qualcosa. Ciononostante, la grande ricchezza culturale che ci ritroviamo ci permette di galleggiare.
- Come immagini il futuro della Quadreria?
Con tanti giovani artisti bravi che si susseguono, pronti a cogliere l'opportunità che la QL offre loro, perché nel frattempo hanno visto che altri che hanno transitato alla Quadreria del Lotto sono diventati artisti affermati, apprezzati, quotati e famosi.

Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2003)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Anna Peres
Le ricerche ambientali degli anni '50 e '60

Pochi artisti dopo la seconda guerra mondiale rimangono fedeli ai linguaggi riconosciuti, poiché, a monte di problematiche formali, risulta ormai difficile rapportarsi, positivamente o conflittualmente, a un’idea di società o di collettività, frantumata ormai l’unità tra Io e Mondo.
Il problema, quindi, è al di sopra della scelta tra concretismo e realismo, e si manifesta con l’ossessionante attenzione che si riscontra sia in Europa sia negli Stati Uniti per il rapporto, fluido e a doppio senso, tra l’interiorità dell’individuo e il mondo inteso come totalità del reale capace di interagire emotivamente con il soggetto. Non c’è autoreferenzialità: l’artista si lascia suggestionare dal contesto e dall’ambiente, per poi invaderlo.
Negli Stati Uniti Jackson Pollock, sul finire degli anni Quaranta, inizia a realizzare una serie di vaste tele. E’ un’arte non rappresentativa, di una comunicatività immediata per la prepotenza con cui si impone alla vista. L’energia del gesto pittorico e le ampie dimensioni determinano opere di grande impatto visivo che proiettano nell’ambiente ciò che prima veniva rappresentato "al di là" del diaframma costituito dalla superficie del quadro. La tecnica del dripping comincia già, per qualche aspetto, a gettare le premesse del coinvolgimento ambientale: l’artista crea le sue opere appoggiando le tele per terra e muovendosi intorno ad esse per far gocciolare il colore, camminandoci sopra, "entrando" nel quadro. Questa dimensione di coinvolgimento fisico non raggiunge ancora lo spettatore, ma già risulta determinante l’eliminazione di qualsiasi punto di vista privilegiato, dei tradizionali "sopra" e "sotto". L’opera si proietta sullo spazio espositivo, estende all’esterno la sua suggestione, ma custodisce ancora gelosamente dentro di sé il suo significato.
Il passo successivo viene fatto da Lucio Fontana, in questi stessi anni, con la realizzazione di veri e propri "ambienti". Sono il segno dell’emergere di una sensibilità diversa nei confronti dello spazio, che fino agli anni Quaranta rimaneva legata a una rigida rappresentazione a tre dimensioni, certa della suddivisione nelle unità fondamentali del punto, della linea, della superficie e che mai si era avventurata al di là delle teorie anti-euclidee: uno spazio che ancora era organizzato secondo le esigenze funzionali e razionali del passato, la cui origine può essere individuata nella sensibilità del Rinascimento italiano.
Tutti gli ambienti di Lucio Fontana - dal primo presentato alla Galleria del Naviglio nel ’49 fino alla Documenta di Kassel del 1968 - sono spazi indefiniti e vaghi, perché privati della luce o perché rivestiti di colori primari uniformi che appiattiscono ogni irregolarità e annullano ombre e limiti architettonici. Sono spazi che si realizzano pienamente solo con l’interazione di un visitatore che allo spazio apporti gli altri elementi fondamentali del movimento e del subcosciente, ossia del tempo. Spogliando l’ambiente di qualsiasi elemento di distrazione il fruitore è costretto a concentrarsi su se stesso, sulla propria interiorità, a isolarsi dal contesto. Non è una suggestione metafisica, ma uno spazio reale che ritrova le sue condizioni di materia fluida e continua.
Una concezione analoga si può ritrovare qualche anno più tardi nei lavori di John Cage. Nel 1952, al Black Mountain College, in occasione di un happening di teatro, danza, arte, musica e poesia, altera lo spazio della rappresentazione in modo del tutto alogico e svincolato da ogni convenzione rappresentativa e prospettica. La stanza viene suddivisa in quattro porzioni triangolari, lasciando percorribili il perimetro e le diagonali di suddivisione. Gli spettatori assistono, quindi, a una rappresentazione frammentata in modo imprevedibile, senza alcuna gerarchia o nucleo privilegiato che si svolge in uno spazio libero da logiche predeterminate.
Tali ricerche risultano fondamentali per determinare la nuova sensibilità del dopoguerra, che non si limita a definire una nuova teoria rappresentativa; l’intuizione che permette una svolta reale è contenuta nella definizione “ricerca ambientale”: in essa ciò che viene aggiunto al concetto di spazio è l’elemento determinante dell’esperienza fisica, della percezione. L’ambiente è lo spazio dell’uomo, il limite della pura speculazione intellettuale viene scavalcato e il momento esperienziale diventa una parte importante della ricerca artistica.
La centralità della questione ambientale si ritrova anche alla base delle intuizioni di un interessante movimento culturale degli anni Cinquanta: l’Internationale Situationiste, formatosi nel ’57 dai resti dell’Internazionale Lettriste - da cui provengono Gil Wolman e Guy Debord - e da alcuni artisti del gruppo Cobra - come Asger Jorn e Constant - ai quali si aggiunge l’italiano Pinot Gallizio.
Partendo dai concetti fondamentali emersi dagli studi di psico-geografia i Situazionisti cominciano a delineare la pratica della dérive, definita come un percorso consapevolmente casuale attraverso diverse zone di una città. In una città ancora ideale costruita secondo i principi dell’Urbanisme Unitaire da essi sostenuto, l’itinerario attraverserebbe diversi quartieri progettati con "personalità" differenti a seconda della loro destinazione funzionale. La dérive prevede un percorso condizionato da suggestioni atmosferiche: dopo un momento di profondo disorientamento il tragitto ha il fine di suscitare una maggiore coscienza di sé e di condurre alla liberazione dalle convenzioni sociali e dalle inibizioni. In mancanza di città "situazioniste", l’esperienza è riproducibile anche in quelle reali.
Lo spazio reale e quotidiano si trasforma in una trappola del desiderio e la passeggiata diventa uno spreco gioioso e consapevole di ciò che è normalmente considerato il “tempo utile”. L’obiettivo si propone di guardare a una quotidianità eterogenea, vitale, gioiosa, istintiva. Fondamentale, quindi, è anche il gioco che i Situazionisti riprendono dalle pratiche collettive dei Surrealisti: “de l’analogie”, “des définitions”, “de l’un dans l’autre”. Lo scopo in questo caso è quello di mostrare il limite e l’inadeguatezza delle nozioni che designano e organizzano una realtà che è invece una tessitura complessa, ricca di sovrapposizioni, sottoinsiemi e sconfinamenti. I meccanismi di associazione e analogia emergono più chiaramente e svelano anche la struttura della metafora. Portando alle estreme conseguenze questo percorso apparentemente innocuo, quindi estendendo il concetto di nozione per arrivare a quello di simbolo, si riescono a individuare i meccanismi originari dei riti sociali, fondanti i nostri rapporti con "l’altro" e con la realtà esterna.
Con l’associazione di dérive e gioco si ottiene una situazione costruita. La ricerca degli artisti deve condurre, secondo i Situazionisti, alla creazione di un ambiente unitario. L’arte non è più rappresentazione, ma stimolo all’azione. Il lavoro dell’artista non si conclude con la produzione di un oggetto da contemplare, ma acquista un vero significato solo nel momento in cui entra in contatto con il pubblico e ne modifica l’esistenza, facendo riemergere l’impulsività e la creatività represse dalla società e dalla cultura occidentale.
Vicini e inevitabilmente influenzati da questo ambiente, Yves Klein e Piero Manzoni ridimensionano l’aspetto più politico e sociale della "polemica" situazionista per concentrarsi su creazioni estetiche puramente noetiche e immateriali.
Nel 1958 Yves Klein realizza alla Galleria Iris Clert di Parigi Il Vuoto. La Galleria non conteneva alcuna opera d’arte, era spogliata di qualsiasi oggetto e interamente ridipinta di bianco. Riprendendo la pura sensibilità estetica di Malevič, Klein non vuole porre l’accento sullo spazio architettonico, ma annullarne il senso di definitezza per far emergere lo stato pittorico. Questo stato pittorico sensibile, o clima pittorico, è la caratteristica qualificante ogni opera d’arte, e l’artista francese non fa altro che isolare e diffondere questa emanazione, depurandola di ogni elemento superfluo, sfruttando esclusivamente il potere suggestivo e rituale dello spazio dell’arte, definito dai limiti architettonici della galleria. Questa sensazione di contatto con la sensibilità estetica dell’artista avviene anche in assenza dell’opera d’arte, poiché si tratta di una predisposizione psico-fisica ormai rituale all’interno di una galleria o di un museo, di una tensione spirituale verso una profonda dimensione estetica. Il solo fatto di catalizzare l’attenzione su questo meccanismo psicologico rende evidente sia la purezza del concetto assoluto di arte come essenza intellettuale autonoma, sia il ruolo determinante del contesto espositivo nella predisposizione di un’atmosfera che rende lo spettatore sensibile e ricettivo.
In questi stessi anni Piero Manzoni porta avanti con mezzi analoghi una serie di ricerche e iniziative concentrate su problematiche più strettamente inerenti lo spazio. Nel 1959 realizzando le Linee, tracciati dipinti su strisce di stoffa di varia lunghezza, riprende una delle unità fondamentali con cui l’uomo razionalizza e rappresenta visivamente lo spazio. Esponendole arrotolate all’interno di scatole o tracciandole come perimetro chiuso e continuo lungo i muri della galleria, le linee di Manzoni perdono la rigidità della rappresentazione euclidea e diventano il punto di partenza per la costruzione puramente metafisica di uno spazio infinito e fluido, possibile solo nella dimensione dell’intuizione estetica.
In questo stesso anno l’artista milanese aveva fondato, insieme a Enrico Castellani, la rivista Azimuth. Ne usciranno solo due numeri - tra il ’59 e il ’60 - ma anche in questo breve spazio di tempo i due artisti riescono ad animare un vivace dibattito sulle nuove ricerche artistiche e sul rapporto arte-spazio, coinvolgendo critici e artisti. Nel primo numero, uscito nel 1959, sono pubblicati due articoli di particolare rilevanza ai fini dell’analisi: uno di Guido Ballo sulle ricerche spaziali di Fontana, l’altro di Yoshiaki Tono, Spazio vuoto e spazio pieno. In quest’ultimo Tono riconsidera la spazialità occidentale, caratterizzata da un’estrema rigidezza e razionalità, ancora di ascendenza rinascimentale e da un costante horror vacui, e li confronta con la diversa concezione orientale, in cui il vuoto acquista il diritto a un’esistenza autonoma e positiva. Per questo motivo nell’arte dell’Oriente tradizionale lo spazio vuoto non è mai nascosto o “riempito”, ma è elemento generativo e sorgente di energia. Questa risorsa è stata solo recentemente riscoperta da alcuni artisti, tra i quali Tono cita gli statunitensi Sam Francis e Franz Kline (e ai quali verrebbe spontaneo aggiungere almeno Yves Kline). Il secondo numero della rivista esce nel 1960. Esso si concentra esclusivamente sul tema delle nuove ricerche, libere da limiti materici e linguistici. Udo Kultermann in Una nuova concezione di pittura, afferma: “Non si cerca più di produrre arte, ma di trasformare la realtà. […] Meta prima dell’artista è dunque la mobilità del quadro, che si sprigiona dal quadro[…], che aiuta a creare uno spazio in cui l’osservatore penetra”. Lo stesso Piero Manzoni, in Libera dimensione, approfondisce la nozione di linea che già lo aveva incuriosito l’anno precedente: “...una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito, al di fuori di ogni problema di composizione o di dimensione; nello spazio totale non esistono dimensioni...”. Nello stesso testo l’artista descrive il senso di necessità che lo ha spinto oltre i limiti fisici del quadro e dell’oggetto artistico: “...il quadro è finito; una superficie di illimitate possibilità è ora ridotta a una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura e assoluta?”.
Questo dibattito è centrale anche nell’opera di Castellani, che a partire dal ’58 crea la serie delle tele monocrome estroflesse. Anche qui ritroviamo, come in Yves Klein, una tendenza alla semplicità assoluta, quasi alla nudità, e un coinvolgimento di tutto lo spazio espositivo. La scelta di una stesura uniforme e monocroma di colori primari su una tela animata plasticamente in forme semplici e ripetitive crea un clima sospeso e indefinito, quasi spirituale, legato inscindibilmente al tempo e specchio di una dimensione interiore.
Gli anni Sessanta vedono la nascita del Gruppo T, in consonanza con tutto il contesto artistico europeo, che vede diffondersi a macchia d’olio le sperimentazioni di tipo cinetico e programmato. Gli animatori del gruppo, riprendendo la fiducia e anche l’entusiasmo per le nuove tecnologie che già aveva animato gli Spazialisti, realizzano nel corso di tutti gli anni Sessanta numerosi ambienti. Soprattutto per quanto riguarda le realizzazioni di Anceschi e Colombo la strumentazione tecnico-elettronica (fari, neon, semplici macchine cinetiche) viene utilizzata per realizzare ambienti circoscritti che ignorano, confondono oppure deformano la percezione di uno spazio rigidamente organizzato secondo la scatola prospettica di ascendenza rinascimentale. L’obiettivo dei due artisti è il disorientamento percettivo. La vista torna ad essere soltanto uno dei diversi sistemi sensoriali di cui è dotato l’uomo. Si sente l’impellenza di tornare a una situazione primitiva nell’uso dei sensi, nella percezione dell’ambiente, e di conseguenza nella visione dello spazio che torna ad essere uno spazio-tempo. Recuperare la quarta dimensione significa tornare a uno spazio pre-umanizzato. E’ un legame, una continuità, visibile nel movimento e nell’instabilità di ogni punto di riferimento.
Gianni Colombo è l’esponente che si avvicinerà maggiormente alla environmental art. Sostituisce, infatti, la tecnologia con la creazione di ambienti deformati, basandosi sui dislivelli dei piani e la compenetrazione dei volumi spaziali.
Nel 1967 Giuseppe Marchiori organizza a Foligno la mostra Lo spazio dell’immagine, che può essere considerata una prima consacrazione di queste ricerche e nella quale trovano visibilità l’interpretazione dell’arte cinetico visuale (ambienti di Colombo, Boriani, De Vecchi, del Gruppo MID e del Gruppo N), l’indirizzo che discende dalle ricerche di Lucio Fontana (Castellani, Bonalumi e Scheggi), quello di artisti più oggettuali (Ceroli, Festa, Gilardi, Marotta, Mattiacci, Notari, Pascali) o concentrati su ricerche di impronta più immateriale (Fabro, Pistoletto).
Il finire del decennio vede anche il diffondersi della Minimal Art, corrente che fin dall’inizio si dimostra particolarmente sensibile alle problematiche spaziali. Le realizzazioni ambientali di questi artisti (Flavin, Andre, Le Witt, Serra, Judd) sono numerose, e si basano su una concezione estremamente razionale dello spazio, che viene ridotto ai suoi termini minimi, alle sue unità geometriche fondamentali, quali si possono ottenere con schematizzazioni dello scheletro architettonico o tramite astrazioni mentali.
Una tendenza particolarmente interessante del movimento si sviluppa in California grazie ad artisti come Asher, Irwin, Turrel, Wheleer, Naumann e Nordman. La caoticità, il sovraffollarsi di immagini, rumori, musica e slogan a cui è arrivata la società occidentale alle soglie degli anni Settanta, e in particolare nel contesto in cui sono attivi questi artisti, la città di Los Angeles, provocano in loro una forte reazione, atta a creare spazi in cui l’uomo abbia la possibilità di ritrovarsi solo con se stesso. Questi artisti si muovono in una direzione opposta e complementare rispetto agli altri rappresentanti della Minimal Art, e realizzano ambienti che non solo ignorano, ma tentano di occultare la struttura architettonica; solitamente sono spazi progettati e costruiti ex novo, in cui gli angoli sono smussati, le pareti bianche e indefinite. Ogni ostacolo visivo o risposta sonora (si cerca di creare spazi anecoici) viene eliminato o attutito, in modo da escludere una precisa percezione delle distanze, dei limiti e delle proporzioni. Il visitatore si ritrova in confronto con la propria interiorità, ma soprattutto con il proprio corpo. E’ costretto allo sforzo di ascoltarsi per percepire nuovamente stimoli sensoriali assolutamente elementari e normalmente oscurati. Uomo e spazio sono un tutt’uno, fusi nel momento esperienziale. Lo spazio non ha un’identità propria, ma acquista un senso in relazione al modo in cui viene percepito. A sua volta il visitatore acquista consapevolezza del proprio sentire e della sua presenza nel mondo grazie al dialogo con lo spazio.
Tutte le ricerche sono accomunate dall’inedita attenzione nei confronti della fase di fruizione. Lo spettatore non deve più contemplare passivamente il lavoro dell’artista; il fatto stesso di "essere inglobato" nello spazio dell’arte implica la necessità di un coinvolgimento fisico non più solo metaforico. Le ricerche spaziali fin qui trattate sono, infatti, solo una delle tante modalità con cui la nuova generazione di artisti cerca di abbattere l’antica e radicata distinzione tra opera d’arte e spettatore passivo. L’arte non è più un oggetto autosufficiente e in sé conchiuso, ma è un’azione in divenire, nella quale il ruolo dello spettatore è attivo, indispensabile per la compiutezza dell’operare artistico. Lo scopo è quello di ottenere un totale coinvolgimento che rivoluzioni realmente il rapporto con il mondo esterno e con se stessi, ossia con il proprio corpo, che ha quindi, nella maggior parte dei casi e soprattutto in Europa, finalità sociali e politiche.
Se fino agli anni Cinquanta l’artista risultava per definizione dotato di sensibilità e capacità eccezionali, ora rifiuta questo ruolo elitario, per farsi promotore di comportamenti sociali differenti, per provare a suscitare rapporti liberi da schemi e convenzioni.
L’arte della prima metà del secolo, per quanto possa rivelare una potente componente di energia conturbante, rimane sempre una formulazione mentale, né intacca la posizione, sovente pre-giudiziale, dello spettatore.
Prima della bufera dadaista, inoltre, le arti visive utilizzano quei pochi mezzi di comunicazione - pittura, scultura, scrittura - che permettono una conservazione permanente del pensiero, la cui necessità ha costituito un limite, poiché l’espressione di tutte le sensazioni, i sentimenti, le emozioni che esulano dalla sfera visiva è stata tradotta simbolicamente per mezzo di segni grafici - forme e colori - quindi svilendo e snaturando quella parte di realtà vissuta che è estranea agli ambiti del razionale e del visuale.
A partire dagli anni Sessanta l’arte cerca di tornare a una condizione pre-culturale e con le ricerche ambientali, ma non solo, recupera la componente sensuale e comportamentale. La realtà quotidiana diviene il punto di partenza della cosiddetta “estetica diffusa”: la sfera sensoriale viene indagata, sfruttata e trasmessa al fine di recuperarne i caratteri originari, autentici, non snaturata da linguaggi ad essa estranei e priva di qualsiasi idealizzazione. Viene proposto un sentire più umano e completo, quindi più autentico, finalmente salvato dalla dimensione dell’illusorietà. Per queste ragioni le ricerche in ambito spaziale e comportamentistico acquisiscono una diffusione così rapida.
Gli obiettivi comuni delle ricerche possiedono sovente un carattere esplicitamente politico e coinvolgono nello specifico la conoscenza di sé, del proprio corpo o della propria interiorità, oltre che una diversa consapevolezza del rapporto con l’altro da sé.
Questo tipo di sperimentazioni, inoltre, coerenti anche con il contesto degli anni Sessanta, dove la presa di posizione socio-politica diventa ineludibile, non comportano la produzione di oggetti trasportabili e commerciabili, e trovano in questa volatilità un’occasione in più per prendere le distanze dalla dilagante società dei consumi.

NOTA
Anna Peres è nata a Milano nel 1983.
Nel 2006 si è laureata in Scienze dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Milano, con un tesi dal titolo
 Il silenzio ottico. L’ambiente buio in Franco Vaccari.
Coltiva interessi umanistici, si interessa in particolare di linguaggi artistici della contemporaneità, di cinema e di fotografia, e vorrebbe occuparsi di critica d’arte.


Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Francesco Mandrino
Mail art

Più che nei suoi aspetti formali è nelle caratteristiche specifiche che la Mail Art (arte postale o posta artistica) non somiglia a nulla di preesistente che io conosca.
Rispondente ad esigenze individuali già manifestate in vari casi, l'esempio più diretto possono essere le lettere di Van Gogh al fratello Teo, corredate di schizzi e riferimenti diretti al lavoro pittorico, la Mail Art è stata razionalizzata indicativamente nel metodo da Rai Johnson (Detroit 1927 - New York 1995) intorno al 1960, e trasformata in uno strumento di comunicazione o intercomunicazione.
Data l'agilità ed il basso costo della produzione e della veicolazione, interventi manuali (in genere collages) su carta comune trasmessi per via postale, l'assenza di rigide normative e selezioni preventive, la difficoltà di controllo o di censura in qualsiasi condizione, insieme all'aspetto autoriproduttivo che le era proprio, con spiccate caratteristiche esponenziali (in questo va registrata una somiglianza con le tristemente famose "catene di S. Antonio", ma solo per quanto riguarda il meccanismo), il fenomeno non poteva che riguardare fasce larghe ed eterogenee di personalità espressive, seppur marginali ai consorzi istituzionali ed accademici, come a quelli mercantili, che dai primi traggono legittimazioni culturali in cambio di notorietà. Anzi, non di rado i mercanti d'arte avversano questa forma espressiva, cosa del tutto comprensibile poiché, nel caso di artisti ben quotati sul mercato dei collezionisti (Enrico Baj, Shozo Shimamoto ed altri), interventi manuali, diretti e comunque firmati dai maestri vengono scambiati alla pari, per via postale, con i lavori di emeriti sconosciuti che non offrono alcuna possibilità di quotazione.
I messaggi che viaggiano in questo circuito sono per la maggior parte di tipo visuale, il testo ha speso solo una funzione integrativa (ma ciò riguarda il rapporto in cui stanno fra loro, all'interno dell'intuizione, la genialità della concezione e la fatica dell'esecuzione), tuttavia, fra quanti praticano la testualità, è interessante ed apprezzabile l'assemblaggio ottenuto coi titoli di un argomento di spicco o con gli slogan di una campagna pubblicitaria particolarmente martellante, nonché le varie tecniche di accostamento degli stessi.
Nell'insieme dei materiali circolanti nella Mail Art, pure in assenza di correnti minimamente definite, già da un'osservazione superficiale è possibile distinguere due grandi versanti su cui si allinea la produzione internazionale: uno, di cui fanno parte il Nord America, la Gran Bretagna ed il Giappone, che in modo approssimativo ricompone l'area di influenza culturale di lingua anglosassone; l'altro che raggruppa quella di matrice latina, Europa Occidentale, Sud America, con qualche appendice nel Quebec e nei paesi balcanici (l'Europa Orientale non ha un'anima ben definita e l'Islam, che per la sua matrice culturale dovrebbe propendere più per il testo che per l'immagine, è scarsamente presente).
Il primo dei due versanti si caratterizza per l'esaltazione della possibilità di contatto come test della capacità comunicativa, che diventa preponderante e determinante sul messaggio comunicato. Quindi vi si possono trovare assemblaggi costituiti da tickets, adesivi pubblicitari, parti di imballaggio, immagini di vario tipo, in molti casi ritratti del mailartista stesso, ed altri materiali riciclati, i quali vengono riprodotti in fotocopia, a volte numerati ed addizionati del timbro e del logo del mittente, e spediti a decine di destinatari della rete in tutto il mondo, per essere alterati e nuovamente spediti ad altri fino a ritornare al primo, che li espone e quindi li archivia. Ciò che muove la comunicazione e mantiene attivo il circuito, il network, sembra essere dunque il puro desiderio di affermazione della propria esistenza nell'ambito del circuito stesso (in altra sede si potrebbero analizzare le affinità con i graffitisti dello spray).
Il secondo versante, quello latino, privilegia invece il contenuto del messaggio come mezzo per esprimere il concetto. Più strettamente legato al tema, sia esso dato da un progetto comune o scelto in base a criteri individuali, si esprime maggiormente attraverso l'intervento manuale nella composizione di ogni singolo messaggio, ricavandone quindi un originale, il quale, poiché richiede maggiori tempi di esecuzione, viene inviato da un numero più limitato di destinatari scelti con criteri più selettivi. E' in questa particolare accezione che il testo, scritto a mano o riprodotto con varie tecniche, trova maggiori occasioni di inserimento, poiché la velocità di esecuzione diventa meno determinante. Se ne può quindi dedurre che l'affermazione della personalità sia considerata preponderante sulla capacità di comunicazione, e che ciò che muove il meccanismo sia la volontà di stabilire un rapporto di tipo dialettico fra il mittente ed il destinatario. Nel primo caso invece sorge il dubbio che sia ritenuto più importante il perfezionamento del rapporto con il mezzo tecnologico
Qualcuno potrebbe tuttavia avanzare riserve sull'eventualità di considerare la Mail Art come un tipo di scrittura, e se ne potrebbe certamente discutere. In ogni caso si dovrà prendere atto che tali differenziazioni si sono determinate spontaneamente, e che sono riferite, o quanto meno riferibili, a particolari aree linguistiche le quali non possono essere scollegate dall'ambiente nel quale si sono sviluppate, e di conseguenza alla realtà che vi è venuta stabilendosi; il fatto che ciò sia avvenuto fornisce quindi numerosi elementi che possono deporre a favore di un'ipotesi affermativa.

NOTA

Francesco Mandrino è nato a Confienza (Pavia) nel 1948. Dal 1983 vive nella provincia modenese.
Suoi testi sono apparsi su riviste come L'Ortica, TracceOrigini, Offerta SpecialeLo Spartivento, Nuove Lettere, La Clessidra. E' collaboratore del periodico Punto di Vista (Padova) e redattore di Alla Bottega (Milano), per i quali scrive recensioni e articoli.
Dal 1995 è nel circuito della Mail Art con opere di poesia visiva ed è pubblicato, tradotto in francese, da Reparation de Poesie, Canada, che lo invita a partecipare a più Livre d'Artists.
E' presente in diverse antologie. Ha pubblicato versi in plaquettes e in altre forme di agile circolazione, e i libri I Bordi della Notte, ed. Tracce, Pescara 1992 (Premio Internazionale Nuove Lettere 1994), Conta il sambuco..., ed. Joker, Novi Ligure 1995, Kiosa, MMA-agile, Ravenna 1998; La caduta di Milano, ed. Tracce, Pescara 1999, audio/video, MMA-agile, Ravenna 1999.
Dal 1999 presso la sede di MMA tiene l'Officina della Poesia, e dal 2000 Esercizio di Lettura, le cui relazioni vengono pubblicate da MMA-agile. Ha partecipato a numerose letture pubbliche, a spettacoli di poesia e a performances. E' tra i fondatori di MMA MULTIMEDIARTE, a cui collabora con testi e partecipando direttamente alla realizzazione di eventi multimediali.
Il suo nome è nel catalogo ufficiale della 46° Biennale di Venezia 2001, legato al progetto Bunker Poetico di M. N. Rotelli.
Suoi lavori sono presenti in varie raccolte pubbliche in Canada, Siberia, Russia, Spagna, Grecia, Italia (Ravenna) e archivi privati.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
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Sergio Lagrotteria
Intervista ad Adamo Calabrese


- Nel sentire comune, l'illustrazione viene considerata un mero ornamento, una semplice visualizzazione di ciò che è scritto in un libro; quali sono invece, a tuo parere, i veri rapporti tra libro e illustrazione?
Bisogna tornare alle radici della comunicazione, del linguaggio.Gli esseri umani, l'uomo e la donna, dovevano comunicare. I primi tentativi di comunicazione sono stati una miscela tra il dire e il mostrare. I suoni erano inarticolati, approssimativi, e dunque vi era una sorta di alleanza tra la figura e il pensiero. Il ricorso alla figura, all'immagine, era per così dire inevitabile: il segno su una pietra o un segnale di fumo testimoniano questo, come pure gli ideogrammi o la scrittura cuneiforme. Per cui la ritengo una naturale necessità quella fra la parola e l'immagine.
Venendo a tempi più recenti, l'incontro tra parola e immagine lo ritroviamo nei codici medievali, nell'iconografia ecclesiastica. In seguito il rapporto fra libro e illustrazione si è gradualmente allentato, pensando che il libro fosse autonomo, autosufficiente. Io credo che la figura abbia una immediatezza che accompagna e rafforza la parola. Non solo, gli stessi caratteri o gli spazi di un libro sono illustrazione. Quanto a me, posso dire che una mano scrivo e con l'altra illustro e non ti nascondo che mi piacerebbe che a Sesto San Giovanni ci fosse una fiera del libro illustrato.
- Quali sono i tuoi punti di riferimento nel campo dell'illustrazione?
Gustave Doré, naturalmente, ma pure gli altri disegnatori francesi dell'Ottocento: Grandville e Honoré Daumier. Specie Grandville, con le sue figure di animali antropomorfe, mi dà un'idea di romanzo. Venendo all'oggi, mi piace Pericoli: i suoi paesaggi fantastici, fuori dal mondo, per me sono vera letteratura. Apprezzo anche Matticchio, Luzzati e quella bottega straordinaria in cui metto Casiraghy, Ragozzino, Vitale. Infine, non voglio tralasciare Hugo Pratt, che non ha bisogno di presentazioni, e Dino Battaglia con le sue illustrazioni del Gargantua e Pantagruele di Rabelais: il fumetto è il porto estremo dell'illustrazione.
- Ti chiedo un giudizio sul momento attuale della letteratura e delle altre arti. Vedi delle tendenze o autori significativi o una certa confusione accompagnata da banalità o da manierismi tinteggiati con vernice apparentemente nuova?
Il panorama è vasto e vario, ed è difficile dare un giudizio. Posso parlarti di ciò che mi piace: i minimalisti americani ad esempio, da Hemingway in avanti, con la loro prosa precisa, senza fronzoli, di taglio giornalistico. Tra gli italiani, Citati per la sua prosa brillante; Cristina Campo con il suo Sotto falso nome; e poi Tommaso Landolfi, Pizzuto, lettura di pochi, e infine Gadda, innovatore straordinario. Comunque, ripeto, la foresta è folta.
- Tu sei scrittore e illustratore: c'è stato un momento in cui hai pensato che una di queste attività avrebbe preso il sopravvento?
Sono nato scrivendo, però la vita mi fatto conoscere varie figure che ovviamente hanno lasciato in me un segno e mi hanno avvicinato ad altre forme d'espressione. La parola scritta è stata la mia vera vocazione e credo che le mie prove più riuscite siano quelle letterarie. Poi si è affiancata l'illustrazione, che in un certo senso è un modo di raccontare. Posso dire che disegnare mi rallegra e diverte, mentre la scrittura è più sofferta e meditata.
- Perché ti firmi Stradivarius Radesky?
Stradivarius ovviamente da Stradivari, per quella sua mirabile capacità di far produrre suoni ed emozioni con quei suoi "legni" speciali. E io cerco di fare qualcosa di simile con i miei libri di legno illustrati. Radesky perché figura malvista, osteggiata, soprattutto a Milano; d'altronde come si fa a scegliere il nome di un crucco oppressore? E comunque, al di là di tutto, mi richiama il mondo mitteleuropeo e il mio amore per esso.
- Che ne pensi dell'avvento del libro elettronico? Porterà, come si dice, alla scomparsa del libro tradizionale?
Ne penso molto bene. C'è un'evoluzione ed è normale. Lo stesso accadde con Gutenberg. Non ci sarà un scomparsa del libro tradizionale, ma una convivenza, trattandosi di due strade parallele.

NOTA

Sergio Lagrotteria è nato a Sesto San Giovanni, dove tuttora vive e lavora.
E’ laureato in Lettere moderne con una tesi sull'estetica sensistica e il suo influsso sul pensiero poetico e filosofico di Giacomo Leopardi.

Adamo Calabrese (Stradivarius Radesky) è scrittore e illustratore.
Ha esordito con alcune poesie e un racconto sulla rivista
 Il Ponte nel 1959, e ha pubblicato nel 1983 presso Einaudi il romanzo Il libro del Re, ristampato in edizione illustrata nel 2000 (Viennepierre edizioni).
Fra il 1995 e il 2001 ha pubblicato poesie e disegni per le edizioni Pulcinoelefante.
Vive a Sesto San Giovanni.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2003)
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Morena Fanti
Intervista a Salvo Zappulla

Da qualche anno è aumentata la vendita di libri online, anche se ancora in percentuale abbastanza esigua rispetto ad altri paesi. Nello stesso tempo è nata l’offerta di editoria print on demand, cioè i libri stampati nel momento in cui vengono richiesti, abbattendo così molti costi, tra cui anche il costo di produzione di libri spesso invenduti.
Pensa che questo abbia generato un diverso modo d’approccio al libro e alla lettura? Pensa anche che tutto ciò favorisca lo sviluppo dell’editoria tradizionale, o possa, invece, avere l’effetto contrario?
Sicuramente Internet ha rivoluzionato il mondo della comunicazione. Se prima il monopolio apparteneva alle grandi testate giornalistiche, ora anche i piccoli editori ed autori hanno trovato un'alternativa per farsi conoscere. Tuttavia ritengo che il Tempio dei libri rimangano sempre le librerie tradizionali, perché conservano un loro fascino particolare, quasi mistico direi. Non credo molto ai libri stampati in digitale e non credo che possano avere alcun effetto, né in bene né in male, nei confronti dell'editoria tradizionale. Non basta pubblicare un libro per diventare scrittori. Scrittori lo si diventa quando lo status viene riconosciuto dai lettori, ovvero sono disposti a spendere 10 euro per acquistare il tuo libro tra tanti altri. E in ogni caso stampare un libro non può considerarsi la fine di un percorso ma, al contrario, l'inizio. E' necessario tutto un lavoro di preparazione e di programmazione affinché quel libro venga inserito nel circuito della distribuzione.
Alcune piccole case editrici nascono a sostegno di determinate problematiche sociali e di culture emarginate e minori, che spesso nessuno ascolta, diventando così la loro voce, e creando un’editoria di nicchia con guadagni molto ridotti. Questo aumenta le difficoltà di inserimento in un mondo, quello dell’editoria, che spesso è in mano a quattro o cinque grossi colossi e lascia poco spazio per i piccoli, considerando anche le altre grosse difficoltà che ci si trova a dover affrontare, tipo il problema della distribuzione che ha costi molto onerosi. Come ci si può salvare, allora, da un appiattimento dell’offerta editoriale, che potrebbe derivare dal cedimento ed eventuale chiusura di queste piccole case editrici?
Io credo che si possa fare editoria seria anche con mezzi limitati, basta avere le idee chiare, individuare fasce di mercato ben definite e inserirsi con prodotti qualificati che riscontrino l'interesse dei lettori. E' chiaro che il problema principale dei piccoli editori rimane la distribuzione, la poca o inesistente visibilità nelle librerie. In questo caso il web può essere d'aiuto, ma il problema di fondo rimane riuscire a conquistarsi un piccolo spazio nelle librerie. Altra cosa è pubblicare a spese dell'autore, speculando sulle velleità artistiche di persone che magari scrivono bene ma non hanno nulla di importante da dire. In questo caso i piccoli editori, non investendo fondi propri, non hanno alcun interesse a operare una valida selezione e tendono a pubblicare opere mediocri che vanno a ingolfare un mercato già saturo.
L’Italia è sempre stata un paese di scrittori e poeti, ma oggi si assiste ad un vero e proprio boom del numero di aspiranti scrittori, grazie anche alla facilità con cui si possono mettere in rete i propri scritti in un proliferare di siti di scrittura e blog personali, in cui ognuno si può pensare come uno scrittore a tutti gli effetti. La cosa sorprendente di tutto ciò, è che tutti scrivono ma nessuno legge. Secondo lei è possibile pensare di scrivere davvero senza aver letto? Pensa che ci siano degli autori che sono "vincolanti" per arrivare a una conoscenza del modo migliore di sviluppare una buona scrittura?
E' proprio questo il grande limite della rete: chiunque può pubblicare, visto che non costa nulla, tutti sono scrittori e nessuno è scrittore; ci si immerge in un grande calderone dagli ingredienti più disparati. Non sono contrario, ognuno può dare sfogo alle proprie aspirazioni come meglio ritiene opportuno. A livello amatoriale può andare benissimo, ritrovarsi in un sito è una maniera per stare insieme tra persone che coltivano gli stessi interessi, questo vale sia per i siti letterari sia per i siti porno.
Non si diventa grandi scrittori senza aver letto; nella vita non si inventa nulla, non si può costruire una casa senza conoscere gli strumenti di lavoro. Leggere vuol dire confrontarsi, assimilare stili di scrittura diversi, differenti capacità di affabulazione. Non credo ci siano scrittori “vincolanti”, io amo i grandi surrealisti: Borges, Calvino, Kafka, Buzzati. Il deserto dei tartari l'avrò riletto almeno una diecina di volte. Lo sgocciolio lento dei minuti che si consumano, così come la fiammella della vita, in attesa del grande evento, mi fanno venire la pelle d'oca.
Come si concilia il suo lavoro di scrittore con quello di direttore di una casa editrice come Terzo Millennio? Per lei è quasi un percorso "obbligato" per uno scrittore arrivare a occuparsi dell’editoria in tutti i suoi aspetti, o pensa che possa ancora esistere lo scrittore che vive appartato in un suo mondo di parole e non si interessa dei problemi legati al suo lavoro?
Si concilia con il fatto che io amo tutto ciò che ruota attorno alla carta stampata; mi verrebbe da abbracciare anche il più scalcinato dei tipografi. Terzo Millennio è una piccola realtà di cui siamo orgogliosi, ha la sua identità, siamo distribuiti in maniera capillare in tutta la Sicilia e per adesso può essere sufficiente. Abbiamo pubblicato scrittori di ottima qualità quali Gordiano Lupi, toscanaccio dalla penna tagliente e irriverente; Leone Zingales nella collana di educazione alla legalità, che ha avuto un riscontro di vendite al di là di ogni più rosea previsione. Il nostro fiore all'occhiello rimane Roberto Mistretta, tradotto in Germania e oggi conteso dalle migliori case editrici italiane. Ecco, basterebbe l'esempio di Mistretta per dare senso alla nascita di una piccola casa editrice come Terzo Millennio. Tuttavia ci tengo a precisare, proprio perché intendiamo rimanere una piccola realtà seria, che esigenze di mercato non ci consentono di pubblicare più di uno o due romanzi all'anno, dando maggiore spazio alla collana di Recupero delle tradizioni.
Per quanto riguarda lo scrittore che vive appartato, non so, mi sembra una visione piuttosto romantica. A me pare che tutti facciano a gara per apparire in televisione e per conquistarsi un metro di spazio. Lo scrittore è un manager di se stesso. La concorrenza è spietata e bisogna correre per non rimanere indietro.
Si parla spesso di editoria siciliana, mentre non si parla di un’editoria lombarda o emiliana, ad esempio. A cosa crede sia dovuto questo? Al fatto che la Sicilia si sente come slegata dal resto dell’Italia, con problemi che sono sempre e solo suoi, in cui solo i siciliani si possono riconoscere, oppure proprio in un voler rivendicare questa "sicilianità" di cui, mi sembra, lei stesso si fa portabandiera?
La Sicilia geograficamente è posta in una situazione di svantaggio rispetto alle altre regioni, bisogna attraversare il mare per portare i libri dall'altra parte, forse questo è penalizzante. La verità è che tutti i grandi mass media, televisioni e giornali, sono concentrati al nord e tendono a valorizzare i prodotti del luogo. O forse al sud non ci sono grosse realtà imprenditoriali all'altezza di competere con i colossi lombardi o piemontesi. Tuttavia ci sono ottime case editrici che si stanno creando spazio a livello nazionale; tra queste desidero ricordare Il pozzo di Giacobbe, che produce libri di elevato impegno sociale e fiabe per bambini, corredati da una veste grafica elegantissima, che attira subito l'attenzione del lettore. Portabandiera? Piuttosto la croce, porto. La croce di un vizio chiamato scrittura di cui non riesco a fare a meno, come le sigarette.
La Sicilia è da sempre terra di grandi letterati. Grandissimi scrittori sono nati in quest'isola. Ci si potrebbe chiedere se, oltre alla bellezza dei luoghi, che possono influire su una certa ricerca intima da cui possono scaturire poesie e storie di sicura bellezza, abbia influito su questo anche il fatto stesso dell’isola che porta a un isolamento anche spirituale e a un approfondimento di se stessi, di nuovo strada da percorrere per arrivare alle parole. Cosa pensa di queste versioni? Quale ha più pesato sul suo modo di scrivere?
Bufalino parlava di Isolitudine. Forse è la stessa spiritualità a cui fa riferimento lei. In verità non mi sono mai ispirato agli scrittori siciliani nei miei romanzi. Io amo il surrealismo, la scrittura satirica, tutto ciò che è brio, esplosività. Amo immensamente quel geniaccio, non del tutto compreso, di Achille Campanile. Non mi pare che ci sia una grande tradizione di scrittori siciliani in questo campo. Sa qual è la molla che mi ispira? Il fatto di essere convinto di essere il più grande scrittore del mondo. Guai se pensassi che ci possa essere uno più bravo di me. Perderei lo stimolo a scrivere, mi sentirei sconfitto in partenza. Il problema più grosso è riuscire a convincere anche gli altri. (Spero, dopo queste dichiarazioni, che non ci mettano in galera entrambi).
Le agenzie letterarie in Italia sono presenti da non molti anni. In che modo un’agenzia letteraria può essere utile a uno scrittore esordiente? Ritiene che un lavoro di rappresentanza svolto in maniera competente possa essere davvero il punto di forza per presentarsi a una casa editrice e ottenere ascolto e attenzione?
Le agenzie letterarie svolgono un ruolo importantissimo, direi determinante in certi casi. L'agente letterario professionista, che riscuote credito dai grandi editori, esegue un lavoro di ricerca, snellendo il lavoro agli editori, i quali ricevono centinaia di manoscritti da vagliare con costi e impiego di tempo fastidiosi. L'agente conosce le esigenze degli editori, sa qual è quello giusto a cui indirizzare una determinata opera. E' in grado di effettuare un lavoro di editing e dare i consigli migliori al suo autore. Attenzione però a non cadere nella rete di certe agenzie improvvisate che cominciano a chiedere una determinata somma per stipulare il contratto, un'altra per il lavoro di editing e un'altra ancora ad accordo concluso con l'editore trovato da loro. Quasi sempre si finirà nelle fauci di un editore a pagamento che completerà l'opera spillando altri soldi al povero sprovveduto autore, che alla fine si ritroverà con un libro stampato e mai o poco distribuito e con qualche migliaia di euro in meno.
I concorsi letterari sono da sempre uno dei modi più sicuri per farsi conoscere nel mondo dell’editoria e anche ai lettori. Negli ultimi anni il numero dei concorsi ha avuto un grande incremento. Pensa che siano ancora uno strumento efficace per farsi conoscere, o crede che abbiano perso parte del loro fascino, in questo mondo in cui tutto deve essere immediato e di pronto consumo, e che per molti rimanga l’idea che alcuni concorsi e alcuni premi siano in un certo senso pilotati?
Non mi faccia parlare male dei concorsi. Sono arrivato 2° l'anno scorso al premio Massimo Troisi con un'opera teatrale. E giuro che non ero raccomandato. Non amo partecipare ai concorsi, ma questo era all'insegna dell'umorismo e mi ispirava. I concorsi, quando sono gestiti in maniera professionale, con giurie qualificate, possono costituire buoni trampolini di lancio. Astenersi da concorsi dove sono in palio medaglie, pergamene, immaginette della santa patrona, coppe e coppette e ci sono esose tasse di iscrizione da pagare. Meglio se in palio c'è la pubblicazione su un'antologia curata bene. Ne approfitto per segnalare il concorso indetto dalla mia amica Rina Brundu, L'indizio nascosto, quello sì è un concorso serio.

Intervista curata da Morena Fanti

NOTA

Morena Fanti, giornalista tra virgolette e scrittrice tra pixel e byte, vive in una casa immersa negli alberi della campagna bolognese.
Mentre aspetta l'uscita del suo primo libro, collabora al quindicinale
 La voce dell'Isola e alla rivista culturale Pentelite di Salvo Zappulla.
Tutto ciò per un caso del web, e con parole di un amico. In verità, lei scribacchia e si diverte a farlo, che a volte è l'unica cosa davvero importante.
Dal 2001 scrive sul web in vari siti e blog.
Ha collaborato come curatrice alla preparazione dell' Antologia del Concorso di Emozioni di ManualediMari, edizioni Kimerik, presentata alla Fiera del Libro di Torino nel maggio 2007.


Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
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Morena Fanti 
Intervista a Paolo Roversi

QUANDO IL DIAVOLO CI METTE LE MANI, CAMAIORE DIVENTA EMOZIONE E IL NOIR ASSUME I CONTORNI SFUMATI E MISTERIOSI DELLA "BASSA".
Un colloquio con Paolo Roversi

Paolo Roversi, pur essendo anagraficamente uno "scrittore giovane", ha al suo attivo già diversi libri pubblicati. La critica lo definisce da sempre uno dei migliori scrittori emergenti nel panorama nazionale, e ora ne abbiamo ulteriore conferma: Roversi, con il suo romanzo 
La mano sinistra del diavolo (Mursia), ha appena vinto il IV Premio Camaiore di letteratura gialla. Scrittore eclettico, dalla penna facile e dalla vena inesauribile, è capace di passare dal saggio al romanzo noir, al giornalismo, all'informatica.
Roversi è anche grande appassionato di Bukowski, cui ha dedicato già tre libri.
E’ promotore d’iniziative molto interessanti, come il Nebbia Gialla Suzzara Noir Festival, rassegna dedicata alla scrittura di gialli e di noir. Sua è anche l’ideazione e redazione della rivista Milano Nera, un blog tematico in cui si scrive di letteratura di genere, polizieschi & company, cioè il "lato oscuro della scrittura", com’è indicato nella testata del blog.

Incontrare uno scrittore nel momento in cui ha appena vinto un premio è come pasteggiare con un buon Berlucchi: atmosfera frizzante e profumo d’allegria.
La prima domanda che viene in mente è: cosa si prova a vincere un premio? Oppure: ti aspettavi di vincere? Io invece ti chiedo: cosa significa vincere un premio come il Camaiore? E’ un riconoscimento al lavoro svolto e una prova della tua capacità di affascinare i lettori? E’ una conferma di ciò in cui tu hai creduto e credi, o è uno stimolo?

Vincere è bellissimo, come è ovvio. Nel mio caso è stato ancora più gratificante perché non me lo aspettavo. Certo ci speravo, inutile negarlo, ma sapevo che mi confrontavo con un “pezzo da 90” come Marcello Fois e la partita era durissima. Detto questo, ritengo che il premio Camaiore sia un riconoscimento certamente importante che gioverà alla mia carriera di scrittore avvicinando, spero, nuovi lettori al mio lavoro. Lavoro che, tuttavia, deve continuare come se niente fosse. Cerco di non accontentarmi mai: mi sforzo di cercare sempre nuove storie e nuove idee, spinto dalla ferma convizione che il prossimo libro che scriverò sarà il romanzo più bello che avrò scritto.
In finale eri insieme a Katia Ferri e a Marcello Fois. Nella serata della premiazione siete stati protagonisti di un bellissimo dibattito-confronto sui temi dei vostri romanzi. Oltre all’emozione di quella serata così particolare, cosa pensi di queste occasioni di confronto con i tuoi colleghi?
Sono momenti di forti emozioni. Anni di lavoro messi in palio, su un palco, davanti a una giuria. Adrenalina pura. Il tuo romanzo viene passato ai raggi X dai colleghi, e tu passi al setaccio le opere degli altri finalisti per cercare di capire se possono batterti... Insomma, un’esperienza non adatta ai deboli di cuore.
Le storie a sfondo poliziesco hanno spesso una base di verità presa direttamente dalla cronaca nera. Quanto c'è di cronaca nei tuoi romanzi, e quanto di invenzione?
Dipende. Molte idee le prendo dalla cronaca nera, che per i giallisti rimane la principale fonte d'ispirazione, altre invece sono di pura fantasia. Faccio due esempi: in Blue Tango, il mio primo noir, racconto un episodio veramente accaduto e da lì parto per imbastire una storia. Ne La mano sinistra del diavolo, invece, l'episodio fondante della narrazione è pura inventio, anche se non escludo che possa essere accaduto veramente qualcosa di simile.
Bukowski è uno dei tuoi scrittori preferiti. Tu stesso hai affermato che è stato grazie a lui che hai deciso di diventare scrittore. Cosa ti affascina maggiormente in lui?
La capacità di raccontare sempre la stessa storia in maniera originale, mai scontata, e intrigando il lettore. Aprendo uno qualsiasi dei suoi libri il lettore sa già cosa aspettarsi: sesso, alcool e corse di cavalli. Ciò nonostante la storia che leggerà non lo annoierà: solo un grande scrittore può riuscire in questo.
So che ti piace molto anche la scrittura di Scerbanenco. C'è un filo che lega uno dei padri del giallo made in Italy a quello del grande dissacratore zio Buk?
Sono entrambi due grandissimi scrittori. Non li accomuna nulla se non il fatto di essere narratori di razza, ognuno con le proprie storie da raccontare. In maniera esemplare e originale.
Ho letto nel tuo blog che hai tenuto un workshop di scrittura creativa, come ora sembra essere tanto di moda. Voglio farti una domanda provocatoria: non pensi che stia fiorendo un business esagerato attorno a questi corsi? In poche parole: non pensi che sia una maniera di alimentare i sogni di chi, in effetti, scrittore non diventerà mai?
Il rischio senza dubbio c'è. Per quanto mi riguarda io tengo dei workshop, otto ore in tutto, in cui si parla a trecentosessanta gradi di letteratura e scrittura. Un modo per far conoscere il mestiere dello scrittore più che insegnarlo. Cerco di non creare illusioni ed esordisco sempre con un paragone, secondo me calzante; eccolo: “Andare a un corso di scrittura creativa è come frequentare una scuola di musica. Vi può fornire gli strumenti ma non è affatto detto che fra di voi ci sia il nuovo Hendrix o un novello Mozart”. Il principale merito di questi corsi credo sia di stimolare la lettura. Molti arrivano ai miei workshop dicendo che loro non leggono niente perché hanno paura che potrebbe influenzare il loro stile... In realtà l'unico segreto per scrivere bene sta proprio qui: leggere molto e leggere di tutto.
Tu sei un esperto informatico. Oggi Internet è diventato lo strumento di propaganda per eccellenza, forse più della televisione. Sei d'accordo, o pensi che questo mezzo abbia dei limiti?
Non sono d'accordo sul termine "propaganda": su quello televisioni e media tradizionali sono ancora imbattibili. Internet sin dalla sua nascita, e ancora oggi, anche se molte cose stanno cambiando, è principalmente un formidabile strumento d'informazione. Libero, perché nessuno riesce a controllarlo o ad ingabbiarlo anche se, purtroppo, le ragioni economiche stanno cedendo alla censura. Uno dei maggiori motori di ricerca al mondo, ad esempio, pur di mettere le mani sull'immenso mercato cinese ha deciso di fornire agli internauti con gli occhi a mandorla risultati solo alle ricerche gradite al governo centrale...
Stai già lavorando al tuo prossimo libro? Puoi darci qualche anticipazione? I tuoi lettori ne sarebbero felici.
Sto ultimando il terzo romanzo con protagonista il mio personaggio simbolo, il giornalista-hacker Enrico Radeschi. Se in Blue Tango Radeschi non usciva mai da Milano, e in La mano sinistra del diavolo faceva la spola fra la città ambrosiana e la Bassa, in questo terzo romanzo sarà protagonista di una vicenda che lo vedrà costretto a varcare i confini del nostro Paese.
Di più, per ora, non posso dire.

Intervista curata da Morena Fanti

NOTA

Paolo Roversi (Suzzara, 29 marzo 1975) è scrittore e giornalista. Vive a Milano.
Mantovano di origine, nel 1999 si laurea in Storia contemporanea all'Università di Nizza-Sophia Antipolis con una tesi sull'occupazione italiana in Costa Azzurra durante la seconda guerra mondiale.
Studioso di Charles Bukowski, alla sua opera ha dedicato tre libri: la prima biografia italiana scritta con l'aiuto di Fernanda Pivano, un romanzo con protagonista proprio lo scrittore e un libro di aforismi pubblicato nel 1997 nella collana Millelire.
Giallista, è uno degli esponenti del cosiddetto "noir
 metropolitano"; ha pubblicato due romanzi che hanno come protagonista il giornalista hacker Enrico Radeschi.
Ha scritto un libro-guida su Mantova e la sua gente, e un volume umoristico sulla professione dell'informatico.
Collabora con riviste e giornali letterari come
 Rolling StoneDiario, Detective Magazine Stilos.
È fondatore e direttore della rassegna dedicata al giallo e al noir
 Nebbia Gialla Suzzara Noir Festival, che si svolge ogni primo weekend di febbraio a Suzzara.
Dirige il portale Milano Nera - il lato oscuro della scrittura, dedicato interamente alla letteratura gialla.
Ha vinto la quarta edizione del Premio Camaiore di letteratura gialla con il romanzo La mano sinistra del diavolo. Con lo stesso titolo è finalista del Premio Fedeli 2007.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
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Morena Fanti
Intervista a Kai Zen

LA POTENZA DELL'ARIETE IN UNA SCRITTURA A PIU' MANI, SFONDA LA PORTA DELL'INDIVIDUALITA' SOLITARIA
Un colloquio con Kai Zen

Uno dei mestieri più antichi del mondo, il narratore o cantastorie, poi diventato scrittore, da sempre sinonimo di solitudine, introspezione e dialogo con se stesso in un silenzio che dà vita a malinconie e turbamenti, ora diventa un mestiere da vivere in sintonia con altre persone; un mestiere in cui il confronto e la verifica continua con altre voci rende tutto più partecipato e abbatte le barriere di solitudine e “melanconia”, quella così cara ai nostri poeti dei secoli scorsi.
Le nuove S.n.c. - Scrittura in nome collettivo – sono società che maneggiano parole, collettivi di autori che scrivono con modalità inconsuete, in un modo che prescinde dall’individualità e dell’orgoglio.
L’ensemble narrativo Kai Zen, nato nel 2003 in Internet, è un bell’esempio di questo modo di operare e creare. Immergermi nel mondo Kai Zen è stata un’avventura totale, un rimando continuo tra progetti, capitoli, commenti e materiale che si accumulava sulla mia scrivania virtuale. Leggere il loro romanzo La strategia dell’ariete (Mondadori – Strade Blu), che ho opportunamente scaricato da Internet (come è nella filosofia Kai Zen: dare a tutti la possibilità di leggere la loro opera e decidere in seguito di comprarla o meno), è navigare tra storie nella Storia e viaggiare tra epoche e paesi. Una lettura trascinante e affascinante, che fa dimenticare il mondo esterno e sa regalarti l’illusione di essere tu stesso parte della Storia narrata e di viverla con i protagonisti. Un romanzo storico collettivo a forte valenza politica, che ha richiesto 3 anni di lavoro per le ricerche e la stesura, come si evince anche dalla corposa bibliografia che si trova alla fine del volume. Una lettura che vi regalerà nuovi mondi e sensazioni. "Chi incontra il demone muore, chi non muore diventa schiavo, chi non diventa schiavo diffonderà il demone": così recita il lancio di copertina del libro, e io che non voglio morire e ancor meno esser schiava, diffonderò il demone. Un demone chiamato Kai Zen e che possiede otto mani.

- Scrivere in gruppo ha modalità molto differenti dalla scrittura in singolo. Forse si arriva a creare una scrittura che è il risultato delle vostre quattro insieme, cioè una quinta scrittura che diventa la “scrittura Kai Zen”. Questa idea non pregiudica poi che voi possiate in futuro ritornare alla vostra individualità di scrittori singoli?
Non lo crediamo affatto. Si possono benissimo affiancare le due cose senza farsene un problema (a parte che per la riduzione del tempo libero, ovviamente). Un’esperienza nuova di scrittura, collettiva o di altro tipo, è pur sempre un’esperienza, e come tale non può che giovare.
- Internet ha certamente favorito la nascita del vostro gruppo e vi permette di lavorare insieme in tempo reale come foste alla stessa scrivania. Senza la rete i Kai Zen non esisterebbero?
Probabilmente no. Oppure le poste italiane sarebbero molto più ricche.
- Dall’idea di Jorge Luis Borges del «libro totale», con struttura aperta e infinite alternanze di narrazione e voci narrative, sono nati i vostri romanzi totali, compreso quel Ti chiamerò Russell che vi ha fatto incontrare. Prima di questa esperienza, la scrittura era già parte della vostra vita o è stata un seguito dell’avventura?
La scrittura era già parte delle nostre vite. Ognuno di noi ha avuto il suo approccio a essa. Non avremmo partecipato al progetto Ti chiamerò Russell, altrimenti. Alcuni di noi avevano nel cassetto romanzi e racconti, altri sono approdati alla narrativa passando dalla poesia e dalla stesura di testi di canzoni, senza considerare ovviamente che siamo tutti lettori più o meno forti.
- Voi siete sempre in contatto con i vostri lettori, interagite con loro, vi confrontate continuamente. Forse questo è un nuovo modo di accostarsi ai lettori, un modo globale, come lo è l’informazione e la cultura che voi desiderate?
Sei arrivata esattamente al punto. Globale. Adoriamo il globale. Siamo nell’epoca del globale, no? Il mondo è una sfera, neanche troppo grande. Ci interessa tutto, dagli aborigeni dell’Australia agli emarginati dei sobborghi di Glasgow. E vogliamo interagire con tutto e tutti, per quanto possibile. È proprio una strategia, come hai intuito. Che ci farà impazzire un giorno, con ogni probabilità, ma per il momento ci diverte.
- Nel vostro collettivo, come anche in altri già esistenti, i componenti sono tutti al maschile. E’ una scelta, un caso, o un’esigenza?
Un puro caso. Quando abbiamo iniziato non c’erano donne in giro. Anche se in effetti alcuni di noi, conoscendolo solo via mail, pensavano che Jadel fosse un nome femminile. La delusione, una volta visto Jadel dal vivo, è stata tremenda... Esistono anche scrittori collettivi in parte al femminile. Tra quelli pubblicati o in via di pubblicazione ci sovvengono su due piedi Blitris, Ippolita, Sal Cappalonga e se vogliamo Micheal Gregorio. Nel corso degli esperimenti del romanzo totale poi si sono formati almeno due gruppi di scrittori “misti”, come Emerson Krott o l’Impresa Edile Dispaccio che per due terzi è al femminile.
- Prima di essere Kai Zen, ognuno di voi aveva autori amati e teneva i suoi libri sul comodino. Che effetto vi fa sapere che gli autori che ammirate, ora hanno i Kai Zen sul comodino?
Come fai a sapere che Camus e Cioran hanno il nostro libro sul loro comodino nell’aldilà? L’effetto in realtà è bizzarro. C’è da dire anche che molti autori che ammiriamo sono diventati, nel corso del tempo, amici, e questo ha reso molto più naturale il pensiero che possano leggere le nostre cose come noi le loro. La situazione attuale del panorama letterario/narrativo italiano è davvero particolare. Molti scrittori comunicano, si scambiano consigli e punti di vista sui rispettivi lavori senza problemi o invidia. Nel corso degli ultimi anni si è venuta a creare una specie di rete, per fortuna non ufficiale, né istituzionalizzata, attraverso cui chi scrive (ma anche chi legge) è in contatto con vari autori o può venire in contatto con essi senza problemi. Sembra si sia compreso che la cosa importante è la storia, non chi la scrive. L’autore in questo modo ha perso l’aura che lo rendeva una figura eterea, a cavallo tra la stella del cinema e l’intellettuale dei tempi passati.
- State già progettando un nuovo romanzo? Pensate che la vostra scrittura rimarrà legata a romanzi come La strategia dell’Ariete, in un certo senso più adattabili a una scrittura collettiva, perché così ricchi di personaggi, situazioni, epoche diverse, oppure tenterete anche altri “generi” letterari?
Siamo già al lavoro su un nuovo romanzo, che però avrà una struttura diversa dalla Strategia dell’Ariete, più lineare. Certo, il racconto ‘corale’ è ancora ciò che ci interessa, e le atmosfere saranno sempre tese e cattive, ma questa volta esploreremo altri lidi e come al solito mischieremo il tutto fino a quando non saremo soddisfatti. Ci piace giocare con i generi, con i cliché e con gli stereotipi, come ci piace indagare l’animo umano, e questo sarà un tratto comune del nuovo lavoro come lo sarà l’aspetto avventuroso, anche se forse sposteremo l’ago della bilancia dal New Weird al thriller. A fare da collante alle vicende saranno probabilmente gli stessi tre concetti che ci hanno ossessionato nella stesura del primo romanzo: storia, destino e conflitto.
- E, infine, cosa significa per voi essere Kai Zen?
Guglielmo: significa andare in giro a dire che faccio parte di una band. Fa molto figo fino a quando la gente non capisce che facciamo libri e non dischi. Significa sentirsi parte di qualcosa che funziona e che è pure divertente. Significa una specie di famiglia di squinternati che parlano in continuazione di cose che non esistono litigando come matti. Insomma, è uno spasso.
Aldo: vuoi dire cosa significa essere la colonna portante dei Kai Zen? In effetti è una bella responsabilità… scherzi a parte, è stato per me il modo per avvicinarmi a tanti mondi che ritenevo lontani dal mio gusto e dal mio immaginario e che invece mi interessano sempre di più. Un modo per crescere ancora (non fisicamente, purtroppo) e aggiungere conoscenza al mio piccolo bagaglio.
Jadel: avere la possibilità di esagerare. Buttare nel calderone un’idea assurda e sentirsi dire "si può fare, da dove cominciamo?" Se ci ripenso mi sembra ancora impossibile. Prova a immaginare la scena: dunque, c’è una sostanza misteriosa che in molti credono un “demone” che solca i millenni custodito da alcuni fanatici. Siamo nella Cina degli anni ‘20 e qualcuno sta cercando di venire in possesso del potere di questo “demone” che in qualche modo è arrivato in quelle lande. E se l’azione si spostasse poi nel Sudamerica degli anni ‘40 e nel deserto del Texas alla fine dei ’50? Sì, ma il tutto comincia nel 2500 a.C. in Egitto...
Bruno: Significa continuare a esplorare in ogni senso me stesso, gli altri, il mondo, far parte di un gioco sempre nuovo, significa non dover rispondere alla domanda: "cosa fa di lavoro?" Faccio il tecnico video, ma anche lo scrittore!!! Ce l’ho perfino scritto sulla carta d’identità, se non ci credono...

Intervista curata da Morena Fanti


NOTA

Kai Zen è un ensemble narrativo nato nel 2003. Realizza progetti di scrittura collettiva come romanzi, racconti, articoli, recensioni musicali ed è formato da Jadel Andreetto, Bruno Fiorini, Guglielmo Pispisa e Aldo Soliani. I quattro, che vivono sparsi sul territorio italiano - Bolzano, Bologna, Messina, Milano - rappresentano stili di vita e immaginari differenti. Hanno ideato vari progetti di scrittura collettiva e curano alcuni siti internet: http://www.kaizenlab.it/ per i loro progetti, http://www.romanzototale.it/, in specifico per gli esperimenti di romanzo aperto alla partecipazione dei navigatori della rete, e il sito dedicato al libro La strategia dell’ariete, partecipativo, con approfondimenti, curiosità, parti tagliate ecc., aperto in concomitanza con l'uscita in libreria del volume.
Hanno pubblicato nel 2005 
Spauracchi e La Potenza di Eymerich (in collaborazione con Valerio Evangelisti). Da solista Guglielmo Pispisa ha pubblicato il romanzo Città Perfetta (Einaudi 2005). La strategia dell’Ariete è il loro primo romanzo.
Tutto il materiale prodotto dai Kai Zen viene pubblicato e diffuso in COPYLEFT, cioè liberamente scaricabile da Internet e disponibile per uso non commerciale da parte degli utenti, con licenza
 creative commons.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Morena Fanti
Intervista a Daniele Barbieri


DI BUONI SENTIERI E' LASTRICATO IL MONDO. E ANCHE IL FUTURO.
Un colloquio con Daniele Barbieri

Una serata in una tranquilla biblioteca di paese nei dintorni di Bologna.
L’occasione è una conversazione con l’autore, che in questo caso è Daniele Barbieri. Niente di più sicuro e "normale", così almeno sembra. Ma l’imprevisto è spesso dietro l’angolo. Visioni pericolose e penultime verità sono sempre in agguato, in questo come in un altro mondo, o meglio ancora, in un mondo altro.
Potrei dirvi che sono stata folgorata da un uomo e dalle sue parole e sono sicura che mi credereste. E forse è davvero così, qui dove tutto è possibile.
Barbieri presentava il libro
 Di futuri ce n’è tanti (per Avverbi editrice), da lui scritto in coppia con Riccardo Mancini, un libro che è “una sorta di guida alla fantascienza” come scrive Valerio Evangelisti nella prefazione. Non avevo mai letto nulla di fantascienza e ho ascoltato con occhi particolarmente attenti l’affascinante esposizione di Daniele Barbieri, che è un vero esperto di questo genere letterario.
Mentre lo ascoltavo pensavo che forse la mia ritrosia verso queste letture era dovuta al fatto che nessuno mi aveva mai introdotto su questi “sentieri di buona fantascienza”. Ho pensato che ciò poteva essere accaduto anche ad altri e che spesso per interessarsi di un argomento serve solo una buona guida.
Una buona guida e risposte interessanti. Credo che Daniele Barbieri ce ne fornirà alcune.


Si dice che la fantascienza stia passando un momento di flessione nei gusti e nei favori dei lettori. Cosa ha provocato questa diminuzione d’interesse per un genere letterario che in altri anni è riuscito a generare grandi entusiasmi e grandi fermenti?
Partiamo dall’inizio? La fantascienza ovviamente è letteratura, dunque il suo principale valore è nelle buone storie e/o in una scrittura di qualità. Ma nasce, cresce, diventa “di massa” e si aggroviglia all’interno del secolo in cui trionfano la scienza e la sua cuginetta, la tecnologia. Il ‘900 delle grandi speranze e dei grandi incubi, anche rispetto alle scienze portatrici di libertà o di nuove oppressioni. Qui forse si può mettere un punto fermo. Detto in estrema sintesi, a me e a Riccardo Mancini sembra che la crisi (poi bisognerebbe chiarire meglio questo concetto) della fantascienza nasca all’interno di un più generale buio, cioè dall’idea diffusa che la storia stia “deragliando” e le speranze, i progetti, le grandi possibilità democratiche e/o sovversive della ricchezza sociale (intellettuale e materiale) vadano dimenticate. E’ un discorso lungo e non vorrei, per eccesso di sintesi, ridurlo a slogan, ma è chiaro che il pensiero unico vigente sta censurando e bloccando molte teste oltreché scrittori, scrittrici, editori… Io e Riccardo siamo fiduciosi che la fantascienza possa ancora aiutarci e, più in generale, che (per dirla con Eduardo De Filippo) "ha da passà 'a nuttata". Da qui la voglia di ricordare – urlare forse - che di domani ce n’è davvero tanti. Ricordarlo leggendo anche buoni romanzi e racconti è un modo piacevole per impiegare un po’ di tempo e per slacciare qualcuna delle catene attorno al nostro pensare e vivere».
Se leggere un buon libro ci spalanca le porte di un mondo nuovo e ci apre la mente, cosa può fare per noi un buon libro di fantascienza?
Per usare la citazione di uno dei nostri amori (ovvero scrittori e scrittrici che ci hanno preso al laccio), cioè Theodore Sturgeon, il compito della buona fantascienza è “svegliare il mondo sull’orlo dell’impossibile”. La quarta di copertina tuona e sussurra (parole di Marge Piercy) che “per conquistare un futuro bisogna prima sognarlo”. In questo intreccio proviamo a mostrare per otto sentieri (i temi sono: città, robot, computer e dintorni, cyborg, religioni, sesso, amore e x, galere, il potere) queste potenzialità. E’ ovvio, gentile intervistatrice (detto con sorriso alla gatto del Cheshire, ndr) che se io ora le riassumessi tutto, beh, l’intervista verrebbe lunghetta e poi non venderemmo una copia in più (questa la dico con tono da bottegaio ruffiano). Semplificando: la buona fantascienza è piacevole, necessaria e direi persino urgente. Wow.
Scrivere di mondi inventati, di un futuro spesso temuto, è solo opera di una fantasia molto vivace o è anche legato ai timori che dobbiamo tollerare nella nostra anima e nella nostra vita? La scrittura diventa allora come una forma d’esorcismo?
Mmmmmm. Io e il mio socio di scrittura crediamo (non è una gran scoperta, intendiamoci) che gli esseri umani siano sempre divisi fra paure e desideri. La percentuale di questi timori e speranze varia, ovviamente, a seconda delle persone e delle loro esperienze, del contesto storico e sociale, delle informazioni alle quali possiamo accedere o delle molte importanti di cui (pur se viviamo in democrazia) ci è negato disporre. Ogni scrittura è forse anche un esorcismo. E anche azzeccare le paure vere (non quelle strumentali agitate dal circo mediatico e dalla cattiva politica) è importante. La migliore fantascienza ci sfida a verificare paure e desideri su un’onda lunga, su alcuni dei possibili mondi che possiamo conquistare o perdere. Che la scrivano persone con competenze scientifiche o meno, che siano odiosi reazionari, simpatici riformisti o pericolosi-affascinanti sovversivi, importa questo costringerci (in forma letteraria e appunto piacevole) a fare i conti con domande del tipo: “e se davvero succedesse?” oppure “se potessi scegliere un universo alternativo quale davvero vorrei?” o cose del genere. Piccola polemica: che poi noi viviamo la “nostra” vita (lei usa questa espressione) e non quella imposta da altri, è una importante e drammatica questione che andrebbe seriamente discussa e non solo da romanzieri, psichiatri o politici.
Quanto il nostro vivere nel mondo reale, e cioè la politica, l’economia, i problemi sociali, influiscono su una scrittura fantascientifica?
L’uno e l’altro. La fantascienza influenza il reale e viceversa. Per me – e credo di poter dire anche per Mancini – non è buona cosa vivere (e/o scrivere) con tutti e due i piedi nel cosiddetto mondo reale, e neppure interamente in una dimensione fantastica: l’ideale è stare un po’ qui e un po’ lì.
Credo si possa dire che Philip K. Dick sia uno dei suoi autori preferiti, se non il preferito in assoluto. M’incuriosisce sapere cosa lo rende così eccezionale. Per dirla come una donna tradita dal marito: cos’ha Dick che gli altri non hanno?
Per proseguire sulla metafora Dick è il mascalzone geniale che tutte e tutti vorrebbero amare, salvo ogni tanto sbottare con un “questo è troppo” per poi tornare a ri-innamorarsi. Ma se di amore vogliamo continuare a ragionare, io e Mancini confessiamo tre grandi passioni (Dick, Sturgeon e Ursula Le Guin) più una scandalosa quantità di flirt. Provare per credere.
Qual è il libro che consiglierebbe a chi non ha mai letto nulla di fantascienza? Non le chiedo il libro che lei ama di più, ma un libro che faccia pensare: “Com’è che non l’ho letto prima? Cos’altro mi sono perso?”
E’ una domanda-trabocchetto. Dovrei rifiutarmi di rispondere, anzi toglierle il saluto. Oppure rispondere che il mio primo choc fu con Cristalli sognanti di Sturgeon: avevo, mi pare, 13 anni e da allora continuo a regalarlo o prestarlo. Una sola persona - su credo davvero centinaia - non mi ha ringraziato. Ma ci sono cascato, sto parlando di passioni e svicolo sul suo amo, sulla rete tesa. Però, gentile intervistatrice, sia franca con me: se un bipede le dicesse che non ha letto Calvino e Pasolini, oppure Shakespeare e Toni Morrison, oppure Farah e Scorza…. lei avrebbe il coraggio di dire “Ti sei perso questo”? No, credo che onestamente parlerebbe di mondi e mondi e mondi da esplorare.
Lei ha scritto Di futuri ce n’è tanti in coppia con Riccardo Mancini, e sembra anche che il libro vi sia riuscito bene ;-) e che la vostra "coppia" Erremme Dibbì funzioni, almeno per quanto riguarda la scrittura. In una società in cui nessuna coppia resiste e in cui tutti litigano, non è già fantascienza che due scrittori riescano a lavorare insieme?
E’ ancora più sorprendente, forse, che a volte (nei momenti più tranquilli o all’opposto nelle urgenze più agghiaccianti) quando io e Riccardo lavoriamo insieme esca fuori una terza persona, idee e persino un modo di scrivere che non è la somma di Barbieri e Mancini ma appunto Erremme Dibbì. Fra l’altro, come ha notato qualche persona molto attenta, questa terza persona ha alcune caratteristiche femminili… che invece noi due, maschiacci nel bene e un po’ anche nel male, neppure sapevamo di avere.

Intervista curata da Morena Fanti

NOTA

Daniele Barbieri, giornalista e saggista, è nato a Roma nel 1948. Attualmente vive a Imola.
Da sempre impegnato nei movimenti per la pace e per la giustizia, ha lavorato per numerose riviste e per i quotidiani Il Manifesto e L’unione sarda. Attualmente è redattore del settimanale Carta.
Di recente ha animato l’agenzia online Migra; nel 2005 è uscito, pubblicato da Emi, il libro Migrante-mente - il popolo invisibile prende la parola (curato da Sabatino Annecchiarico), che raccoglie scritti di 25 fra autori e autrici, per lo più migranti, ripresi dal sito.
Come reporter, e come persona impegnata contro le guerre, è stato nei Balcani, in America Latina, in Africa e nell’aprile 2002 in Palestina-Israele e più volte in Africa (anche come “osservatore elettorale” nelle recenti elezioni in Congo).
Ha un omonimo che insegna all’università ed è appassionato anche di fantascienza: spesso i due vengono confusi ma loro sorridono e non si offendono. Quel particolare Daniele Barbieri qui intervistato è papà di Jan e marito di Tiziana e di entrambe le cose si vanta assai (almeno per 351 giorni l’anno). Siccome ha un’incredibile faccia tosta, pur non essendo un attore porta in giro due letture… tra fantascienza e cronaca: ma lo spazio a nostra disposizione è finito, tenetevi la curiosità.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Alessio Luise
Intervista a Claudio Orlandi

LUISE: come nasce il progetto PANE, quali sono i riferimenti culturali e le aspirazioni del vostro operare artistico?
ORLANDI: nel 1992, quando mi sono incontrato con Maurizio Polsinelli (il nostro pianista), avevamo delle vaghe idee in testa, ma principalmente vivevamo la musica come una possibilità concreta di sfogare la nostra indole creativa. Suonare era indubbiamente anche un modo piacevole e non comune per condividere delle ore e rendere prelibato del vino di scarsa qualità. In generale una sorta di svago creativo. Col tempo le cose non che siano cambiate radicalmente, ma sicuramente hanno acquistato dei contorni più precisi. Il mio interesse per il mondo dell'arte è cresciuto sempre più, e la musica ha acquistato progressivamente un'importanza centrale nella mia vita. Il PANE m'è cresciuto addosso come una seconda pelle. Quando si suonava, per me e Maurizio, il piacere era prima tutto il vederci suonare insieme, godere di taluni passaggi o sfumature sonore. E' un principio tutt'ora valido, oserei dire fondamentale. Per questo motivo era assurdo mettersi alla ricerca di musicisti per allargare il gruppo. Eravamo eventualmente interessati a delle persone, non a musicisti. Il caso ha voluto che incontrassimo Vito. Un tipo curioso e taciturno, ma con dei gusti musicali molto simili ai nostri. Fondamentalmente ci interessava il suo modo di stare al mondo. Prendemmo a provare con lui alcuni brani, finendo spesso per perderci in lunghi corpi sonori monotonali... a volte rimanevamo in una sorta di trance sonora per molti minuti e quando con la bava alla bocca ne uscivamo ci si guardava in faccia sfiniti e sorridenti. Abbiamo lavorato in tre per molto tempo. Facevamo uno, due concerti l'anno in posti improbabili, una sorta di esibizione per gli amici al fine di saggiare gli effetti della nostra musica. Non che ci spaventasse il pubblico, semplicemente non era ancora chiaro cosa volessimo fare. Le idee erano molte ma contorte, la tecnica non ancora sufficiente e le cover non ci interessavano. Pezzi proponibili ne avevamo pochi e incerti... mesi e mesi di sala prove... (per un periodo abbiamo provato con una ragazza alla batteria, ma poi ci ha lasciato per incompatibilità stilistica). E' col tempo che abbiamo acquistato una sempre maggiore padronanza nel canalizzare la nostra espressività, e soprattutto coscienza dei nostri obiettivi artistici. Claudio Madaudo e Ivan Macera sono stati gli altri due incontri che il fato ci ha consegnati per rafforzare il PANE... In effetti è da poco tempo che con la formazione completa stiamo proponendo il nostro lavoro. Difficile tratteggiare in poche righe i riferimenti culturali e le aspirazioni artistiche che sottendono il progetto PANE. Mi limiterò ad un accenno che ritengo importante: nell'opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma, la pianista che accompagna i racconti delle Signore nei vari gironi, non sopportando più la violenza dei fatti si suicida gettandosi dalla finestra di una delle stanze. E' la scena che più mi ha colpito del film e sulla quale ho riflettuto e continuo a riflettere ancora oggi... Nel mio modo di concepire l'esperienza artistica, essa non dovrebbe mai accompagnare e rallegrare il banchetto dei carnefici, né soccombere di fronte alla violenza e al ricatto. Le sue risposte possono essere il silenzio o la lotta - Pasolini non amava certo tacere... L'arte è la nostra possibilità di esistere dignitosamente, la via parallela alla conoscenza, la voce chiamata a testimoniare delle umane libertà. E' compito del singolo "artista" concepirsi in quanto tale ed imporsi nella sua dignità.
LUISE: la vostra proposta può essere definita dilapidatoria... difficilmente utilitaristica... seppure sia distante l'allineamento alle influenze diffuse delle tendenze più in voga nel panorama musicale attuale, PANE offre un cd generoso e coinvolgente, credibile, dinamico e ricco di una certa emotività difficilmente reperibile nei lavori dell' arte ufficiale. Quale idea ti sei fatto della discografia italiana, dell'industria culturale nazionale?
ORLANDI: in primo luogo ti ringrazio per le tue considerazioni intorno al nostro lavoro. In effetti, rispetto ai concetti da te espressi, non capisco come una proposta artistica, se realmente tale, possa definirsi "utilitaristica". Ma il punto è proprio questo, la maggioranza delle proposte che oggi investono quella che tu definisci "arte ufficiale" non sono affatto proposte artistiche. Sono offerte d'altro tipo che rispondono a determinati modelli e convenzioni. Non mi riferisco solo ai grandi nomi del panorama nazionale e internazionale, ma anche a parte di quell'area che si autodefinisce indipendente e che nei fatti riproduce su scala inferiore la realtà che pretende di criticare. Per molti l'obiettivo principale è imporsi, non cambiare le cose. Il sempre minor coraggio nelle scelte artistiche, e l'adozione di modelli preconfezionati da scimmiottare alla meno peggio pur di rendersi visibili e riconoscibili, sono dati evidenti che rendono il panorama poco confortante; ma ciò che davvero più annoia è la percezione della quasi totale estinzione della possibilità di concepire il cambiamento... cosa che soprattutto nel campo artistico dovrebbe essere un principio portante. In generale basterebbe riflettere sul termine "industria culturale" per capire di cosa si tratta e quali siano i suoi principali obiettivi.
LUISE: i raffinati riferimenti letterari e il sostrato colto delle musiche è ben calibrato dalla tua interpretazione carismatica e teatrale dei testi. Di quali autori ti sei occupato fino ad ora? Chi vorresti trattare in futuro?
ORLANDI: questa domanda mi permette di riallacciarmi al primo tema affrontato. Quando ho iniziato a cantare, o meglio dire a usare in qualche modo la voce (visto che cantare è cosa difficilissima), l'ho fatto per amicizia verso dei carissimi amici, una sorta di favore a tempo più o meno determinato. Sin dal primo momento però ho avvertito nell'emissione del suono una straordinaria possibilità di assaporare la libertà. Avevo percepito questa forza istintivamente ed in maniera quasi violenta la prima volta che ascoltai la voce di Jim Morrison (dico istintivamente perché in casa mia non si ascoltava generalmente musica, e non c'era dunque un'educazione all'ascolto o un orientamento verso un genere in particolare). Per certi versi posso dire di essermi "formato" per mezzo della sua poetica e delle sue intuizioni artistiche. Senza dubbio in quegli anni ho appreso dei valori che tutt'ora sento di seguire, ma è stato col tempo e con una ricerca personale che mi sono avvicinato sempre più ai miei suoni e soprattutto alla comprensione della voce come massimo strumento di libera espressione artistica. Un sentimento non facile da esporre. Per quanto attiene ai testi, sebbene amassi molto "cantare" le parole di alcuni poeti che allora leggevo frequentemente, ho preso quasi subito a scriverne da me. Dopo una primissima fase in cui ho usato l'inglese, mi sono scontrato con la difficoltà della lingua italiana. Una difficoltà di cui mi sono in seguito innamorato. Come non rimanere affascinati dalle straordinarie capacità di lavorare la nostra lingua da parte di un Giovanni Lindo Ferretti o di un Franco Battiato? Un modo, il loro, di concepire la scrittura e l'esperienza artistica in genere che mi ha sicuramente influenzato. Stranamente mi sono sempre sentito distante da autori come Guccini o De Andrè - di quest'ultimo solo da poco ascolto i lavori, in particolare gli ultimi, che credo siano meravigliosi. In generale non saprei dire cos'è che mi spinge ad occuparmi di un autore piuttosto di un altro. Improvvisamente un tema, una figura, un pensiero inizia a lavorarmi nella testa. Spesso in simultanea diversi spunti si contorcono l'uno sull'altro, alcuni si perdono, altri vengono lasciati a stagionare, altri pretendono di essere nel presente della mia vita in quel momento e mi lascio attraversare dalle loro forze... è come venir dilaniati per poi ricomporsi, con la coscienza di non essere più lo stesso di prima. Due autori che ultimamente mi hanno colpito con grande forza sono Antonio Porta e Victor Cavallo, dei quali infatti abbiamo musicato alcuni testi.
LUISE: la dimensione live pare essere fondamentale per un progetto di questo tipo; come gestite lo spettacolo e le rappresentazioni dal vivo?
ORLANDI: non mi è facile rispondere a questa domanda. In effetti le rappresentazioni dal vivo sono per noi molto delicate. Ci sono diversi elementi da curare. La formazione tecnica, la resa fisica, la preparazione mentale. In genere proviamo molte volte prima di un concerto, cercando di curare al meglio gli arrangiamenti e le sfumature sonore. Spazi sono lasciati all'improvvisazione, ma è più qualcosa che ha a che fare con le nostre capacità/necessità emozionali che non con l'esecuzione vera e propria. In relazione ai nostri obiettivi acustici, cerchiamo nei limiti del possibile di conoscere il posto in cui dovremo esibirci e il tipo di pubblico che ci troveremo davanti. Non tanto il repertorio, ma l'approccio stesso al concerto può variare sensibilmente. Sul palco esigiamo dal pubblico un certo grado di attenzione per non dire rispetto, nel senso buono del termine. La nostra è più un'esposizione che una vera e propria esibizione. Proprio per questo ci sentiamo in dovere di rispettare il pubblico esponendo i pezzi al meglio delle nostre possibilità. Credo che ci debba sempre essere un motivo plausibile per il fatto di essere su un palco... del resto là sopra ci giochiamo la nostra credibilità artistica nonché il nostro equilibrio psico-fisico...
LUISE: PANE... con la poesia non si mangia, oppure di poesia si vive?
ORLANDI: oggi si sente spesso parlare di poesia, e sempre più persone dedicano ore della propria giornata alla scrittura di piccole frasi, riflessioni, testi di vario genere, che con un po' di buona volontà potremmo far rientrare nell'ampia categoria di Poesia. Il grande successo dei blog testimonia questa necessità di espressione delle persone (e sottolineerei il termine "espressione", in contrapposizione al comunicare, termine che non uso volentieri e che ormai viene indicato come l'obbligo morale a cui ognuno deve sottomettersi per guadagnarsi una sorta di patente d'esistenza!). Ma a ben vedere, in una società come la nostra quale ruolo è riconosciuto alla poesia? E allargando drammaticamente il discorso, quale il ruolo riconosciuto all'arte e alla cultura in genere? Vedo già scuotere le teste... Diciamocelo francamente, viviamo in una società in cui tutto ciò che non porta profitto è relegato ai margini. Chi oggi, in un modo in un altro, non produce un reddito quantificabile in denaro, non solo non viene apprezzato ma viene visto come inutile, o peggio come una forma parassitaria di esistenza. Spesso chi ha la pretesa di occuparsi di cultura rientra in questa categoria. Gli stessi blog, nonostante le enormi potenzialità, sembrano in definitiva sempre più degli orticelli lasciati in concessione alla sempre più ristretta libertà/possibilità d'espressione, che non piattaforme di discussione da cui prendere il via per azioni concrete - come spesso vengono presentati o vorrebbero che siano taluni "pensatori" post-moderni ormai completamente confusi tra realtà e virtualità, se non asserviti alle logiche del dominio mediatico. Non si tratta di una situazione circoscritta ad un campo specifico. In ogni settore dell'odierna società, qualsiasi esso sia, vedremo la sua dimensione culturale confinata ad un livello inferiore rispetto all'asse trainante. Il risultato inevitabile è che sempre meno ci si impegna per incentivare iniziative che abbiano la cultura al cuore dell'attività. Ma quale futuro ha una società di tal fatta? Dobbiamo dunque rassegnarci a un società senza cultura e senz'arte, in cui troverà spazio solo l'arte ufficiale, finanziata e voluta dal sistema - la pianista di Salò per intenderci - che è in ultima istanza la negazione dell'arte in quanto espressione di libertà? Rassegnarci a un abbrutimento totalitario, a un'involuzione? Purtroppo chi oggi crede di poter cambiare il mondo con la poesia e l'arte in genere non è nemmeno più un utopico rivoluzionario, ma al limite un povero sognatore, se non un emarginato. Guardiamoci attorno senza false illusioni. Interi paesi in preda alla barbarie più cieca. Milioni di vittime innocenti calpestate dal diritto del più forte. Nel nostro paese in particolare, un'aggressiva forza reazionaria e oscurantista sta demolendo le conquiste di decenni di faticosissima dialettica democratica. Una viscida alleanza tra affaristi senza etica, fascisti, "fondamentalisti cattolici" e rozzi analfabeti sta stritolando la società civile... Qual è dunque il ruolo dell'arte? Chi questo mondo non vuole cambiarlo ma dominarlo, sa bene che di tante cose un uomo può privarsi, ma non del pane quotidiano. La difficoltà è sempre la stessa, da sempre. Riuscire a poter vivere della propria arte. Se non si riesce a mangiare con la propria arte si sarà costretti a guadagnarsi da vivere con altri lavori. Ciò purtroppo renderà sempre più difficoltosa una professionalizzazione del proprio lavoro artistico, allontanando la possibilità di intervenire concretamente sull'assetto culturale di riferimento. Ma questo è proprio l'obiettivo di chi detiene le regole del gioco, di chi desidera ignoranza e sottomissione, non conoscenza e libertà. E' un circolo vizioso con cui tanti si trovano a fare i conti... non sempre si riesce a tenersi in equilibrio in questa precaria situazione. Diciamo allora che di Poesia si resiste...
LUISE: sul vostro sito c'è una sezione dedicata alla questione palestinese... Numerosi artisti affermati invece preferiscono parlare solo dei loro successi o delle loro cronache rosa... in un mondo in cui molti non hanno il pane, non trovi che essere artisti individualisti e disimpegnati sia offensivo?
ORLANDI: quando abbiamo ideato il sito, accanto alle voci consuete che si inseriscono in un sito del genere era mia intenzione inserire uno spazio aperto e in movimento dove poter raccogliere frasi, immagini, luoghi che in qualche modo fossero collegati con il nostro modo di concepire l'esperienza artistica e la responsabilità che ne consegue. Una sorta di grande quadro semantico nel quale convogliare le nostre riflessioni, gli umori nei riguardi della realtà che ci circonda. Abbiamo dato il nome di Visioni a quest'area del sito. Dopo la morte di Arafat, ci siamo sentiti in dovere di ricordare la sofferenza di un popolo che negli anni è stato vittima di orrori e usurpazioni intollerabili sotto ogni punto di vista. A tal proposito abbiamo inserito un breve ma intenso testo della poetessa palestinese Fadwa Tuqàn, che a mio avviso testimonia in modo puro e vibrante il legame degli uomini con la propria terra natia. Da poco abbiamo inserito una pagina dedicata alla repressione che il regime cinese opera sugli intellettuali dissidenti del paese. Nei limiti di spazio concessi, cercheremo di rendere visibili tutte le visioni in un archivio a esse dedicate.
LUISE: nel testo di Incudine tratteggi un'inconsueta similitudine tra pelle e ferro, il tutto calato nelle trame di un affresco musicale molto sensuale. Spesso poi fai uso nelle liriche di contrasti di luce e buio, pieni e vuoti, calore e freddezza, ben riflessi dagli arrangiamenti della band. Le meccaniche dialettiche del vissuto e la frazionarietà dei vissuti influenza la vostra composizione?
ORLANDI: se ben intendo la tua domanda, mi chiedi come la realtà del nostro vivere quotidiano finisca per influenzare le composizioni. Evidentemente dovrei estendere la domanda al resto del gruppo... Personalmente credo sia importante sottolineare le nostre comune origini "popolari". Proveniamo da famiglie di lavoratori e viviamo nei quartieri periferici di Roma. E' un dato su cui riflettiamo spesso, e a cui ci sentiamo particolarmente legati. Per quanto riguarda testi e arrangiamenti mi fa molto piacere che tu abbia sottolineato questo "gioco" dei contrasti. E' una caratteristica su cui ci piace lavorare. Assieme alla scelta di attenersi il più possibile a sonorità acustiche, risponde alla nostra esigenza stilistica di mantenere le composizioni - anche quelle apparentemente più surreali - il più possibile vive ed aderenti alla realtà. La credibilità del nostro lavoro è un principio che abbiamo sempre in mente, e che probabilmente abbiamo assorbito vivendo a contatto con determinate realtà. Per quanto riguarda la gestione del gruppo da un punto di vista più pratico, ossia la convivenza delle nostre singole "visioni" artistiche, direi che non sempre è facile realizzare e mantenere un equilibrio creativo. Per certi versi è l'aspetto più complesso, ma anche quello che a nostro avviso caratterizza una certa ricchezza del PANE, il nostro pezzo più bello.
LUISE: un libro e una canzone che avresti voluto aver scritto tu...
ORLANDI: non è un caso che sia uno dei pochi testi che ricordo a memoria e che canto senza bisogno del mio amato leggio: Annarella di Ferretti. Credo sia davvero un testo bellissimo. L'ho sentito "mio" al primo ascolto. La presentiamo piano e voce solo in certe occasioni... Per quanto riguarda il libro, mio caro Alessio, tocchi un mio punto debole... amo leggere e mi piacerebbe moltissimo saper scrivere. Purtroppo nonostante gli sforzi non sono un gran prosatore, per cui ti dico che in primo luogo vorrei possedere il dono della scrittura. Poi per rimanere nel gioco, direi che ho amato moltissimo Lo Straniero di Camus, Il Vangelo secondo Gesù di Saramago e Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich; in Italia Il deserto dei Tartari di Buzzati. Non averli scritti, ma almeno pensati.

Intervista curata da Alessio Luise

NOTA

Alessio Luise è nato a Sesto San Giovanni il 2 maggio 1978.
Scrive canzoni in forma di poesia con il suo vero nome e audiopoesie in forma di canzoni col nome di Luisenzaltro. Si definisce uno “sdrammaticato interessato alla dimensione frazionaria dell'esistenza”. Ha autoprodotto il suo primo disco solista di canzoni e musica “non euclidea”
Le inversioni Aeiou, in versione audio nel marzo del 2004.
E’ stato pubblicato come autore di poesie dalla rivista
Confini (ediz. La Vita Felice), e come aforista da Lietocolle Libri nel volume L'albero degli aforismi. Su invito di Rosemary Liedl, vedova di Antonio Porta, scomparso nel 1989, ha messo in musica il suo testo incompiuto per canzone Come una nave rotta.
http://www.myspace.com/daltrocuori

Dall'incontro tra Claudio Orlandi (voce) e Maurizio Polsinelli (piano), avvenuto nel 1992, si genera il primo nucleo della formazione PANE. E' proprio a quei primi anni, segnati da diverse collaborazioni, che si deve il consolidarsi di alcuni elementi portanti della musicalità del PANE, come l'energia espressiva ereditata da band come Doors e C.C.C.P., o la ricerca di una espressività più rarefatta ed evocativa, infusa da autori come Debussy, Ravel, Bartok. Nel 1994 l'incontro col chitarrista ritmico Vito Andrea Arcomano, che dalla frequentazione della musica 
progressive deve parte fondante della sua formazione e e della sua ricerca sonora. Il fecondo incontro con l'estroso flautista Claudio Madaudo (1998) provocherà il necessario dilatarsi della musicalità e un immediato arricchimento delle possibilità compositive e di struttura. La già "strutturata unità" del gruppo verrà ulteriormente rafforzata in seguito dalla batteria del roccioso Ivan Macera (2001). I versi di Claudio Orlandi, quando nati dalla sua produzione individuale, vengono spesso chiamati ad eccitare la creatività dei musicisti in una perfetta dialettica compositiva. In altri casi, è invece dalle linee della musica che si genera l'idea da seguire per i versi. Negli ultimi anni il PANE affianca al lavoro in studio (tra i numerosi cd autoprodotti spiccano Cuore di grano e macina, Il Peso e l'ultimo lavoro Pane, sintesi dell'idea musicale che sottende tutto il progetto) un'intensa attività dal vivo sulla scena musicale romana, dando vita a rappresentazioni sonore e vocali dalla forte resa emotiva. 
http://www.progettopane.org/
claudiopane@hotmail.com

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO



Alessio Luise
Intervista a Stefano Raimondi

Se il suo libro La città dell’orto (Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2002) fosse un disco, potremmo parlare di concept-album. Per tutta la durata l'opera di Raimondi rivela il tema della scomparsa del padre, calandolo sin dai primi versi nel contesto metropolitano della Milano di oggi e di ieri. Non si tratta però di una semplice sovrapposizione, ma piuttosto di un continuum Tempo Luogo Presenza Assenza; è lì dunque che si resta "fatti di pietra e pietà" in quella città che "vive d'incroci e ponti contati senza fiato", quella stessa "Milano malabolgia fatta a cerchio" dove chi si smarrisce prima o poi arriverà…
In un'insolita mezzasera primaverile di gennaio, a parlarci del suo libro davanti ad una tazza di the è lo stesso Stefano Raimondi. E' lui che sceglie il posto giusto per la nostra chiacchierata; entriamo in un bar proprio ai piedi di uno dei simboli dell’architettura milanese: la Torre Velasca.

RAIMONDI: il primo testo era del 1996, nato come un testo a parte, deposito della memoria del padre, un testo di 10 piccole stanze. Effettivamente mi piace recuperare frammenti, non per niente ho sempre dietro un taccuino. La mia è una scrittura che prevede un diretto intervento di risistemazione, riordinamento e progetto, proprio a partire dagli stessi frammenti. Ritengo di poter dire che la scrittura è per me un montaggio, montaggio nel senso godardiano del termine: molto spesso mi capita di dire “io sto girando una poesia, non la sto scrivendo". Il lavoro di montaggio è fondamentale. La città dell’orto è un lavoro proprio di riordinamento in questo senso, ad esempio le prime due parti erano già uscite in alcune riviste di poesia sotto il titolo di Una raccolta d’anni. Il mio approccio alla musica e alla poesia è sempre stato istintivo. Mi innamoro delle immagini, dei suoni, delle parole, e quando questo accade diventano parte di me. Credo che l'arte in genere sia un patrimonio collettivo che prescinde dal suo autore, diventando parte ed esperienza di chi la condivide. Questo mi è accaduto con le poesie di Ungaretti, mi sono accorto che quelle parole descrivevano, come io mai sarei stato capace di fare, il mio stato d'animo e il mio sentire.
LUISE: ci puoi parlare di questo sentimento asequenziale, di questo eterno girotondo che poi è proprio di quella vita colma dei padri, delle opere già state, della coscienza di essere frutto delle irripetibili e innumerevoli combinazioni passate, e a loro volta derivate da miscugli, incroci e contatti?
RAIMONDI: il libro è una sorta di rielaborazione privata del lutto, la trasformazione del corpo malato del padre nel corpo malato di Milano. Non amo la Milano nostalgica, nel mio libro non c’è nostalgia: Milano è la sua velocità e al tempo stesso la sua trasformazione. Mi piace pensare Milano come uno skilift; lo puoi prendere e da fermo vai su, vai magari in alto: Milano devi prenderla e sapere partire. Ma non si deve soccombere alla frenesia, Milano impone una rete ritmica, ognuno di noi deve sapere a che velocità puo’ andare. A costo di restare al margine: dai margini si vede sempre meglio che non dal centro, Milano d’altronde è una folla, Baudelaire ci aveva abituato a questa idea di metropoli sovrappopolata e densa di corrispondenze, ogni angolo di Milano infatti è una svolta.
LUISE: Milano Frenesia, Milano Apparenza. Milano degli Orti, delle Magnolie e dei Cortili... Il poeta si mette in un angolo per farsi più spazio?
RAIMONDI: sì, dagli angoli si vedono più cose. Milano d’altra parte è una città europea. Lo è per le sue proposte continue, lo è per la sua vivacità culturale: oggi puoi scegliere a seconda del tuo modo di intendere le cose, e hai molto materiale di riflessione. Milano poi è i suoi parchi, che sono le mie delizie; i giardini della Guastalla sono per me magici, mi ci portavano in carrozzina da piccolo, e li ho visti trasformarsi. Il giardino è un perimetro dove tutto si svolge in modo diverso da ciò che accade intorno.
Lo stupore per me è ancora una forma parlante. Lo stupore arriva improvviso dove tu sei disponibile a stupirti.
L’altra parola-chiave è la disponibilità, la poesia è uno sparo, bisogna farsi colpire: proprio perché è un’esplosione, però, non può essere lasciata così, ma deve essere pensata, affinchè lo sparo crei un evento cui possa testimoniare la scrittura. Non credo alla poesia immediata, quella “della pancia”; la poesia è anche tecnica, linguaggio e progetto – prima di scrivere dovremmo pensare alla tradizione della nostra lingua, Dante ci guarda… Non credo nella poesia di getto, credo nella qualità della poesia. Per me non è possibile ignorare la lezione di Sereni, della Scuola di Milano, la scuola fenomenologica, Banfi… Come diceva Paul Celan, la poesia è una stretta di mano, possibilità di ritrovare nell’altro la complessità, e lo spazio dove poter scambiare e condividere le esperienze e l’esistenza dell’altro. Infatti i termini ricorrenti della mia poesia sono i baci, gli abbracci, forme fisiche dello scambio, dell’entrare nel mondo della vita dell'altro; la comunicazione diventa una comunicazione non superficiale ed orizzontale, ma verticale; comunicando si affonda e si sale.
C’è stato un grande maestro, Paul Valery, che io reputo un architetto della poesia (non possiamo dimenticare Le giovani parcheIl cimitero marino), l’ha fatto capire proprio quel suo testo in prosa, L’architetto, che ha segnato l’importanza della progettualità e delle poetiche nel ‘900 proprio quando, dopo Croce, erano in Italia state abolite. La poesia è fare, è techne, un fare concreto, un lavoro costante, una poesia deve dedicarsi, stare in compagnia con la propria poesia - scrivere è sinonimo di felicità, non di dolore. Scrivere è gioia, prima di tutto bisogna essere felici di scrivere.
LUISE: il contenuto, le ipostasi, la cosa da dire, come si accompagnano nella tua poesia alla lingua italiana "quotidiana", quella comune, parlata allo stesso modo da studenti, impiegati e operai?
RAIMONDI: la parola quotidiana, la poesia, deve sporcarsi sempre di più. Il linguaggio deve diventare forte, meditato, ma pieno di contrasti, è la forza di contenere gli scambi. Tessa diceva che amava ascoltare la gente colloquiare sul tram, c’è molta più poesia nel popolo che nei libri. La poesia diventa un calco ben strutturato, l’autore conosce i suoi strumenti , stili e retorica sono gli strumenti della costruzione di una poesia. La memoria metrica permette di incontrare l'equilibrio, la poesia deve avere il ritmo dell’autore, il ritmo diventa il suo respiro, il suo stile. Ritengo poi che a Milano la poesia di Umberto Fiori abbia piantato dei semi positivi sul linguaggio e la capacità di vedere l’urbanità, il circostante. Sono sicuro che le prossime generazioni lo faranno diventare un punto fermo di esempio e di esempi… (sorridiamo insieme per il gioco di parole casuale, NB: Esempi è il titolo di una raccolta di poesie di Fiori pubblicata da Marcos y Marcos).
LUISE: quali sono "le rotte del bene” oggi?
RAIMONDI: le rotte del bene risiedono nella disponibilità; come diceva Levinas non c’è possibilità di potere cambiare il volto dell’altro, già possedendolo lo si cancella, basterebbe disporsi per guardarsi. Possiamo essere deambulanti al modo teorizzato da Jean Luc Nancy, tra veglia e delirio. Io non penso a un mondo utopico – ogni cosa ha un prezzo e una fatica. Si può essere agenti, la politica va esercitata nelle piccole cose, così da essere relazionali al modo del filosofo Banfi – la politica è appunto polis, gli altri ovvero l’insieme, non c’è modo di percorrere il bene se non nel porsi in relazione agli altri agendo in comunione.
LUISE: cosa ci sta togliendo la società moderna dove, come dici tu, "tocchiamo tutto come qualcuno che dall'altra parte afferra qualcosa e la rivuole?"
RAIMONDI: qui emerge la morte, che non è un limite ma solo un confine. Si può vivere la morte quotidianamente di fronte all’abbandono, ogni volta che si è lasciati stare oppure da parte. L’abbandono non va confuso con il disincanto, il disincanto è una forma di coma, alla fine con lo stupore si torna a creder alle cose. Ci sono morti quotidiane che ti segneranno invece sempre, ti influenzeranno. L’abbandono e l’abbandonare sono gesti di grande forza, in essi c’è un insito dare e un insito ricevere.
LUISE: di recente hai dedicato uno scritto a Carlo Giuliani (A Carlo Giuliani, ragazzo) in Non siamo stati noi, Edizioni Carabà). Puoi parlarci di questo lavoro?
RAIMONDIA Carlo Giuliani, ragazzo esce all’interno di Non siamo stati noi di Carabà Edizioni; il libro raccoglie otto racconti sui fatti di Genova 2001 di otto autori italiani, tra cui Nicoletta Vallorani, giallisti e noiristi. Io contribuisco con una poesia, che posso anticipare uscira’ ancora su Nuovi Argomenti all’interno di un poemettino di piccole prose poetiche che ho deciso di titolare Genova-New York e che approfondiscono i fatti del G8 celati dall’evento dell’11 settembre. Trovo grave che ad un certo punto si è parlato solo dell’11 settembre, dimenticando le colpe che hanno segnato quella barbara mattanza estiva di Genova. La stampa produce persuasione e accerchiamento, e non risparmia nessuno. Il testo che ho scritto è un tentativo di puntualizzare che non ci sono morti di serie A o serie B, ogni impedimento della libertà è soltanto pazzesco. A Genova c’è stato troppo sangue gratuito.
LUISE: tu hai pubblicato per una casa editrice svizzera, come sei approdato a Casagrande? Cosa puoi dire ai giovani poeti in cerca di pubblicazione?
RAIMONDI: i testi sono usciti dopo averli sottoposti alla lettura di Fabio Posterla, della rivista Idra, che esce nella Svizzera ticinese – distribuita in Italia da Messaggerie. E’ curioso a questo punto notare che i “segni” nella vita esistono, creano un sintonia strana: io infatti ho pubblicato nel territorio ispirativo e nucleo salvifico di mio padre – sì, in casa mia c’era il mito della Svizzera. Mio padre apparteneva alla Cavalleria Savoia e al tempo della guerra dovette seguire la regina in Svizzera; lì rimase internato dal 1943 al 1945, deciso a tornare in Valdossola come partigiano, un vecchio svizzero lo fermò avvisandolo che i tedeschi erano ormai alle porte consigliandogli di restare, fu la sua salvezza. A casa mia c’erano ovunque bandiere della Svizzera! Aver pubblicato in Svizzera è indubbiamente la perfetta chiusura del cerchio…
Oggi ci sono molti spazi editoriali anche per gli scrittori emergenti, dopo la caduta del palco di Castel Porziano si aprì negli anni ‘80 un periodo in cui la poesia sembrava, o lo era davvero, scomparsa. Unica voce che amo ricordare è quella di Antonio Porta, che è stato un intellettuale di grande spessore.
Oggi i giovani hanno molto più spazio di 10 anni fa. Questa generazione è una generazione di grande personalità, in quest’epoca di totale volgarità politica e opportunità ed utilitarismo dei valori, i giovani sono capaci di ricostruirsi . Vado orgoglioso di questa generazione, si saprà salvare sempre, sa galleggiare, anche se il nemico non ha più un volto solo, ma diversi. La poesia è un canale che arriva tanto ai giovani, e tanti giovani vogliono arrivare presto alla poesia; mi sento solo di ricordare loro che la migliore arma della poesia è la pazienza.
LUISE: lo chiedo sempre... una canzone e un libro che vorresti avere scritto tu, o che vuoi suggerire ai nostri lettori.
RAIMONDI: adoro una cantautrice italo-americana che vive a New York, Lisa Germano, che ritengo stia lavorando in modo splendido sull'idea di progetto tra musica e parola intese come storie che raccontano, costruendo veri e propri concept-album veramente straordinari e potenti. Un libro? Bhe, La caccia magica e All’inizio era la favola di Paul Valery sono per me fondamentali.

Intervista curata da Alessio Luise

NOTA

Stefano Raimondi è nato a Milano nel 1964. E' laureato in filosofia.
Ha pubblicato Invernale (Lietocollelibri, 1999), e Una lettura d'anni in Poesia contemporanea, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2001). Sue poesie sono apparse su Nuovi ArgomentiIdraAtelier.
Gli interventi critici su riviste e in volumi collettanei hanno trattato autori come Philippe Jaccottet, Yves Bonnefoy, René Char, Paul Celan, Nelly Sachs e il pittore Nicolas de Staël.
È inoltre autore della monografia critica
 La Frontiera di Vittorio Sereni (Unicopli, 2000) e curatore del volume Poesia @... Luoghi Esposizioni Connessioni (Cuem Edizioni, 2002).
Collabora con 
Poesia e Pulp Libri. È tra i fondatori della rivista Materiali di Estetica.
Nel 2003 ha vinto il premio
 Città di Tirano, per la miglior opera di italiano pubblicata all’estero.
E’ curatore della rassegna milanese
 PAROLE URBANE - poeti filosofi artisti urbanisti.
(Biografia tratta da http://www.culturactif.ch/)

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2004)
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Alessio Luise
In Cerchio con... Sergio Endrigo

Ci siamo sentiti telefonicamente.
Risaliva solo al giorno prima (ndr 02.12.2004) la sua lettera pubblicata da Repubblica, ove, pur ringraziando, esprimeva la preferenza a non accettare l'invito alla serata RAI Le più belle canzoni di Sanremo andata in onda la sera del 10.12.04 su RAI1. Denuncia elegante, quasi sottovoce, di un fiero distacco dai fruttuosi presenzialismi tv e dalle logiche mordi e fuggi del varietà dentro una scena di spettacolari e appariscenti protagonismi da cronaca rosa; la ferma volontà di un artista vero, intellettualmente onesto, sovversivo ad un sistema di promozione della canzone italiana passato e malinconico, in cui gli artisti di ieri vivono solo del riflesso del successo o della nostalgica (sempre la stessa) hit di 30 anni prima."Nella mia vita avrei voluto diventare un comico, mai una spalla"; così si conclude la lettera del 2 dicembre apparsa su Repubblica.
Esempio di mirabile coerenza artistica, eccezionale scrittore di musiche per bambini e indimenticabile voce della canzone italiana degli anni '60/'70, accomunato alla cosiddetta "scuola genovese", seppure fosse di Pola (capoluogo dell'Istria), per un certo gusto innovativo che lo contraddistinse vincitore di Sanremo nel 1968 con il brano 
Canzone per te, eseguita in coppia con Roberto Carlos, Sergio Endrigo è stato soprattutto un precursore e uno sperimentatore unico nel suo genere.
Tra i primi a parlare di ambiente in Italia (si ricordi il primo recital di un cantautore al Teatro Piccolo di Milano per L'arca di Noè del 1970), da sempre è un grande amante della poesia. Negli anni '70 promosse per primo una collana discografica dedicata ai poeti dialettali (iniziativa limitata dalla Fonit Cetra a soli due titoli: Biagio Marin e Ignazio Buttitta), collaborò per primo con importanti poeti internazionali quali Vinicius De Moraes e Giuseppe Ungaretti, dando vita nel 1969 ad un disco a cura di Sergio Bardotti, La vita, amico, è l'arte dell'incontro (qui Endrigo canta La casa accompagnato da Toquinho, ndr: al disco partecipa Ungaretti stesso), musicò Pier Paolo Pasolini (Il soldato di Napoleone).
Assieme a Gianni Rodari poi scrisse la più celebre canzone per l' infanzia , quella Ci vuole un fiore musicata insieme al grande compositore Luis Enrique Bacalov nel 1974.
"Dopo quel disco - sono parole sue - tutto si è mercificato e io ho smesso di cantare canzoni per bambini ". Una coerenza che, come può testimoniare il suo pubblico tuttora fedele e numeroso, negli anni non è mai venuta meno, e che ha portato Endrigo anche alla stesura del suo primo romanzo.
Uscito nel 1995 per un editore straniero ma distribuito in modo insufficiente, è stato fortunatamente ristampato di recente dall'editore Stampa Alternativa (
Quanto mi dai se mi sparo?, 2004, Stampa Alternativa, 10 Euro, introduzione di Franco Battiato). Il testo rappresenta un abile e inedito ritratto indiretto dello stato dell'azienda discografica italiana; seppure in parte autobiografica e zeppa di riferimenti reali agli anni '70 e '80 della musica italiana, la vicenda raccontata da Endrigo è di invenzione. La storia è quella di un cantante alla deriva di una discreta carriera che, in completa crisi di identità artistico-esistenziale e snobbato dai piani aziendali della sua casa discografica, deciderà di affidarsi a un ambiguo avvocato per progettare l'ultimo concerto della sua vita; un concerto dal finale a sorpresa.
Tra le righe del libro, mai scontato né ripetitivo, si scorgono interessanti descrizioni psicologiche che vanno a miscelare improbabili situazioni caratterizzate dalla originale verve soft pulp dell'autore. Qui Endrigo parla nella prima persona del protagonista, Joe Birillo, offrendo un vivace e dissoluto mix di situazioni simil-star decadente e riflessioni ciniche sul mondo.
Al telefono mi chiede subito se l'ho letto, il libro. Poi mi rivela che è quasi pronto quello nuovo.

ENDRIGO: Ho già scritto una decina di cartelle del prossimo libro: si tratterà della storia di un adolescente che vive gli anni della guerra dal 1943 al 1947. Sì, perché per noi di Pola, dalmati, la guerra è finita veramente solo due anni dopo il '45. Comunque Quanto mi dai se mi sparo? è un libro che nasce da alcune mie riflessioni sul modo di lavorare delle società discografiche. Nasce anche dal fatto che tra il 1980 e il 1995 sono stati rifiutati di pubblicazione 5 miei dischi. Ho fatto 5 album tutti buttati via, mai promossi e mai adeguatamente distribuiti, persino uno con la Fonit Cetra e uno con la BMG Ricordi.
LUISE: Album prodotti e mai distribuiti?
ENDRIGO: Sì, tutti buttati via, lavori introvabili ora, per cui è anche attiva una petizione sul mio sito (http://www.sergioendrigo.it/) che ne promuove la ristampa. Ho scritto questo libro perché dovevo sfogare una certa rabbia. In Italia può accadere che, anche con un passato come il mio, si venga dimenticati da un giorno all'altro. Non è possibile, ero stanco, 5 album col mio passato e nessuno mi ha filato.
LUISE: Anche questa è la triste realtà di un settore esasperato dai criteri utilitaristici e al cui interno lavorano più amministratori delegati ed economisti che esperti di musica.
ENDRIGO: Io dico sempre che i giovani, a parte le dovute eccezioni, sono vittime consenzienti dei media; quando io ero ragazzo c'era la radio, non c'erano radio private, eppure se eri un cantante lavoravi, e se lavoravi vivevi di quello che amavi di più. Oggi i produttori, io li chiamo le WannaMarchi della canzone, se riescono a convincere il consiglio di amministrazione che un "artista" o un singolo può andare, bene, se no niente... insomma, lo spessore dell'artista non viene valutato proprio.
LUISE: Nel libro lei sviluppa una certa critica dell'apparenza.
ENDRIGO: La penso così, ho visto smarrirsi l'attenzione che ai miei tempi era più alta per le parole e le atmosfere musicali che si proponevano. Pensi, di recente ho visto un documentario in tv e si vedeva Pola, mia città natale, con il centro storico, le piazze, il campanile. Non ho ancora capito perché il commento musicale era tutto di hard-rock, cosa c'entrava con quelle immagini. Per carità, io vorrei solo che la canzone convivesse con il rock più scatenato, però oggi si bada troppo all'effetto immediato...
LUISE: Però, "le dovute eccezioni" riscoprono la tradizione della canzone italiana... un sacco di artisti cosiddetti "alternativi" riscoprono gli anni '60, molte giovani bands in questi ultimi mesi incidono dischi di musica d'autore in puro stile Sixties, orchestrando e arrangiando alla maniera di Mina, Tenco, Paoli ed Endrigo stesso (ad es.: Nonvogliocheclara, Baustelle, Perturbazione, Morgan, Meg etc).
ENDRIGO: Pochi giorni fa ero a Faenza, Michele Bovi presentava il suo libro sul plagio, io il mio; mi sono impressionato ad un certo punto quando ero insieme a Pasquale Panella (ndr: scrittore sperimentale, paroliere tra gli altri anche dell'ultimo Battisti) e un sacco di giovani ci hanno riconosciuti e venivano a salutarci e a farci i complimenti... non a caso parlo sempre di dovute eccezioni. Meglio così...
LUISE: Si tratta di giovani che riconoscono in Lei un esempio di artista coerente e appassionato, meno "personaggio" di altri magari, ma sicuramente più profondo... ci può parlare del Suo rapporto con la poesia?
ENDRIGO: A fine anni '60 ebbi l'idea di cantare Vinicius De Moraes, poeta brasiliano. Bardotti collaborò e nacque La vita, amico, è l'arte dell'incontro. Sono felice che si sia riusciti ad ottenere la ristampa di questo disco, che appunto uscirà per conto di Warner a breve. Nel lavoro appare anche Ungaretti, che ho recitato anch'io durante il mio recital del 1970 al Piccolo di Milano con la poesia San Martino Del Carso. Sicuramente è stato uno degli esperimenti più interessanti della mia carriera... io dico sempre, a proposito delle mie canzoni, che un bravo padre ama anche i figli scemi... in realtà ho sempre fatto quello che mi piaceva. Io non sono nato in sala d'incisione, dopo 7 anni di nightclub e balere, pensi cominciai con Enzo Jannacci primo pianista, mi ero stufato della vita nei locali notturni, ci si divertiva, è vero, ma non vedevo futuro. Ho provato poi con la casa discografica, era diverso da adesso, ho fatto un contratto con Giampiero Boneschi, Nanni Ricordi aveva già reclutato i vari Paoli, Jannacci, Gaber, Tenco, Bindila; mia fortuna fu che mi chiese se scrivevo canzoni... io ancora non lo facevo, cantavo e basta, da lì ho iniziato a scrivere canzoni e firmai presto il mio contratto...
LUISE: So che ama molto la cultura brasiliana, e il Brasile ama lei. Lei è l'unico artista, non solo italiano, ma anche straniero, cui è stata dedicata una monografia su doppio vinile per la serie A arte de, dedicata a tutti i grandi artisti della musica brasiliana.
ENDRIGO: Nel 1964 ero amico di De Moraes; del Brasile mi innamorai quando conobbi la bossanova. Nei primi anni '60 circolava tra noi orchestrali a Milano la prima bossanova con Joao Gilbert, eravamo impressionati dalla potenza di questi generi musicali nuovi; sì, il Brasile è il paese che amo di più e spero di finire la vecchiaia lì, adoro la saudade e la calma dei brasiliani. Quando ero a Bahia, che è una città distesa lungo il mare, andavamo spesso in macchina, e girando per strada non si sentiva mai un clacson... tranquilli... qui a Roma in quegli anni il traffico era già una "guerra". Sicuramente è un paese che ha un sacco di problemi reali e spaventosi; là ci sono i ricchi più ricchi del mondo e i poveri più poveri. Io ci andavo solo in vacanza, ma quello della sovrappopolazione e delle favelas è un problema devastante. Nel 1964 io ero là, i brasiliani erano 90 milioni, c'era un samba che cantava "Noventamilion!!! Noventamilion!!!". Adesso sono 150 milioni, fra trenta anni saranno 120 milioni in più; è un problema mondiale, non solo del Brasile...
LUISE: Continuo a chiedermi come mai tutti conoscano la canzone Ci vuole un fiore, ma pochissimi ne sappiano la sua storia, addirittura i suoi autori.
ENDRIGO: Le dico solo che ho scritto un'altra lettera, tempo fa, sempre a Repubblica. Un giornalista aveva scritto un articolo sulla storia della canzone di infanzia, e parlando di successi per bambini, citava di tutto, Cristina D'avena ovviamente, ma a me neanche mi nominava... quando canto queste cose, Ci vuole un fioreLa casa, dico sempre che per scrivere testi per bambini bisogna essere poeti o furbastri... io non sono né l'uno né l'altro. Il successo di quel brano probabilmente sta nella trovata inconscia della risposta del coro di bambini al canto dell'adulto, e nell'impianto narrativo e giocoso del testo; se la ricordano tutti perché era una canzone adatta ai bambini sì, ma anche agli adulti...
LUISE: Ha mai scritto poesie? Nel libro ce n'è una...
ENDRIGO: Che poesia!!? (ndr si sentono abbaiare i cani in casa, lui ride).
LUISE: Gliela leggo:

"Milano a fine maggio le forzi la mano
è inutile, domenica non c'è nessuno
telefoni rabbiosi in stanze vuote
abbocchi all'inserzione e una voce
impersonale registrata dice ciao
ricevo tutti i giorni meno i festivi
anche coppie e donne sole meno i festivi
in autostrada passano lenti
(non sembrano veri) uccellacci neri
dall'altra parte in colonne rombanti
si torna a casa al disamato paese
ma è così che si ammazzò Pavese?"

ENDRIGO: Sì, ho scritto delle poesie, ma mi sono sempre vergognato di pubblicarle...

Su quest'ultima battuta dall'affascinante mistura di aristocrazia e umiltà tipiche di Sergio Endrigo, si conclude la mia chiacchierata con lui. Scegliamo di rendere pubblica la poesia inclusa nel libro per dar voce ad un grande autore della cultura italiana del Novecento, oggi troppo spesso dimenticato dai media, protagonista di un'epoca in cui musica e poesia si lasciavano mescolare con più facilità, e maggiore attenzione.
Per maggiori informazioni sulla ristampa dei dischi di Sergio Endrigo visitate il sito www.sergioendrigo.it.
Si ringraziano Claudia Endrigo, Matteo Perazzi.
Intervista curata da Alessio Luise

NOTA

Sergio Endrigo: 

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2004)
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Alessio Luise
Cantando Ungaretti con Andrea Chimenti

-Com'è nata l'idea di cantare Ungaretti? Esistono dei riferimenti all'attuale condizione storica della nostra civiltà?
Il mio approccio alla musica e alla poesia è sempre stato istintivo. Mi innamoro delle immagini, dei suoni, delle parole e quando questo accade diventano parte di me. Credo che l'arte in genere sia un patrimonio collettivo che prescinde dal suo autore, diventando parte e esperienza di chi la condivide. Questo mi è accaduto con le poesie di Ungaretti, mi sono accorto che quelle parole descrivevano, come io mai sarei stato capace di fare, il mio stato d'animo e il mio sentire. Provando a cantare quei testi ho presto dimenticato che erano parole di un altro, sentendole profondamente mie.
Questa è la magia della poesia e questo è ciò che accade a chiunque si incontra con qualcosa in grado di accenderlo nel profondo. La poesia prende vita nel momento che viene letta e a sua volta vive della sensibilità del lettore. Quando le parole toccano le corde più profonde dell'uomo, vivono al di fuori del tempo e contemporaneamente si adattano perfettamente all'istante in cui vengono lette. Io non sono un esperto di poesia ma mi sembra che Ungaretti parli dell'uomo in modo rivoluzionario e in particolare per i tempi che stiamo vivendo dove l'uomo è posto al centro dell'universo, dio di se stesso in una sorta di nuovo positivismo dove tutto è per lui possibile. Ungaretti mette ugualmente l'uomo al centro ma rivestendolo di umiltà, ridimensionandolo a creatura che riconosce la sua finitezza. Il dolore è la strada per questa consapevolezza, il passaggio obbligato dove l'uomo riconosce sopra la sua testa qualcosa di più grande e per la prima volta scorge il cielo: "d'improvviso è alto sulle macerie il limpido stupore
dell'immensità".
-A commento dell'omonima poesia Ungaretti scrive:"il porto sepolto è ciò che di segreto rimane in noi, indecifrabile". Anche la tua ricerca musicale appare come una costante intrusione nell'Anima. Dove sei arrivato finora?
E' inevitabile che la musica come la poesia rispecchi la vita di chi scrive, con tutte le sue certezze, paure e debolezze. Il titolo "Il porto Sepolto" rappresenta, per me, quell'approdo dove ogni uomo vorrebbe giungere, ma spesso ci perdiamo cercandolo lontano senza accorgerci che è vicino a noi seppellito da tante cose superflue che accompagnano la nostra vita. Cerco con la musica di raccontare il mio piccolo percorso di ricerca che assomiglia a quello di tanti o almeno a
quello di chi non sopporta di vivere una vita tiepida, vissuta solo in superficie.
Per quanto avanzata e radicale la sperimentazione introdotta da Ungaretti a partire da "Allegria di naufragi" (1919) non riduce la letteratura, come ad esempio i futuristi, ad una battaglia linguistica ma piuttosto si fonda su una considerazione sacrale del ruolo di poeta.La parola emerge dal silenzio.
-La tua poetica di sottrazione è molto vicina a quella Ungarettiana , ad esempio le musiche del tuo lavoro hanno arrangiamenti minimali al tempo stesso convivono con l'intensità delle melodie, alla musica si affianca spesso la necessità del silenzio. Come convivono gli opposti nella tua visione della musica?
Gli opposti convivono, anzi rendono possibile la vita. Non esisterebbe la "nota" musicale senza la "pausa" e la stessa parola ha bisogno del silenzio come contenitore. Biblicamente "Il Verbo" ha irrotto nel silenzio portando alla luce le cose e Ungaretti ha questo carisma, quello di accendere delle parole nel buio con grande forza, riuscendo ad esaltare il suono della parola e il silenzio che la circonda. Nel mio piccolo è quello che cerco di fare con la musica e in particolare l'ho fatto cantando le poesie di Ungaretti. Le parole erano già talmente cariche e potenti che ho cercato di non sovraccaricarle con l'enfasi musicale, ma di rispettarle attraverso il minimalismo. Spero in questo modo di non averle soffocate ma di aver semplicemente aggiunto un veicolo in più, quello della musica, per farle arrivare all'animo.
-Credi che l'arte del verso, l'arte in generale possa possedere il privilegio di afferrare la fugacità dell'attimo, di un preciso istante di vissuto, quell'inesauribile trascorrere del tempo l'esultanza che l'attimo avvenendo dà perché fuggitivo, attimo che soltanto amore può strappare al tempo?
Credo che l'arte abbia la capacità di vedere dietro le cose che ci circondano e dare loro significato. Questo accade spesso, come citavi tu, nell'esultanza di un attimo, ma quell'attimo, una volta colto, viene messo al riparo dal tempo diventando una sorta di icona a disposizione di tutti, in grado di attraversare i secoli senza perdere il suo significato e bellezza.
-Il CD è una conseguenza dello spettacolo "ll porto sepolto". So che lo spettacolo comprende letture di Tolstoy e Buzzati, cosa lega questi autori nella tua rappresentazione?
Non ci sono legami stilistici tra Tolstoy e Buzzati, anzi il passaggio da uno all'altro è netto e brusco, ma parlano ambedue di sogni e certezze infrante: in Tolstoy c'è la piena fiducia nella scienza e nelle capacità dell'uomo a dare una risposta ad ogni interrogativo umano, ma ad un certo punto della sua vita questa certezza viene messa in crisi e lo scrittore si accorge che il sapere dell'uomo non è in grado di dare una risposta ai grandi interrogativi esistenziali. Tolstoy vive un vero e proprio fallimento, arrivando al punto di volersi togliere la vita vedendo ogni sua certezza infranta. Nel romanzo di Buzzati (Il Deserto dei Tartari) il protagonista, Giovanni Drogo, è un giovane tenente che si reca a prestare servizio presso una fortezza e anche lui ha un sogno, quello di incontrare gli onori e la gloria nella battaglia. Giovanni attende tutta la vita il nemico che non si presenta se non quando lui è vecchio e ammalato e costretto ad abbandonare la fortezza. Due progetti di vita contraddetti dagli eventi ma ambedue vivono una soluzione inaspettata diversa da quello che avevano immaginato e sognato: Tolstoy incontra le risposte nella sua conversione al cristianesimo, soluzione che aveva sempre disprezzato, e Giovanni Drogo incontra la sua battaglia personale nella camera di una locanda, affrontando il momento della morte uscendone vittorioso. In ambedue una vittoria e un riscatto diverso da quello che attendevano. Le canzoni con i testi di Ungaretti sottolineano i vari momenti di queste letture.
-La raffinatezza è una costante dei tuoi lavori: puoi parlarci di quell'elegante incontro stilistico che ha dato vita alla collaborazione con David Sylvian nell'album "l'albero pazzo" del 1996?
E' stato sicuramente, quello con David Sylvian, uno degli incontri musicali più intensi per me. Sylvian si trovava in Italia per alcuni concerti e ha avuto modo di ascoltare alcuni miei lavori ed è nato un suo interessamento che poi si è concretizzato nello scrivere insieme una canzone: "Ti ho aspettato". Abbiamo lavorato a distanza spedendoci il materiale per posta e piano piano abbiamo costruito questa canzone. Quando ci siamo visti, a lavoro ultimato, eravamo contenti del risultato e ci siamo accorti che la distanza non era stata un ostacolo al nostro lavoro. Forse esistono ponti invisibili che uniscono le persone quando tra loro esiste una sintonia nel sentire.
-La poesia cantata è una formula ricorrente nella Storia culturale dell'umanità , ricordiamo ad esempio i Rapsodi dell'antica Grecia. C'è ,a tuo avviso, qualcosa che universalmente non basta alla Parola e pretende la musicalità?
Credo che le parole racchiudano in se stesse la musicalità. Cantarle significa amplificare questa caratteristica già in loro connaturata. Penso che parola e suono siano una cosa sola, non a caso si dice che la parola ascoltata risuoni dentro di noi. La parola ha un forte potere e il canto ne amplifica gli effetti, S. Agostino diceva che chi canta prega due volte. Il problema è che oggi si tende a distruggere la parola, abbiamo scarnificato la parola dai suoi significati più profondi
togliendole la possibilità di risuonare dentro di noi; ad esempio la parola "acqua" che un tempo racchiudeva forti simbologie come vita, rinascita, purezza, oggi è ridotta a semplice formula: due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Anche questo è un effetto del materialismo, uno dei più devastanti.
-I testi scelti aderiscono a perfezione alle musiche che hai composto con Massimo Fantoni (chitarrista e produttore). Sembra quasi che Ungaretti abbia scritto i testi per l'album, cosa pensi della lingua italiana cantata?
Grazie per quello che mi dici, la sensazione che abbiamo provato con Fantoni nella composizione dei brani è stata proprio quella di non inventare nulla, ci sembrava di scoprire le note che già erano racchiuse all'interno di quelle parole. La lingua italiana è adatta al canto come, credo, tutte le lingue, ma ognuna produce suoni e sensazioni diverse. Io canto in italiano perché è la mia lingua ma amo la canzone e i suoni in ogni espressione linguistica come quella inglese con la quale sono cresciuto.
-Negli anni '80 sei stato, insieme a Litfiba e Diaframma, come leader dei Moda, precursore del rock italiano. Come giudichi l'attuale scena rock italiana e trovi ci sia qualcosa dello spirito sperimentale di quel periodo che non è stato recepito dalle giovani bands di oggi ?
Gli anni '80 sono stati anni speciali in Italia dove abbiamo sperimentato l'uso della nostra lingua in altre sonorità appartenenti più alla cultura anglosassone. Era un andare contro a quello che a noi sembrava un modo di fare musica ormai ripetitivo. Le influenze straniere sono sempre importanti per rigenerare una cultura. Oggi il rock non possiede più il significato di un tempo e mi sembra che si sia accasato un po' mollemente. Esistono comunque anche oggi delle realtà molto interessanti ma il loro unico difetto è quello di mescolare cose già sentite negli anni passati soprattutto degli anni '70. Forse deve maturare qualcosa di nuovo dopo l'ultima vera novità che è stato il rap, oggi decaduto da essere un mezzo di denuncia a un povero contenitore di look, atteggiamenti e parole spesso vuote (ci sono ovviamente le eccezioni).
-Esistono una canzone o un libro che avresti voluto aver scritto tu o che vuoi consigliare ai nostri lettori?Un libro che amo molto è "Il Barone Rampante" di Italo Calvino e una canzone?.forse un classico: Heroes di David Bowie anche se non condivido molto il testo, ma quando mi capita di ascoltarlo mi emoziona sempre, forse perché mi ricorda un periodo della mia vita.

Intervista curata da Alessio Luise

NOTA


Andrea Chimenti dal 1983 al 1989 è il cantante dei Moda, uno dei gruppi capostipite del rock italiano con Litfiba e Diaframma. Con loro, per l'etichetta IRA, sono usciti gli album Bandiera, Canto paganocoprodotto insieme a Mick Ronson (chitarrista di David Bowie, Dylan, Lou Reed) e Senza Rumore
I Moda si sciolgono nel 1989, e per Andrea comincia la carriera solista.
Insieme a Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli realizza il primo CD, La Maschera Del Corvo Nero, che esce nel 1992 per la CGD. Partecipa alla compilation dedicata a Rino Gaetano cantando Escluso Il Cane. Nel frattempo è nato il Consorzio Produttori Indipendenti e nel 1996 esce L'Albero Pazzo, prodotto da Andrea e F. Magnelli, edito dallo stesso CPICanta nel film di Carlo Verdone Sono Pazzo di Iris Blond il brano Black Hole. Collabora con Una Notte In Italia al CD tributo a Ivano Fossati. Nel 1997, in collaborazione con l'attore Fernando Maraghini, esce Qohelet per la collana Taccuini, sempre per il CPI.
Nel 1998 fonda l'etichetta Le Vie Dei Canti. Nello stesso anno esce il Cantico dei Cantici ( per Le Vie Dei Canti/CPI) dove l'attrice Anita Laurenzi, sulle musiche di Andrea, legge l'omonimo libro biblico.
Nel 1999 lavora a sonorizzazioni di musei, mostre e video d'arte. Nel 2000 debutta con Il Porto Sepolto, spettacolo di canto, musica e letture (l'omonimo CD uscirà nel 2002); partecipa inoltre allo spettacolo ebraico Mazal Tov della compagnia di Terra di Danza.
http://www.andreachimenti.com/

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2003)
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Alessio Luise
Canzoni e poesia di sostanza con Umberto Fiori

-Umberto Fiori, leggerla porta ad avere a che fare con una poesia di sostanza, intima e ritmica, tematicamente affezionata ai minimalismi dell’animato, del paesaggio, alla compresenza di sentimenti ed intelletto; come si inserisce in questa poetica la felice scelta di un linguaggio prosastico svuotato dei tecnicismi, estraneo a ricami stilistici e formali e quindi più vicino ai registri del quotidiano?
Dopo avere scritto per anni nel modo cervellotico e sibillino che a molti sembrava l’unico davvero poetico, a un certo punto mi sono reso conto che tutto questo “sperimentare” non portava da nessuna parte. Mi nauseava. Ho buttato a mare le cose che avevo fatto, e ho cominciato a mettermi alla ricerca di quella che chiamavo “la mia frase normale”. Questa svolta nasceva anche da una profonda crisi personale, dalla necessità di ritrovare ciò che mi metteva in comune, che mi metteva al mondo insieme agli altri. Le cose più ovvie mi sembravano ora le più misteriose e difficili; la città dove abitavo era piena di apparizioni. Per la prima volta, sentivo che qualcosa premeva per essere detto.
-La cosa da dire è più importante dell’effetto stilistico?
La “cosa da dire” è senz’altro importante. Senza una spinta a comunicare, la poesia si ridurrebbe a un vuoto esercizio “a freddo”. D’altra parte, la “cosa da dire” resta puramente virtuale, se non
si trovano le parole che la dicono nel modo più fedele. Produrre un “effetto stilistico” non fa parte dei miei scopi: quello che cerco è, semmai, il massimo della chiarezza. Lo stile, per me, non è
un’esibizione dell’“originalità” dell’autore, ma il risultato della sua aderenza alle cose
di cui sente di dover parlare. E’ dalle cose che si impara a scrivere.
-“Noi sogniamo di avere di fronte il mondo/ e invece dentro ci siamo” è un verso tratto dal suo libro “Esempi” del 1992; questo senso di compartecipazione e comunione, spesso involontaria, con la realtà presente nelle sue liriche dedicate alla città riemerge anche nell’ultimo libro “La Bella Vista”. Esistono interazioni strutturali anche tra vissuto ed immaginato?
Chi scrive rappresenta la realtà che vive, la ri-presenta. In questa presenza “seconda” la realtà
si immagina, si fa immagine. Nella “Repubblica”, Platone accusava i poeti proprio di questo:
di allontanarsi e allontanarci dal vero, costruendone delle copie. La scommessa della poesia è
che l’immagine poetica del mondo, la sua significazione, la sua traduzione in segni, la sua
rappresentazione, possa rivelare e salvare una più essenziale presenza delle cose e delle persone, che nel cosiddetto “vissuto” va perduta.
-La tradizione poetica italiana è ancora “arroccata entro gli spalti della Pagina” ( da “Scrivere con la voce”) , certa poesia anglo-americana si emancipa invece da quella scomparsa elocutoria del poeta, quel ritegno di sé nella parola promossa da Mallarmè e punta alla spettacolarizzazione del reading, alla performance, addirittura al divismo più Pop come nel caso del discusso Murray Lachlan Young, autore di “Casual Sex”. E’ possibile fare del verbo carne, è auspicabile una poesia più palpabile, e quanto può davvero servire alla promozione della poesia la proposta di un atteggiamento, di uno stile di vita che faccia tendenza?
Il problema non è quello di importare modelli angloamericani, o di “spettacolarizzare” la poesia per promuoverla: si tratta, io credo, di ripensare il rapporto tra il testo e il suo autore, questa persona qui, che ha questa faccia, che parla con questa voce. Scrivere a partire da una presenza in carne e ossa, dalla sua fragilità, dalla sua precaria, arrogante evidenza. Nella nostra tradizione, il problema (per ragioni molto serie) è stato rimosso; oggi, però, mi pare che riaffiori. Non si tratta di fare della poesia una “performing art”: si tratta, per me, di rimettere in gioco, di rimettere in scena –anche attraverso la presenza “fisica” dell’autore- l’idea di un rischio, di una responsabilità che la scrittura comporta. Una responsabilità più che letteraria. Tornando a rispondere personalmente delle proprie parole, a “giocarsi la faccia” di fronte a un pubblico che sta lì di fronte, forse il poeta può essere spinto a riflettere diversamente sulla propria scrittura,
a riscoprire aspetti dello scrivere che gli erano rimasti nascosti. Anche senza essere pensata
necessariamente per un reading, una poesia può essere –in questo senso- “parlante”.
-Poesia e canzone sono forme d’arte a lei molto care, dopo un luminoso quindicennio da musicista e autore di musica rock lei si è affermato anche come ottimo scrittore. C’è qualcosa che non si riesce a dire con la sola parola scritta? Le manca qualcosa della parola cantata ?
La parole che ho scritto e cantato nel passato no, non mi mancano: mi illudo che quello che
ho affidato ai libri in questi ultimi vent’anni sia un po’ meglio. Il mio sogno sarebbe quello di tornare a scrivere canzoni (e a cantarle) a partire dalla mia esperienza sulla pagina. E’ più facile dirlo che farlo. Gli ostacoli sono molti. Certo, la parola cantata sembra avere di per sé “una marcia in più”; ma se non incontra la musica adatta, rischia di naufragare in un mare di suoni. Di recente, il mio amico Tommaso Leddi (ex Stormy Six) ha scritto una serie di canzoni su poesie di Franco Loi, e me le ha fatte cantare. E’ stata un’esperienza entusiasmante: Tommaso ha trovato la chiave giusta per tirar fuori il meglio dei testi, senza sopraffarli. Non è detto però che quello che funziona con una certa poesia funzioni anche con un’altra. Non c’è una formula sicura. Ora stiamo cercando di musicare alcuni testi miei. Qualche risultato c’è già, ma resta ancora molto lavoro da fare. Chissà, forse da grande riuscirò a scrivere delle canzoni che mi convincano quanto le poesie.
-Spesso nella storia della canzone Italiana, molti scrittori e poeti hanno partecipato alla stesura dei testi. Si possono ricordare le riuscite collaborazioni di Pasolini con Laura Betti, Gianni Rodari per Sergio Endrigo , Simonetta e Luporini con Gaber, Roversi con Dalla, Sgalambro per Battiato, fino alle più recenti operazioni di Alda Merini e Aldo Nove insieme ai Bluvertigo, Ragagnin per i Subsonica, Lodoli e Gualtieri per i LaCrus. Accade poi che molta canzone odierna s’indebiti con le idee di pensatori e scrittori di ogni tempo. Quando il rock è anche cultura, quando la canzone può essere studiata a scuola?
Di fatto, il rock e la canzone sono già cultura, anche solo per il fatto di essere ascoltati
da milioni di persone. A studiarli a scuola si è cominciato da tempo: le antologie scolastiche
presentano da anni anche testi di canzoni; a un ragazzo di oggi, però, un testo di Libero Bovio
(o anche di De Gregori) può risultare più estraneo e difficile di uno di Leopardi, o di Montale.
Questo forse ci può far riflettere sulle differenze che ancora persistono tra poesia e canzone, tra
due modi di intendere la scrittura.
-Infine, una canzone ed un libro che avrebbe voluto aver scritto Lei o che magari consiglierebbe ai nostri lettori.
E’ difficile rispondere. Ci sono tante canzoni che ammiro. Le prime di Paolo Conte, da “Genova per noi” a “Bartali”. E quelle di Tenco: “Vedrai vedrai”, “Un giorno dopo l’altro”. Scegliere un libro, tra i mille che mi vengono in mente, è ancora più difficile. Forse direi “Il processo”, di Kafka.

Intervista curata da Alessio Luise

NOTA

Umberto Fiori è nato a Sarzana nel 1949. Dal 1954 vive a Milano, dove si è laureato in filosofia. Negli anni Settanta ha fatto parte, come cantante e autore di canzoni, degli Stormy Six, uno dei gruppi "storici" del rock italiano. In seguito ha collaborato con il compositore Luca Francesconi, per il quale ha scritto numerosi testi e due libretti d'opera, e col fotografo Giovanni Chiaramonte.
Suoi contributi critici sulla canzone, il rock e la poesia sono apparsi su quotidiani e riviste letterarie e musicali, oltre che in un testo di saggi Scrivere con la voce (Unicopli, 2002).
Nel 1986 è uscito il suo primo libro di poesie, Case (San Marco dei Giustiniani, Genova), al quale sono seguiti Esempi (Marcos y Marcos, Milano, 1992), Chiarimenti (Marcos y Marcos, Milano, 1995), la plaquette Parlare al muro (con immagini del pittore Marco Petrus; Marcos y Marcos, Milano, 1996) e Tutti (Marcos y Marcos, Milano 1998).
Ha curato un'antologia della poesia italiana del Novecento (Bruno Mondadori, Milano, 1995) e una monografia su Camillo Sbarbaro (Garzanti, Milano 1998). Numerose le traduzioni in varie lingue; in volume due antologie personali, in inglese (
Terminus, Dublino, 1998) e in serbo (Govoriti zidu, Belgrado, 2001).
L'ultimo libro di poesie pubblicato è
 La bella vista (Marcos y Marcos). Baldini e Castoldi ha da poco pubblicato Tutto bene professore? Croci e delizie del corpo docente.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2004)
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Salvo Ferlito
Giorgio Cattani - Attraverso terre perse


Presentiamo un breve scritto del critico d'arte palermitano Salvo Ferlito inerente la mostra recente alla Galleria Prati di Palermo dell'artista Giorgio Cattani, visitabile sino al 15 maggio 2004. La lunga ricerca artistica di Giorgio Cattani spazia dalla pittura all'installazione, al video; in questa mostra personale, l'artista presenta una nuova serie di opere pittoriche che qui in parte riproduciamo.

Che Giorgio Cattani (Ferrara, 1949) ami affidare al segno graffitistico l´intera sua poetica è un dato palese e inoppugnabile. Tuttavia, sarebbe erroneo e riduttivo inquadrare il suo profondo fare artistico nei limiti d´un lessico - il graffitismo, per l´appunto - dalla sintassi spesso estemporanea, se non addirittura semplicistica.
I segni di Cattani, infatti, non incidono una superficie "piatta" e "sprovvista di spessore" - nel senso formale e simbolico dei termini -, ma piuttosto paiono emergere da una articolata tessitura, nella quale la nebulosità delle stesura coloristica è funzionale alla strutturazione visuale di una dimensione prettamente onirico-visionaria. Immagini evocate, dunque, ma al contempo evocanti; e questo grazie ad una articolata scansione della superficie, operata ricorrendo ad una variegata modalità di tecniche, ibridate e mescolate con una non comune sapienza narrativa. Misurati inserti materici, applicazioni cartacee, colori talora campiti densamente e talaltra stesi con andamento tonalmente nebuloso, segni e tracce d´ogni genere, sagome e figure varie, contribuiscono, infatti, alla costruzione di un "logos visuale", in grado di trasmettere l´idea compiuta d´un processo di pensiero che si esprime per sinossi, con un sincronismo ottico pertinente a quella che appare come una fertile simultaneità ideativa. Una impostazione compositiva quasi "ipertestuale", che tuttavia mai rinnega (bensì esalta) il valore iconico dei segni, alcuni dei quali ricorrenti con cadenza pressoché ossessiva. Pianoforti, vasi, tavoli, profili antropomorfi, lucertole, tori (con un dichiarato ossequio a Picasso nella citazione della testa taurina abbozzata con sellino e manubrio di bicicletta) si fanno quindi cifra e traccia peculiare d´un linguaggio assai meticcio, ma dall´eloquio raffinato e al contempo misterioso e impenetrabile, in cui il gioco dei rimandi costringe ad una molteplicità di sguardi e di letture. Narrazione in sé conclusa, eppure sempre aperta nella misura consentita dall´arcano che la permea. Mappatura d´un iter esistenziale ed ideativo, ove ogni minimo tratteggio si fa eco destinato a permanere oltre il mero contingente.

NOTA

Salvo Ferlito e’ nato a Palermo l’8 ottobre 1961.
Dal maggio 1999 al settembre 2000 ha collaborato con il quotidiano
 Il Mediterraneo, per il quale ha scritto recensioni di mostre ed articoli sullo stato di conservazione del patrimonio storico - artistico di Palermo.
Dal novembre 2000 al dicembre 2001 ha collaborato con il quotidiano 
L'Ora; nel 2001ha inoltre curato il notiziario del sito Internet Mediterraneofoods e ha scritto alcuni articoli per la rivista Palermo e Provincia.
Alcune sue recensioni sono state pubblicate dalla rivista
 Sicilia Tempo. Ha anche svolto il ruolo di giurato nell'ambito di alcuni concorsi d'arte organizzati in Sicilia. Dal 2001 cura, con altri colleghi, la rubrica delle recensioni all'interno del portale web www.pittorica.it e dal marzo 2002 collabora con il mensile L'Inchiesta.

Giorgio Cattani è nato a Roma nel 1949.
Nel 1987 partecipa a Documenta VIII a Kassel e nel 1993 alla XLV Biennale di Venezia. Vive e lavora a Ferrara.
Fra le principali mostre ricordiamo:

1982 Palazzo dei Diamanti, Ferrara
1984 Galleria Vinciana, Milano – Palazzo dei Diamanti, Ferrara
1985 Galleria Shubert, Milano – Il Biennale Internazionale video, Colonia – Padiglione d’Arte Contemporanea, Ferrara
1987 Palazzo Ducale, Mantova
1988 Museo Pecci, Prato
1989 10 anni d’arte europea, Padiglione d’Arte Contemporanea, Faenza – Akademie Primarbildhauerei, Graz
1990 Arco 90, Madrid – Museo d’Arte Contemporanea, Lione – Novantesimo, Museo d’Arte Contemporanea, San Marino
1991 Kunstmesse Basel – Galleria Galliani, Genova – Scuola d’obbligo, Pescara – International Art Fair, Chicago
1992 Le memorie del bianco, ex Carceri, Spoleto – De Europa, Museo d’Arte Contemporanea, Atene – Divieto d’affissione, Galleria Ennio Borzi, Roma – Omphalos, Museo Civico, La Valletta
1994 Confini, Galleria Ferran Cano, Palma de Mallorca – Padiglione d’Arte Contemporanea, Ferrara – Europa Haus, Klagenfurt
1995 Galleria Ferran Cano, Barcellona
1996 Triennale di Milano – Tempi ultimi, Penne – The italian artist print, Chan Kai Shek, Taipei
1997 Galleria Gagliani, Genova – Segni, Colori, Trasparenze, Palazzo Reale, Caserta.


Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2004)
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Salvo Ferlito
Le inquietanti ombre di Gloria Argeles



Una mostra di sculture che rilancia la centralità del pensiero forte nell'arte contemporanea;
passione civile e impegno politico. Sono questi - insieme a una grande padronanza delle tecniche scultoree e ad una notevole inventiva - i tratti salienti del gesto artistico di Gloria Argelés.
Tratti decisamente non comuni, se si considera il dilagante disimpegno qualunquistico che investe (e permea nel profondo)
gran parte dell´attuale produzione artistica in ambito visivo (e non solo).
Sarà forse per il suo essere argentina, per l´aver assistito all´orrore inaccettabile della funesta dittatura di Galtieri, ma sta di fatto che Gloria Argelés ha saputo sviluppare un approccio alla scultura che indulge ben poco a liquorosità introiettive o a sentimentalismi di
maniera, propendendo piuttosto per un piglio sociologico dai fortissimi accenti di criticità. E´ la borghesia, infatti, l´obiettivo prioritario della nostra artista; è il suo essere arroccata in una difesa dei propri privilegi, protratta ed estremizzata fino all´assoluta cancellazione dell´identità individuale ed al cieco sodalizio coi peggiori sistemi di potere.
Non a caso - soprattutto nelle sculture lignee e cartacee degli anni ´70 ed ´80 -, è proprio la deformazione espressionistica delle fisionomie lo strumento lessicale con il quale la scultrice pone in essere la sua analisi impietosa. E non si tratta d´un mero linguaggio manierato, filologicamente debitore dell´Espressionismo storico, che metta sarcasticamente alla berlina vizi e vezzi delle elités socio-economiche (si pensi ad Otto Dix o a George Grosz); bensì d´una declinazione di gran lunga più sottile, che sfrutta le dismorfosi del soma per acclarare le dinamiche psicologiche (o, per meglio dire, le inerzie) sottese all´incondizionato appoggio offerto a qualsivoglia "potere forte" che garantisca il permanere dello "status quo". Destrutturando progressivamente i corpi - come attestato dall´esemplare Hombre del 1994 -, Gloria Argelés denuncia, con assoluta penetranza, l´inarrestabile cedimento alle lusinghe d´un "sistema" (la dittatura, per l´appunto) in grado di assicurare "a tutti i costi" la stabilità dell´ordine sociale. L´Hombre, prima schizzato e poi scolpito dalla Argelés, non è però che il preludio a quelle H-Ombre (il calembour è voluto) cui la scultrice è pervenuta con la sua attuale produzione. Ridotti a semplici sagome (realizzate con reti metalliche traforate) agite da fasci luminosi, i personaggi ideati da Gloria altro non sono che inconsistenti fantasmi, la cui evanescente identità è affidata all´indistinta apparenza dell´immagine sociale.
Un procedimento "per levare", questo della Argelés, che però è assai lontano dal dettato "michelangiolesco e neoplatonico", per cui l´opera "completa" si ottiene rimuovendo il superfluo che l´avvolge e la nasconde. Viceversa, è soltanto attraverso un´estrema desolidificazione degli impianti, che pare pervenire a pieno compimento l´enucleazione dei più profondi contenuti; e ciò senza punto rinnegare l´idea-forma, egualmente (e paradossalmente) definita per progressiva e sapiente riduzione della materia plasticata. "Corpo" e "spessore" sono quindi conferiti esclusivamente dalla luce; ma è una consistenza umbratile, dal sembiante totalmente grigio e anonimo. Declassate a svaporanti ectoplasmi, l´individualità e la coscienza borghese si nullificano dunque in una transitorietà che non lascia reliquati: nient´altro che ombre, disperse nella omologazione massificante imposta da chi "controlla" la contemporaneità.

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Sergio Lagrotteria
"A morte Galileo!"


Quando si parla di scienza e del ruolo dello scienziato nella società, secondo una prospettiva letteraria, la prima opera che viene alla mente è Vita di Galileo di Bertolt Brecht.
Quest'opera venne composta in esilio e conosce ben tre versioni, di cui le prime due più rilevanti, che hanno conferito una certa ambiguità al lavoro. Quest'ambiguità si riversa principalmente sulla figura di Galileo, giudicato in maniera abbastanza positiva nella prima stesura, visto in modo più critico nella seconda.
L'aspetto umano non viene tuttavia tralasciato dal drammaturgo di Augusta.
Brecht con quest'opera teatrale pone una serie di questioni di primaria importanza: quali sono i doveri dello scienziato nei confronti della società? quali devono essere i fini della ricerca? come porsi dinanzi agli usi illeciti della scienza?
La risposta di Brecht è fondamentalmente in linea con la sua adesione al marxismo, vale a dire che laddove manca un impegno politico dello scienziato in direzione rivoluzionaria, la scienza rimarrà in mano alle classi dominanti con conseguente sfruttamento delle classi oppresse, mantenuto con l'apparente proposito dell'autonomia della ricerca.
Eppure la figura di Galileo e dei connessi problemi posti dall'affermarsi della scienza, destò l'interesse anche di uno dei maggiori scrittori del Novecento: Robert Musil. La vita di Musil, nato nel 1880 a Klagenfurt e morto nel 1942 a Ginevra, esule dalla sua patria dopo l'avvento del nazismo, è priva di avvenimenti esteriori di rilievo. Egli fu sostanzialmente uno scienziato convertitosi alla letteratura: aveva studiato ingegneria, fisica e filosofia, con una tesi di dottorato su Ernst Mach. Visse lavorando come giornalista, bibliotecario e libero scrittore. Berlino e Vienna sono le due città di riferimento per capire il suo percorso di scrittore: la prima è la metropoli della modernità, dell'efficienza, della civiltà tecnico-scientifica, crudele e insieme vitale; la seconda era la città della nostalgia, della malinconia, dell'ambiguità intellettuale. L'incompiuto romanzo-saggio L'uomo senza qualità è il suo capolavoro: l'opera di tutta una vita che via via va costruendosi e mutando con la fusione della dimensione narrativa e di quella filosofica. In quest'opera immensa, c'è un capitolo, dal titolo singolare La scienza sorride sotto i baffi ovvero primo incontro esauriente col male, che ci interessa per via delle considerazioni che vengono svolte intorno alla scienza.
Scrive Musil: "Possiamo cominciare subito dalla bizzarra predilezione del pensiero scientifico per le definizioni meccaniche, statistiche, materiali alle quali è stato cavato il cuore"[...]. Certo, si ama e si ricerca la verità; ma intorno a quel lucido amore c'è tutta una preferenza per la delusione, per la coercizione, l'inesorabilità, la fredda minaccia o l'asciutta censura, una preferenza diabolica, o almeno una involontaria irradiazione di sentimenti del genere".
Molti avevano rivolto e ancora oggi rivolgono critiche al metodo scientifico, ai suoi limiti, alla convenzionalità e ipoteticità delle sue conclusioni, alla sua fredda precisione. Ma Musil va in una direzione diversa: in queste pagine lo scienziato viene accusato non per la sua impossibilità a giungere a verità certe e incontrovertibili, ma proprio per la sua determinazione, il suo sforzo, il suo impegno a produrre risultati demoralizzanti sul piano sociale e dell’esistenza in generale. In conseguenza di ciò, lo spirito scientifico appare come una più o meno cosciente perversione dello spirito umano, producente effetti per i quali il maligno ispiratore "sorrideva sotto i baffi". La scienza, se ci poniamo secondo un punto di vista weberiano, realizza il disincantamento del mondo, e comunque mette alla prova le qualità dello scienziato, ponendolo a confronto con un mondo concreto, senza fronzoli, che pretende nella ricerca rigore, precisione e onestà. Ma Musil è maliziosamente scettico circa tali virtù e, all' interrogativo su quali siano le qualità che portano ad invenzioni e scoperte, afferma: "Libertà da scrupoli e riguardi tradizionali, spirito di iniziativa e di distruzione in uguale quantità, esclusione di considerazioni morali, paziente mercanteggiamento del minimo vantaggio, tenace attesa sulla via del successo", ossia i vizi antichi dei cacciatori, dei mercanti, dei soldati. Una riflessione questa ancor oggi valida vista la tendenza attuale a legare l'attività di ricerca alle esigenze del mondo della produzione. C'è poi un altro aspetto anche più rilevante: la predilezione per le misure e i numeri, che si rinviene in ogni ricercatore, secondo Musil, è solo l'espressione della diffidenza verso ogni cosa incerta, verso le sfumature, verso il polo occulto, ma essenziale dell'interiorità, con la conseguenza di rafforzare la persuasione che in questo mondo "non ci possa fidare di nulla che non sia ben fermo al chiodo". Perciò quelle dimensioni legate alla creatività umana, alla vita dell' anima, che hanno espresso lo spirito e la grandezza di varie civiltà, appaiono vacui e secondari esercizi nell'esistenza dell'uomo contemporaneo in piena crisi, svuotato delle sue qualità e incapace di percepire il ghigno infernale che lo soggioga.
Le domande da porsi in relazione a simile situazione sono allora: come è nato tutto questo? da che cosa è scaturito questo spirito del male che ci ha condotto "nel bel mezzo del miracolo dell'Anticristo"? Musil individua implacabilmente il colpevole nel fondatore della scienza moderna: Galileo Galilei.
Mentre la Chiesa recentemente ha chiesto perdono al mondo moderno per aver condannato con Galilei le conquiste della scienza, Musil scaglia un anatema terribile ed esclama: "La Chiesa cattolica ha commesso un grave errore minacciando di morte un tale uomo e costringendolo alla ritrattazione invece di ammazzarlo senza tanti complimenti; perché il suo modo, e quello dei suoi simili, di considerare le cose, ha poi dato origine [...] agli orari ferroviari, alle macchine utensili, alla psicologia fisiologica e alla corruzione morale del tempo presente, e ormai non può più porvi rimedio". L'aspetto notevolmente paradossale è che, nella sua condanna, Musil non cita, pur non ignorandole, le armi, giunte da tempo a una distruttività a livello planetario, e la distruzione dell'ambiente, vale a dire ciò che l' uomo moderno addebita alla scienza, ma proprio i crediti della scienza, ossia ciò che si è soliti ritenere il suo aspetto positivo: la precisione delle sue tabelle, la praticità delle sue macchine e quella psicologia da cui molti oggi sono attratti.
In tali esiti "positivi" egli vede i responsabili della resa dello spirito umano, adagiato in un benessere senz'anima, e della sua rinuncia a quelle grandezze, a quelle vette dello spirito, cui la scienza moderna si è tolta il gusto "di dar lo sgambetto [...] e di vederle sbattere il naso per terra". A giudicare dalla situazione attuale, si può dire che abbiamo ancora il naso rivolto a terra e forse qualcuno se la ride...

NOTA

Sergio Lagrotteria è nato a Sesto San Giovanni, dove tuttora vive e lavora.
E’ laureato in Lettere moderne con una tesi sull'estetica sensistica e il suo influsso sul pensiero poetico e filosofico di Giacomo Leopardi.


Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2003)
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Sergio Lagrotteria
Kala


Mircea Eliade sosteneva ne Il sacro e il profano che l'uomo moderno non sarà felice fin quando non avrà ucciso l'ultimo dio. Senza necessariamente condividerla, con tale affermazione individuava una tendenza dell’epoca moderna che oggi appare ampiamente diffusa. Ed un luogo, se è lecito chiamarlo tale, dove la presenza del divino e del sacro è ancora profondamente viva, sebbene intaccata dalla modernizzazione industriale e tecnologica, è l’India. Per esprimersi sugli uomini, è opportuno condividerne la vita e i pensieri. Già nel 1955 il grande antropologo Claude Levi-Strauss, a proposito dell’India, scriveva con esemplare distacco in Tristi Tropici:
"Sia che si tratti delle città mummificate del Mondo Antico, che delle città in gestazione del Nuovo, siamo abituati ad associare i più alti valori morali e spirituali, solo alla vita urbana. Più che città, quelle dell'India sono zone abitate; e ciò di cui ci vergogniamo come di una tara, ciò che consideriamo una lebbra, costituisce qui il fatto urbano nella sua essenza: l'agglomerato di individui il cui scopo è di agglomerarsi a milioni, prescindendo dalle condizioni reali. Sporcizia, disordine, promiscuità, sfioramenti; rovine, capanne, fango, immondizia; umori, sterco, orina, pus, secrezioni; tutto quello da cui la vita urbana sembra difenderci, tutto ciò che noi odiamo, tutto quello da cui ci garantiamo a sì alto prezzo, tutti quei sottoprodotti della coabitazione, qui non diventano mai un ostacolo al suo sviluppo. Costituiscono piuttosto l'ambiente naturale di cui la città ha bisogno per prosperare. Per ogni individuo la strada, vicolo o sentiero, è il luogo dove siede, o dorme, o raccoglie il suo nutrimento nella vischiosa sporcizia. Lungi dal respingerlo, essa assurge a dignità domestica, per tutto il sudore, le sozzure, i movimenti e le azioni che essa riassume.
Ogni volta che esco dal mio albergo a Calcutta, davanti a cui le vacche circolano liberamente e le cui finestre servono da trespolo per gli avvoltoi, divento il centro di un balletto che troverei comico se a un certo punto non ispirasse pietà.
Vi si possono distinguere vari numeri, tutti magistralmente recitati:
il lucidatore di scarpe che si getta ai miei piedi;
il ragazzino dalla voce nasale che si precipita: one anna, papa, one anna!
l'infermo quasi nudo perché si possano meglio notare i suoi moncherini;
il mezzano: British girls, very nice...;
il venditore di clarinetti;
il fattorino del New Market che supplica di comprare tutto, non perché vi sia direttamente interessato, ma perché le annas che guadagnerà portandomi i pacchi gli permetteranno di mangiare. Egli illlustra il catalogo con la stessa concupiscenza come se tutti quei beni gli fosseto destinati: Suit-cases? Shirts? Hose?...
Infine tutta la truppa di piccola gente: procacciatori di risciò, di gharries o di taxi. Ce ne sono quanti se ne vogliano a tre metri, lungo il marciapiede. Ma chi sa? potrei essere un personaggio così importante da non degnarsi di vederli...
Senza contare la coorte dei venditori, bottegai, imbroglioni, ai quali il vostro passaggio annunzia il Paradiso: forse voi acquisterete qualcosa.
Chi volesse riderne o irritarsi se ne guardi bene, come da un sacrilegio. Sarebbe assurdo censurare quei gesti grotteschi, quei movimenti contorti, sarebbe criminale deriderli invece di vedervi i sintomi clinici di un'agonia. Una sola ossessione, la fame, ispira quel contegno disperato; quella fame che scaccia le folle dalle campagne, facendo aumentare la popolazione di Calcutta, in pochi anni, da due a cinque milioni di abitanti; che ammassa i fuggitivi negli angiporti delle stazioni dove li si scorge, passando col treno, la notte, addormentati sulle panche e avvolti nella cotonata bianca, oggi vestito e domani sudario; ed è sempre la fame a conferire la sua tragica intensità allo sguardo del mendicante che incrocia il vostro, attraverso le sbarre metalliche dello scompartimento di prima classe, sbarre che, come il soldato in armi accolato sul marciapiede, vi proteggono da questa muta rivendicazione di un solo, che potrebbe tramutarsi in un urlante tumulto se la compassione del viaggiatore, più forte della prudenza, non frenasse questi condannati con la speranza di un'elemosina".
Invece, un nostro esigente scrittore come Giorgio Manganelli, quando nel 1975 giungerà in India, definita "casa-madre dell'Assoluto", resterà come tramortito. Nel suo resoconto Esperimento con l'India, esprimerà lo sconcerto di un viaggiatore che lì non può che perdere il suo naturale dominio e senso delle proporzioni: "Ho l'impressione che l'India sia un luogo ad alto tenore di Dio, una foresta che produce scimmie, pavoni ed asceti; qui esistono ancora i Maestri. i Profeti, e quando si parla della Verità non si allude a un caso giudiziario, ma alla Verità totale, cosmica; ecco l'India non sarà mica un paese cosmico?”.
In gran parte, sono parole valide anche per l’oggi. Ma naturalmente qualcosa è cambiato e, ai fini del nostro discorso, ci viene incontro lo scrittore indiano Suketu Mehta che, nella sua opera Maximum city, racconta le varie anime di Bombay, ora Mumbai, la città degli eccessi, offrendo un paradigma emblematico, sia pur non esaustivo, dell’India attuale.
Egli ci accompagna in una delle città più grandi del mondo, descrivendone i meandri e facendoci ascoltare le voci dei suoi abitanti: dal malavitoso al borghese arrivato, dai protagonisti del mondo cine-dorato di Bollywood agli abitatori degli slums, territori assai più piccoli rispetto alla superficie della città e dove vive come in un formicaio la maggior parte della popolazione, dalle ballerine di night club della bar-line agli scontri tra le comunità musulmana e indù.
Mumbai è un labirinto di cui è impossibile stabilire l'ingresso. L’esplosione demografica si salda con la frammentazione del tessuto urbano e sociale. Eppure c’è chi vuole fuggire questa città che offre occasioni di riscatto dalla povertà.
In un capitolo del libro, Mehta ci introduce alla scelta di una ricca famiglia, seguace della religione giainista, di abbandonare il mondo, nonostante l'agiatezza e il benessere economico raggiunto. I suoi componenti lasceranno tutto andando perennemente raminghi, senza trasgredire, in nessun caso, i cinque voti della loro religione: non-violenza assoluta, mai menzogne, mai rubare, astinenza sessuale e affettiva. Per abito due pezzi di stoffa non cuciti, niente scarpe; capelli rasati ogni sei mesi, nessun mezzo di trasporto, nessuna "comodità" con sé (telefono, radio, apparecchi elettrici et similia). Tale gesto definitivo di prendere commiato dal mondo prende il nome di diksha. Il diksha, una volta attuato, prevede comportamenti rigorosi. Nel giorno del diksha verrà fatto l'ultimo bagno della propria vita e non si metterà mai più piede in una pozza d'acqua, perché qualora si dovesse mettere inavvertitamente un piede in una pozza d'acqua, si ucciderebbero non solo minuscoli organismi acquatici ma anche l'unità dell'acqua. Inoltre nella stagione delle piogge si starà fermi in un posto; non ci si bagnerà in stagni, fiumi, mari; e, in caso di pioggia, si starà al coperto; quando farà molto caldo, sarà lecito, talvolta, inumidirsi la pelle con un pezzo di stoffa bagnata. E' possibile lavare gli indumenti una sola volta al mese, e ripulire la ciotola del cibo dopo mangiato. Alcune poesie indiane del passato, anche se di diversa matrice religiosa, rendono assai bene l'intensa spiritualità religiosa sottesa a queste decisioni e,anche, più semplicemente, a un modo di vivere.


Sudraka, Come un ospite
Povertà, davvero sono in pena per te,
amica che dimori nel mio corpo:
decomposte le spoglie disgraziate
- questa la mia angoscia - tu dove andrai?

Qui la povertà, ciò che noi occidentali rifuggiamo sommamente, è un ospite che, dopo la morte fisica, non ha scampo e per la quale si può provare solo compassione…

Bhartrhari, Nella mano solo una ciotola
Solo, senza desiderio, in quiete,
nella mano una ciotola, vestito d'aria:
quando Siva, mi riuscirà
di sradicare il karman?

Lo sforzo intenso, la solitudine povera e immobile, il desiderio di conseguire la liberazione. Il dubbio, comunque assale.

Bhartrhari, Incertezza
Dobbiamo forse essere asceti vivendo lungo il fiume degli dèi?
O insieme a spose nobili per virtù praticare la misura?
Suggere le correnti delle scienze o le diverse linfe
d'ambrosia della poesia?
Non sappiamo che cosa è bene, in questa vita che dura
pochi battiti di ciglia.

Come dobbiamo comportarci, con misurata saggezza o con radicale ascesi, per essere salvi? L’incertezza governa il nostro cammino nella vita, che a sua volta è così corta… Addio mondo dunque, recidere ogni legame con la vita terrena e ottenere la moksha ossia la salvezza. E la salvezza consiste nel liberarsi dalla costrizione a rinascere. La vita terrena col suo ciclo di nascite e morti (samsara) merita di essere abbandonata, così come la salvezza (moksha) merita di essere raggiunta.
Non si tratta solo di uscire dal mondo abitato, dalla città, dall’ecumene: è necessario ripristinare ricongiungendosi l’ordine eterno che è stato spezzato (vyavastha). E per raggiungere questo fine bisogna uscire dal tempo (kala).
In sanscrito il termine kala è usato sia nel senso di periodi di tempo relativo, sia di durate infinite, di eternità.
Se il tempo, in quanto maya (potenza dell'illusione), è anch'esso una manifestazione della Divinità, vivere nel tempo non è, in sé, una cattiva azione: la cattiva azione è credere che non esista altro al di fuori del Tempo. Si è divorati dal Tempo, non perché si vive nel Tempo, ma perché si crede nella realtà del Tempo e, di conseguenza, si dimentica o si disprezza l'Eternità.
Questa è la grande lezione che proviene dall’Induismo.
Non ci si può arrestare per così dire alla prima parvenza del Tempo.
La Grande Illusione cosmica è una ierofania, una manifestazione del divino; il fondamento ultimo delle cose al contempo è costituito dalla maya e dallo Spirito Assoluto, dall'Illusione e dalla Realtà, dal Tempo e dall'Eternità.
Lo yogin finisce col diventare un jivan-mukta, un "liberato dalla vita".
In India ogni cosa, ogni idea e ogni creatura, grande o insignificante e sia, è un'espressione del divino: tutto è Dio e Dio si manifesta nei molti: onnipresente, onnipervadente e all'Uno Dio tende l'intero universo.
L’uscita dal tempo si configura come ricongiunzione con l'Eterno perché il transeunte, non si può reggere se non sull' Eternità: è ricompreso nell’Eterno.
Una poesia sulla liberazione e una celebre orazione liturgica contenuta nelle Upanisad, per concludere, manifestano efficacemente tale orientamento spirituale.

Anonimo, La liberazione

Nel giro di infinite rinascite
ho vagato invano
cercando il costruttore della casa:
nascita è dolore, ancora e ancora!

Costruttore, sei stato riconosciuto:
più non costruirai questa casa!
Spaccate sono tutte le tue travi,
distrutta la chiave di volta:
giunta all'assenza d'immagini il pensiero
ha trovato l'estinzione d'ogni sete.

Upanisad

Conducimi dall'irreale al Reale,
dalle tenebre alla Luce,
dalla morte all'Immortalità.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
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Sergio Lagrotteria
Arginare l'oblio



Il tempo scorre inesorabilmente per tutti e ci consegna alla morte. E con la sua consueta e pungente ironia Lichtenberg ci ricorda che una tomba è pur sempre la miglior fortezza contro gli assalti del destino. Tuttavia, che cosa rimane di noi? delle nostre vite, trascorse sostanzialmente nell'anonimato? E' questa la domanda fondamentale che ci ha posto Christian Boltanski nella sua mostra Ultime notizie tenutasi al PAC di Milano lo scorso anno.
E' stata una mostra incentrata sui temi del trascorrere del tempo, della memoria e della morte.
Boltanski, nato a Parigi nel 1944, dopo aver abbandonato la pittura verso la fine degli anni Sessanta, ha scelto la strada dell'arte concettuale con implicazioni ambientali impiegando nelle sue installazioni gli oggetti non per se stessi o per la loro forma, ma per la loro segreta capacità di evocare persone o avvenimenti passati, strappandoli così all'oblio, alla dimenticanza.
Al PAC così ci siamo trovati di fronte a volti di sconosciuti, figure sbiadite, fotografie e mescolanze di luci ed ombre attraverso le quali riaffiorano le storie di persone anonime, di vite qualsiasi, oltre che di Boltanski stesso, calate in un clima irreale, sospeso tra la vita e la morte, che esprime con lucida consapevolezza la provvisorietà del nostro percorso esistenziale.
Ogni istante della nostra vita vissuta si trasforma immediatamente in un momento passato e la velocità e facilità con cui dimentichiamo diventa il vero problema del genere umano. Les abonnès du télèphone, era l’opera d’apertura della mostra: 2.639 gli elenchi telefonici da sfogliare e consultare, un piccolo mondo, una geografia molto sui generis entro cui cercare nomi familiari e far rivivere memorie. Collezionati nel corso degli ultimi dieci anni sono stati sistemati in una libreria, con panche e tavoli per la consultazione.
In questo caso, Boltanski ha selezionato, conservato e catalogato, proprio con lo spirito meticoloso di archivista.
Altrove ha puntato molto sulla fotografia, elemento costante nelle sue installazioni, come ad esempio in Entre temps, una serie di sette fotografie, che mostrano l'artista tra i 7 e i 58 anni e che si sovrappongono in dissolvenza incrociata, evocando l'evoluzione della vita e la trasformazione del corpo; in Contacts, otto teche contenenti piccole fotografie di Boltanski stesso, di persone da lui incontrate e di qualche oggetto feticcio. O infine in Les portants, dove, fissate su porta-abiti, fotografie prese dal giornale sensazionalistico francese Détective ritraggono mischiate vittime e assassini. Qui la volontà di salvare dall’oblio ha un risvolto tragico e inquietante: rievocare le vittime di una violenza comporta il salvare dall’oblio anche i carnefici cui sono drammaticamente associati. È una memoria tragicamente duale, impregnata di pietà e orrore, soprattutto quando sono coinvolti i bambini.
Logicamente collegato al tema della memoria è lo scorrere inesorabile del tempo, puntualmente attestato dalla voce di Horloge parlante, che, secondo dopo secondo, indicava l'ora. In un'altra opera 6 septembres, Boltanski ha invece registrato e proiettato tutte le notizie del telegiornale trasmesse nel giorno del suo compleanno, il 6 di settembre appunto, dall'anno di nascita sino ad oggi. Tali notizie scorrevano a una velocità accelerata, pertanto in meno di cinque minuti era possibile "visionare" sessant'anni di storia: una vera e propria enciclopedia visiva, molto personale e di difficile consultazione.
Passando al tema della scomparsa, della morte, troneggiava lapidaria la scritta Tot ("morto" in tedesco) riportata su una parete per mezzo di lampadine luminose, quasi fosse un lucernario.
Era poi possibile riflettersi negli specchi scuri di diverse dimensioni, posti in un antro quasi buio, delle Images noires, mentre voci bisbiglianti nomi richiamavano l'attenzione del visitatore. Le Images sono un’opera molto intrigante che fa pensare al mondo oscuro dell'oltretomba che ci attende in cui sarà impossibile vedere e vedersi: saremo davvero letteralmente l'ombra di noi stessi. I contorni del nostro viso allo specchio appaiono molto vaghi e incerti e acquistiamo in qualche modo consistenza solo se qualcuno (i morti o chissà quali entità) ci chiama per nome che rimane l'unico segno di riconoscimento, un puro suono sebbene in comune a tanti altri esseri umani. Mentre nella vita ci possiamo osservare davanti a uno specchio e cogliere i cambiamenti che il tempo imprime sul nostro corpo. Nella morte ciò non è concesso. Qui il tempo non scorre più.
Al primo piano del PAC, vi erano le scarne lapidi di Mes Morts con indicate le date di nascita e morte di persone care a Boltanski: la vita viene mestamente ridotta a un trattino tra due date. Più in là, l'installazione Coeur poneva fine alla mostra: in una sorta di scatola buia una lampadina trasmette, a intermittenza, i battiti del cuore dell'artista. Una forte carica di silenzio crea un'atmosfera solenne, in cui l'evocazione della vita si intreccia quella della morte, che diventa nuda protagonista. Una mostra dunque di grande impatto: la trasparenza dei volti sui fogli di acetato, la labilità delle immagini, un'atmosfera fatta di tenui luci artificiali e di colori scuri bene colgono e rappresentano la labilità della vita e del ricordo, inducendo senza compiacimenti alla riflessione e al raccoglimento, vista la tendenza della nostra società ad esorcizzare la morte.
Ogni opera genera la sensazione del passaggio, della precarietà effimera della vita, lasciando irrisolta la domanda sul senso della nostra presenza nel mondo.

Un interesse analogo per tali tematiche lo troviamo nello scrittore serbo-croato Danilo Kis (1935-1990), in modo particolare nel suo racconto L'enciclopedia dei morti, pubblicato per la prima volta a Belgrado nel 1981 sulla rivista Knjizevnost. Stando alla narrazione, L'enciclopedia dei morti sarebbe una celebre opera iniziata poco prima del 1789 e costituita da migliaia di volumi, dove sono riportate solo le voci riguardanti persone che non sono presenti in altre enciclopedie, ossia la folla immensa degli ignoti, le cui vite sono state trascritte in "un'incredibile amalgama di concisione enciclopedica e di eloquenza biblica".
Ebbene, questo racconto, pur essendo opera di fantasia, possiede sorprendenti agganci col mondo reale: infatti, nei pressi di Salt Lake City, nello stato dello Utah, all'interno di gallerie scavate nella roccia, sono conservate dai mormoni i dati di più di diciotto miliardi di persone, vive e defunte.
L'obiettivo finale di questa impresa ciclopica è di catalogare su microfilm l'intero genere umano, vivente che sia o già trapassato; e tale fine si spiega con l'assunto, fondamentale per i mormoni, che la genealogia rappresenti un cardine basilare della religione. Da ciò ne consegue che qualunque mormone è in grado, grazie a quest'archivio, di far ritorno nel passato e, ripercorrendo il proprio albero genealogico, di impartire con valore retroattivo il battesimo a tutti quegli avi rimasti privi della rivelazione mormonica.
Ma ritorniamo al racconto, la narratrice protagonista è ancora segnata dalla recente morte del padre Djuro M., che soffriva di un enfisema e venne a mancare a causa di un sarcoma all'intestino.
Nel corso di una visita in Svezia, ha l'occasione, una sera, di entrare nella Biblioteca Reale, dove si imbatte nella famosa Enciclopedia dei morti, migliaia di corposi volumi che raccolgono in dettaglio informazioni relative a persone decedute.
Trova la biografia di suo padre e prende appunti: cinquant'anni della sua vita a Belgrado sono riassunti in alcune fitte pagine. Oltre agli eventi principali della sua vita, nessun dettaglio appare irrilevante: "la caduta dalla bicicletta e la ferita al gomito nei dintorni di Cantavir; il viaggio di notte in un carro bestiame sulla linea Senta-Subotica; la grande bevuta con certi ingegneri russi a Banovici; la violenta discussione con certo Petar Jancovic"; e via dicendo...
Il testo è inoltre corredato da una foto del padre e da un fiore disadorno.
Ormai non più giovane egli aveva cominciato a dipingere motivi floreali simili a quello riportato nel volume. Secondo l'Enciclopedia, il suo interesse per la pittura cresceva in parallelo con il sorgere e l'evoluzione della malattia. Infatti la storia si conclude con la narratrice che si risveglia improvvisamente e ha modo di notare come il fiore presentasse le sembianze del sarcoma che "fioriva" dentro il corpo del padre contrassegnandone definitivamente la vita.
Un sogno dunque, ma che simbolicamente e umanamente vorremmo fare tutti noi quando viviamo situazioni simili, senza tralasciare poi il fatto che secondo tante culture i morti vengono a farci visita nei sogni...
In un altro racconto (E' glorioso morire per la patria) Kis aveva scritto nel finale:"gli scrittori fantasticano. Certa è solo morte.": tale conclusione rappresenta una valida chiave di lettura per cogliere l’intensa poesia che si sprigiona nel racconto, oltre che nella sua opera complessiva.
Nel corso della narrazione, lo scrittore sottolinea ciò che rende l'Enciclopedia unica, vale a dire non solo il fatto di essere il solo esemplare esistente, ma anche il modo davvero speciale di rappresentare le relazioni, gli incontri, i paesaggi e gli innumerevoli dettagli che riempiono una vita. In essa risalta il valore, la profondità e il significato di ogni vita.
Kis dispone le sue dighe all'oblio, mostrando, attraverso la protagonista, quale sia il messaggio dell’Enciclopedia: che nulla si ripete mai nella storia degli esseri umani: ciò che a prima vista appare identico è in realtà solo simile e ogni uomo è un mondo a sé.
Il Libro dei Re, il Libro della Genesi sono racconti, inventari, elenchi di nomi, mentre quest'opera lo in è parte, poiché trovano spazio anche gli stati d’animo di ogni singolo uomo, la sua personale concezione del mondo e di Dio, i suoi dubbi, la sua etica. Inoltre, riportando tutta la ricchezza di particolari di cui è composta una vita umana, viene messo in rilievo come gli oscuri compilatori credano "nel miracolo della resurrezione biblica e attraverso questo enorme schedario non preparino altro che l'arrivo di questo momento".
Si tratta di “registrare tutto ciò che è possibile registrare su coloro che hanno compiuto il loro viaggio terreno e si sono diretti verso i sentieri dell’eternità”.
In tal modo, ognuno potrà ritrovare non solo i suoi cari, ma principalmente il suo passato dimenticato. L'Enciclopedia avrà allora assolto il compito per il quale è stata pensata: sarà insieme un immenso "tesoro di ricordi e l'unica prova della resurrezione".
Tale dimensione, va anche posta in relazione al senso e al significato dello scrivere, perché, come Kis scrive altrove con problematica speranza, “forse resteranno se anche tutto ciò dovesse essere sommerso in un diluvio universale, sì resteranno la follia e il mio sogno, come un’aurora boreale e un’eco lontana. Forse, qualcuno scorgerà il chiarore di questa aurora, forse sentirà questa eco lontana, ombra del suono di un tempo, e comprenderà il senso di quel chiarore, di quello scintillio”.
Kis si pone su un terreno già indagato dalla filosofia, in particolare durante il Novecento (da Heidegger: l’esserci come essere-per-la-morte, in Sein und Zeit, a tanta altra riflessione di matrice esistenzialistica, ma non solo) con la differenza, nutrita di disincantata poesia, che la conservazione di nomi, volti, circostanze sia l’unica risposta (di ordine non necessariamente religioso) a quel cieco salto finale che è la morte, ovverosia possa essere l’unico ponte fra i vivi e i morti. Vite cancellate sono unicamente quelle prive di memoria, quando non rimane nessuno che le possa ricordare: una sorta di palude definitiva che tutto ricopre. Nella morte si vive più che mai l'esperienza del legame da parte di chi muore e di chi sopravvive e dunque tocca a noi non spezzare i legami con chi ci ha preceduto.
E’ dunque “necessario” che qualcuno raccolga un segno sia pur piccolo della nostra esistenza? Kis, con lo strumento quotidiano e arduo della parola, ci dice di sì: è un compito umano per nulla trascurabile, è un darsi la mano tra le generazioni che forse un giorno avrà fine, ma che almeno ci renderà degni dinanzi a noi stessi. E' la sacralità della memoria.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
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Sergio Lagrotteria
Intervista a Roberto Dossi


Roberto Dossi è nato il 6 luglio 1974 e vive a Osnago. Le sue esperienze di vita, dopo aver lavorato come fabbro, lo hanno portato ad incontrare la poesia.

-Quando e perché è nata l'idea di fondare una casa editrice?
La casa editrice Quaderni di Orfeo è nata poco più di un anno fa, nel settembre del 2003. Tu sai che scrivo poesie e, dopo anni di letture e di riflessioni sul mondo dei libri, è sorta in me la decisione di cimentarmi in questo campo.
Sono stato spinto, per così dire, da un lato dalla necessità di dare la possibilità ad altri poeti di vedere le loro opere pubblicate in un lavoro che porta con sé ancora il tempo di vivere l'oggetto poetico con il sapore della manualità, della ricerca della carta, dei caratteri, del disegno originale o dell'incisione; dall'altro, dall'incontro con la poesia di Rainer Maria Rilke, dal mio grande amore per l'uomo Rilke, da tutto quello ruota intorno a lui, e dal desiderio di pubblicare, in una nuova traduzione, quale prima opera il Requiem per un'amica, composto a Parigi per la morte dell'amica pittrice Paula Becker.
-Anche se lo si può intuire dal riferimento a Rilke, come hai scelto il nome della tua casa editrice ossia "Quaderni di Orfeo"?
Nasce semplicemente dall'unione dei Quaderni di Malte Laurids Brigge e dai Sonetti a Orfeo, due opere straordinarie del poeta praghese.
-Quanto ha contato l'esperienza da te maturata al fianco di Alberto Casiraghy della Pulcinoelefante?
Sicuramente è stata importante sotto diversi punti di vista per l'importanza dell'aspetto artigianale legato alla produzione dell'oggetto libro, di un libro figurato d'artista, stampato a mano; poi naturalmente le strade divergono, anche se ancora oggi collaboro con Alberto.
-Altri collaboratori, oltre che amici, sono Dario Borso, che insegna Storia della Filosofia all'Università degli Studi di Milano, e Luciano Ragozzino, incisore...
L'incontro con l'incisore e stampatore delle edizioni Il Ragazzo Innocuo Luciano Ragazzino e con Dario Borso mi ha dato la possibilità di iniziare realmente la realizzazione dei Quaderni di Orfeo, di comprendere il grande lavoro che sta dietro un libro, stampando a mano con una macchina tipografica a caratteri mobili nella Stamperia dell'ex Gelateria di via Guinizelli. E il primo frutto è stato appunto il Requiem per un'amica, con la traduzione di Dario e un'incisione di Luciano. Da qui siamo andati avanti!
-Quali gli autori o le tematiche che privilegi?
Nella scelta dei testi prevale forma del poemetto, poema di piccole dimensioni di vari argomenti, in modo particolare, ma non esclusivo, di poeti stranieri da riproporre in una nuova traduzione. I quaderni sono, come dicevo prima, stampati a mano con caratteri Garamond, Bodoni, su diversi tipi di carte Hahnemuhle, Magnani, con sovraccoperte di carte colorate, o stampate con linoleum; per cui ogni quaderno è sempre un progetto diverso all'interno del progetto generale, un progetto accompagnato dalla mano di artisti come Dorazio, Paladino,con opere originali, disegni, incisioni, con diversi formati, tutti numerati e firmati nel colophon dagli autori, in una tiratura limitata che va dalle quaranta alle settanta copie.
-Pensi di ampliare la gamma della tua offerta?
Questo lo si vedrà man mano, però ti posso anticipare alcune prossime stampe: Sette poeti per Rainer Maria Rilke, Sette poetesse per Marina Ivanova Cvetaeva, Giampiero Neri con Piano d'erba e altre ancora.
-Dammi una valutazione degli aspetti positivi e negativi del mondo dei piccoli editori di oggi...
Beh, ci sono tanti piccoli editori che fanno cose egrege, che hanno lo spirito e le capacità con cui anch'io tento di realizzare libri. Certamente non viviamo d'aria, abbiamo anche noi bisogno di mangiare, tuttavia la passione per la poesia, per la ricerca di nuove voci poetiche oppure di riscoperta di autori del passato ha chiaramente il sopravvento: infatti prevedo di pubblicare giovani poeti come Zanchi o Valeria Sorrentino, poeti in cui credo e sui quali sono disposto a sommettere, a rischiare. Io non chiedo di pagare come invece molti fanno spacciandosi per editori: personalmente non li ritengo tali. Non ho poi la smania, come altri, di pubblicare a tutti i costi i grandi nomi, quelli affermati, pur conoscendone diversi e pur avendoli stampati: anche il poeta importante può scrivere versi mediocri. Oppure a volte non c'é la giusta opportunità. Avevo, ad esempio, la possibilità di pubblicare un saggio di Mario Luzi su Rilke, scritto negli anni '50, ma ci ho rinunciato perché non ne vedevo la connessione col mio progetto editoriale ....insomma... per farla breve... spesso nel mio lavoro per un sì ci sono dieci no.
-Oltre che editore sei anche poeta, raccontaci quando è nata in te la passione per la poesia? Quali poeti hanno lasciato tracce profonde su di te? qual è un tema che ti è particolarmente caro?
Mah, io ho cominciato a lavorare come fabbro, lavoro che poi ho lasciato, e mi sono gettato a vent'anni nel mondo della poesia. Tante letture, ma anche tanti incontri, e tra questi Rilke, scusa se mi ripeto, e la Merini, donna fuori dal comune e che mi ha dato molto. Un tema che ritorna con frequenza nelle mie poesie è quello della morte: quando se ne parla, fa paura, mentre in me suscita curiosità, attenzione, perché in fondo rappresenta un mondo sconosciuto da avvicinare.
-Tu hai il piacere, come hai appena detto, di conoscere personalmente Alda Merini che ti ha dedicato, tra l'altro, varie poesie: ricordo Ritorna al vento della poesia in Clinica dell'abbandono, pubblicato presso Einaudi; qual è la tua opinione su di lei come poeta e che cosa pensi che la differenzi dagli altri poeti?
Posso dire di essere molto vicino alla Merini, intimo in un certo senso; mi ha dedicato diverse poesie e questo chiaramente mi onora... a volte mi chiama alle tre del mattino per dettarmi i suoi versi tanto per dirti il grado di confidenza che tra noi.
Va detto che forse la sua passione per la poesia è stata in parte strumentalizzata portandola alla pubblicazione di troppe raccolte. Io, personalmente, mi sento più misurato: in dieci anni ho pubblicato una sola raccolta, benché potessi pubblicarne altre. Questo perché quando si scrivono dei versi, bisogna far passare del tempo per verificarne meglio la forza, la profondità...
Comunque, la Merini per la sua umanità, la sua ricchezza interiore, è poesia, è la Poesia, non semplicemente una poetessa.
-Un tuo giudizio sulla situazione attuale in relazione al pubblico che legge poesia; che ne pensi poi delle iniziative di pubblica lettura come quella di Dante da parte di Sermonti, qui a Milano, che ha avuto un grande successo...
Non è facile dare giudizi: sicuramente la poesia non ha una grande tiratura. Mi auguro naturalmente una maggiore diffusione, ma non ne faccio un dramma. La poesia bisogna andarla a cercare... ritengo che sia un'esperienza che vive della solitudine della lettura, nata un'esigenza intima, molto personale. Pur non disprezzandole, iniziative di pubbliche letture come nel caso che citavi tu mi danno più la sensazione di eventi spettacolari che non di vera ricerca personale.

Intervista curata da Sergio Lagrotteria

NOTA

Roberto Dossi, nato poeta, intrattiene il demone due volte, scrive e impagina di sé e degli altri, accordando opere su carta e parole nei Quaderni di Orfeo.

Intervento pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
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Sergio Lagrotteria
Occhio bambino



Il genio non è altro che l'infanzia ritrovata per un atto di volontà (Charles Baudelaire)

Tra i nuovi orizzonti che l'arte del Novecento (ri)scopre vi è quello dell'infanzia: un mondo percepito come depositario di quella innocenza, purezza, fantasia, ingenua spontaneità perdute a seguito dell' avanzare del disincanto generato dalla moderna civiltà occidentale.Qui si propone un percorso breve e molto personale, mostrando l'importanza che la componente "infantile" ha avuto in parecchi artisti, pur non essendo, ovviamente, la sola.

Negli anni che vanno dal 1909 al 1914, in cui si affermano le avanguardie storiche, Wasilij Kandinskij, accentuando l'uso dei colori individua la strada maestra del suo cammino. Ad esempio, un'opera del 1911, intitolata Arabi III si ispira al disegno della figlia di un' amica avente lo stesso soggetto. Kandinskij sottolinea come in ogni disegno infantile la risonanza interiore dell'oggetto si sveli da sé, portandolo così a elaborare nei suoi lavori proprio questa risonanza attraverso la separazione del colore dalla forma e la trasfigurazione di tetti di città, colline o personaggi delle tradizioni popolari russe in un turbinio di immagini.

La forza intensa del colore gli proviene direttamente dai ricordi dei primi anni di vita: il verde, il bianco, lo scarlatto, il giallo "li vidi in vari oggetti che oggi non ho più davanti agli occhi così nettamente come quei colori". Per Kandinskij, è la rivelazione di un' energia che trasforma i colori e libera gli oggetti nello spazio e nell'Almanacco del Cavaliere azzurro alla fine troveranno spazio nove disegni di bambini.
Sono gli anni in cui, per lasciarsi alle spalle la crisi dei valori accademici e tradizionali, le arti visive si rivolgono, come non era loro mai accaduto prima, all'universo infantile che può condurle fuori della cultura occidentale, avvertita come un limite angusto. L'imperativo è quello di ricominciare, tornare alle origini, guardare oltre o lontano; e nella creatività dei bambini i singoli artisti trovano il vero fondamento delle proprie doti: come Franz Marc, che recupera magicamente dall'infanzia i suoi cavalli azzurri, verdi, rossi e gialli: animali che paiono usciti da una fiaba, in una prospettiva di ricerca della perduta condizione originaria dell'uomo. L'infanzia non è però uno stato permanente: purtroppo la pubertà toglie ai bambini quei doni che la natura gli ha elargito. Così tocca agli artisti conservare o recuperare quello stato originario.

Alcuni lo fanno all'interno delle avanguardie, più o meno costituite, come Matisse o Klee. In particolare, l'opera di Paul Klee si situa sull'altro versante della pittura. La sua straordinaria immaginazione ricrea ciò che gli occhi non hanno visto. Egli guarda all' interno, non all'esterno: celebre è la sua affermazione secondo cui l'arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è. L'apparente semplificazio-ne infantile di tanti dipinti è il risultato di una gestazione mentale, aperta al mondo dell'udibile, del visibile, del leggibile, in cui la fantasia dispone gli spazi, i colori e le linee, che, come amava dire, erano portate a passeggio.

A rimarcare l'importanza della sua fase di bambino, Klee arriverà a inserire nel catalogo generale delle proprie opere anche disegni eseguiti a cinque anni, mentre nel 1912 scrive con trasporto e forte determinazione: "Nell'arte si può anche cominciare da capo, e ciò è evidente più che altrove, in raccolte etnografiche oppure a casa propria nella stanza riservata ai bambini. Non ridere lettore! Anche i bambini conoscono l'arte e ci mettono molta saggezza! Quanto più sono maldestri tanto più ci offrono esempi istruttivi e anch'essi vanno preservati per tempo dalla corruzione. Fenomeni analoghi sono le creazioni dei malati di mente e non è affatto vituperio parlare in questi casi di puerilità o di pazzia. Se oggi si vuole procedere ad una riforma, tutto questo è da prendere molto sul serio, più sul serio di tutte le pinacoteche del mondo".

In linea con questa riflessione di Klee, si colloca l'Art Brut di Jean Dubuffet, volta a valorizzare le opere di coloro che vivono al di fuori delle regole culturali e di mercato e che, per di più, non sono artisti professionisti: malati di mente, vecchi, proletari, eremiti e bambini. In questi soggetti, in perfetta autonomia, nasce e si sviluppa un puro e autentico impulso creativo.
In altri artisti la creatività infantile si innesterà sulle proprie tradizioni popolari, come nel caso di Chagall e Mirò; oppure si dirigerà verso l'ingenuità e la freschezza delle immagini, dando vita al nuovo genere naif, come faranno Rousseau il Doganiere, e, più vicino a noi, Ligabue, alla ricerca, pur nelle differenze, di spazi misteriosi o dell' incanto di uno sguardo vergine e solitario.Vi è poi Enrico Baj, che accoglie l'inventività del gioco puerile e si avvale di collages polimaterici per elaborare immagini improntate ad uno spirito di ironia e di polemico humour demistificante, come nella serie dei Generali. Inoltre, assai significativa, e presente peraltro in diversi artisti, è la sua opposizione a ciò che egli definisce l' otticamente corretto di tanta subdola arte contemporanea, ossia l'immagine performante, vincente, portatrice di consenso. I bambini vanno oltre l'otticamente corretto e hanno il coraggio di dire col disegno che il re (il generale) è nudo.
Tutti gli artisti appaiono, dunque, accomunati da un senso profondo di ritrovata libertà nel riconsiderare il mondo come appare nei primi anni di vita, quando ogni cosa è nuova.
Ciò non toglie che tale regressione non abbia lati anche meno piacevoli o scontati, ed è il caso dell'artista francese, naturalizzata americana, Louise Bourgeois, con la sua attenzione alle tematiche del corpo e della dimensione psicanalitica dell'arte, che ebbe modo di dichiarare: "La mia infanzia non ha mai perso il suo lato magico e allo stesso tempo drammatico. Tutti i miei lavori degli ultimi cinquant'anni, tutti i miei soggetti si sono ispirati alla mia infanzia". Un esempio tra i tanti il suo Coniglio del 1970, orribilmente squartato. Oppure lo sguardo sull' infanzia si sofferma ad indagare i lati oscuri e torbidi dei rapporti tra uomini, donne e bambini come fa la portoghese Paula Rego.

Non va poi dimenticata l'esplosione di energia tipica dell'approccio infantile al disegno che si può ritrovare in Karel Appel, uno degli esponenti del Cobra, movimento formatosi nel 1948 da un gruppo di artisti di Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam, da cui l'acronimo. Il Cobra si proponeva di restituire l'arte a una dimensione primaria, pre-linguistica, pre-tecnica e Appel, in sintonia con gli altri esponenti, rifiuta l'astrattismo per indirizzarsi verso una pittura segnico-gestuale, matericamente densa, che si riversa sulla tela con immagini esuberanti e colori accesi: insomma con l' immediatezza e la vitalità, anche violenta, tipica dei bambini (ma non solo).Così, con un vero viaggio di ritorno verso l'infanzia, l'arte visiva del Novecento supera il pensiero abituale, banalmente logico, riportandolo a quella condizione originalmente fondativa in cui i bambini con i loro "scarabocchi" offrono una risposta a innumerevoli domande su di sé e il mondo che li circonda.

Concludo con un brevissimo excursus nel campo letterario, dove, paradossalmente, la scoperta del mondo dell'infanzia non ha avuto un' influenza profonda e paragonabile a quella avvenuta nelle arti visive. Pur non mancando eccezioni notevoli dal Piccolo principe alle fiabe di Rodari, la letteratura non ha saputo o voluto abbeverarsi all'universo infantile per rigenerarsi, ritenendo, tra le altre cose, il bambino un lettore non all'altezza. Ed è un vero peccato, perché, come ci fa intendere il decalogo che segue e che fu scritto dal premio Nobel Isaac Singer in un articolo sul New York Times, avrebbero molto da insegnarci anche in questo senso: 1)I bambini leggono libri, non recensioni. Per loro il giudizio dei critici non vale una cicca. 2)Non leggono per cercare un'identità. 3)Non leggono per liberarsi dai sensi di colpa, né per soddisfare la propria sete di ribellione, né per sbarazzarsi dell'alienazione. 4)Non sanno che farsene della psicologia. 5)Detestano la sociologia. 6)Non cercano di capire Kafka e Finnegan's Wake. 7)Credono ancora in Dio, nella famiglia, negli angeli, nei diavoli, nelle streghe, nei folletti, nella logica, nella chiarezza, nella punteggiatura e in altri simili vecchiumi. 8)Amano le storie interessanti, non i commenti, non le guide alla lettura, non le note a piè di pagina. 9)Quando un libro li annoia, sbadigliano senza scrupoli, senza alcuna vergogna o timore dell'autorità. 10)Non si aspettano che il loro scrittore prediletto redima l'umanità. Giovani come sono, capiscono che egli non ha questo potere. Solo gli adulti hanno illusioni così infantili.

Una volta disegnavo come Raffaello, ma mi ci è voluta una vita intera per disegnare come i bambini (Pablo Picasso)

Intervento pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2007)
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Sergio Lagrotteria
Accadde una sera...



Con questo breve scritto intendo soffermarmi su un episodio della vita di due grandi protagonisti del Novecento: un pittore e un poeta. Il pittore è Oskar Kokoschka, austriaco, tra i maestri dell'espressionismo, sia pure con un percorso molto personale. Il poeta è Georg Trakl, anch'egli austriaco, di Salisburgo, poeta di grande e tormentata purezza espressiva, il cui volto è, direi, assai eloquente.
I due si frequentavano e si stimavano. Una sera accadde qualcosa di particolare tra loro, in relazione a questo quadro, anzi per meglio dire, al titolo di questo quadro che è La sposa del vento.
Siamo nel luglio del 1914 e la prima guerra mondiale sta per scoppiare. Kokoschka era impegnato nella conclusione del dipinto, ora conservato al Kunstmuseum di Basilea. L'opera è una delle più emotivamente intense della sua produzione e contiene una chiara allusione alla turbolenta passione tra l'artista e Alma Mahler, vedova del compositore Gustav.
Alma Mahler è una figura di grande interesse perché ha affascinato diversi personalità eminenti. Lo scrittore, premio Nobel, Elias Canetti la considererà una cacciatrice di trofei, dal momento che alla lista vanno aggiunti il fondatore del Bauhaus Walter Gropius e lo scrittore Franz Werfel. Kokoschka amò fortemente Alma e fu talmente turbato dalla fine di quest'amore che anni dopo si farà realizzare una bambola a grandezza naturale somigliante alla donna e con essa andrà a teatro, al ristorante e via dicendo: bambola che sarà anche modella per due opere di diversa, ma inquietante bellezza Donna in blu (1919) e Autoritratto con bambola (1920-21). Ma torniamo al quadro.

Una donna si abbandona tra le braccia di un uomo, dentro una barca-guscio, letto e relitto insieme, mentre intorno a loro un vento impetuoso espresso da un turbinio di pennellate dai colori freddi e cupi, in cui predominano i toni grigi e blu, sembra travolgerli e trascinarli lontano. E all'interno della barca, nucleo del vortice che conduce alla deriva e alla rovina, la donna si mostra appagata e sprofondata in un sonno sereno e disinteressato, quasi che la possibilità del naufragio non concernesse la tenera naturalezza del suo essere, mentre l'uomo è tormentato, irrequieto, è un impotente nocchiero con gli occhi segnati dall'insonnia e dalla tragica intuizione dello sfacelo, come pure rivela l'incrocio nervoso delle mani.
E' certo che in questa differenza di atteggiamento vi sia l'influsso del pensiero bachofeniano e dunque l'idea della conflittualità tra principio maschile e femminile che già aveva catturato l'attenzione del Kokoschka drammaturgo (il caso Weininger insegna), cui si aggiunge il fatto che nella mitologia germanica la donna trascinata dal vento era ritenuta una specie di creatura malefica e annientatrice al punto di diventare nella lingua quotidiana sinonimo di tempesta.Inoltre, su tale furia destabilizzante pare impresso il sigillo di una misteriosa possessione lunare, che assiste orientando le raffiche veementi.
La notte non offre alcuna luce o varco alla speranza e rievoca certi notturni del Tintoretto, visto a Venezia insieme ad Alma l'anno precedente, e i cieli tetri di El Greco: le pennellate brusche tracciano uno spazio animato e convulso che ora contiene le due figure ma è pronto a dissolverle entrambe o chissà forse solo una: quella maschile che vive un amore impossibile. Il problema di Kokoschka era che non aveva ancora trovato un titolo adeguato al quadro: in un primo tempo aveva pensato a Tristano e Isotta, ma gli parve un po' scontato. La genesi del titolo, infatti, va ascritta a merito di Trakl. Ma vediamo come andarono le cose leggendo le parole del pittore tratte dalla sua autobiografia: "Una sera il poeta Georg Trakl arrivò nel mio squallido studio, nel quale avevo dipinto di nero le pareti per far risaltare di più i miei colori. [...] l'arredamento della stanza era costituito da un barile vuoto che serviva da sedia. Offrii del vino a Trakl e continuai a lavorare al mio quadro; egli mi guardava in silenzio [...]. Il grande quadro che mostra me e la donna tanto amata su un relitto nello spazio era finito. Improvvisamente il silenzio fu rotto dalla voce di Trakl [...] (che) vestiva a lutto. Il suo dolore era come la luna che si muove davanti al sole oscurandolo. E lentamente recitò a se stesso una poesia [...] Compose così quella sua strana lirica La notte davanti al mio quadro".
Quindi Trakl compose una lirica, che segue qui sotto, davanti al dipinto.

Così Trakl osservando, contemplando quell'immagine creò di getto la sua poesia, e Kokoschka che non sapeva che titolo dare al suo dipinto, ascoltando il poeta, ebbe tutto più chiaro, perché quell'accenno alla sposa del vento (in tedesco windsbraut) come metafora della tempesta in arrivo era ciò che esprimeva perfettamente lo spirito dell'opera: quello di un amore che procedeva implacabilmente verso l'abisso della fine.
Il quadro fa dunque nascere la poesia che poi gli darà il titolo. Quello che ho descritto è semplicemente un aneddoto che, per la verità, qualche studioso di Trakl come Sauerman prende con le pinze, ma resta emblematico di come l'arte sia un'avventura dai tratti e dai confini imprevedibili ed è significativo dei rapporti singolari che nascono tra gli artisti, per cui possiamo ben dire che i sentieri dell'arte sono davvero misteriosi e affascinanti. E noi l'amiamo per questo.

Intervento pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2005)
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Sergio Lagrotteria
La parola alle cose



Nella poesia del Novecento, ma non solo nella poesia, assistiamo ad un fenomeno importante: le cose non sono più mere "cose", semplici oggetti che fanno da sfondo ai veri protagonisti della poesia (l'uomo, Dio, la natura, i sentimenti, gli avvenimenti storici, eccetera), ma diventano soggetti degni di interesse, di attenzione, entità che forse covano una loro vita segreta, che hanno un'essenza inascoltata da scoprire. Certamente, se guardiamo al Seicento, troviamo, sia in pittura che in letteratura, nature morte in abbondanza o poesie che esprimono, all'interno di un gusto sottile e incline alla meraviglia, le singolari qualità di taluni oggetti (non dimentichiamo poi le wunderkammern), tuttavia nel Novecento le cose acquistano una presenza rilevante. Possiamo in qualche modo cogliere questa tendenza se gettiamo uno sguardo, sia pure fugace, su alcune figure particolarmente significative: il pittore Giorgio Morandi e i poeti Francis Ponge e Rainer Maria Rilke, in quanto delineano tre prospettive diverse ed egualmente interessanti sulle cose.

Morandi: pittore di nature morte, di bottiglie, bicchieri, caraffe: questo il cliché in cui viene generalmente relegato il pittore bolognese. Con lui viene meno la centralità della figura umana che ha caratterizzato la pittura europea. Egli osserva una scatola o un lume con lo stesso animo con cui un pittore del passato era rivolto a un personaggio mitologico o religioso, e ne ricava accenti nuovi. Il silenzio in pittura si afferma con lui: ogni rumore o frastuono scompare. E questa condizione permette di vederli davvero, gli oggetti. Essi ci guardano, ci accompagnano nella vita, ma soprattutto sono un riflesso della nostra vita interiore. Morandi dipinge magari lo stesso oggetto cambiando prospettiva e ciò è un riverbero dell'intimo sentire, del tempo che passa, di un momento umorale particolare. L'uomo carica gli oggetti con cui condivide la vita quotidiana di significati legati alla realtà interiore sia pure senza compiacimenti estetizzanti. La sua ispirazione si attua in forme per nulla naturalistiche che avvolgono le cose di impalpabili modulazioni della luce, che appare calma, immateriale, filtrata dai moti dell'animo, e in virtù della quale esse appaiono immobili e solitarie eppure straordinariamente ricche di pathos. Si passa da dipinti a colori densi e dal tratto relativamente sommario a dipinti caratterizzati da una trama cromatica di più delicata e morbida consistenza, rigorosamente castigata, che sottilineano il progressivo affinarsi del lirismo morandiano, segno di una crescente serenità. Non tutte le cose sono oggetto della sua pittura, ma solo una ristretta cerchia: quelli di uso quotidiano, casalingo, che accompagnano la sua vita, perché attraverso queste cose riesce a ricreare il massimo di interiorità.
I suoi quadri sono, in fondo, il diario, apparentemente monotono, in realtà affascinante, di una vita ostinatamente condotta alla ricerca delle proprie emozioni. Ponge, poeta francese, che aderì per breve tempo al movimento surrealista, stringendo rapporti con Bréton ed Eluard, secondo un giudizio critico ormai acquisito, è il poeta degli oggetti. Egli si afferma piuttosto tardivamente, grazie a un saggio di Jean Paul Sartre dedicato alla raccolta Il partito preso delle cose, uscita nel 1942. Introducendosi nell'universo delle cose, prende la parola in loro favore, perché tutto ciò che si può intendere e trascrivere è già nelle cose, prima del nostro arrivo. Esse sono entità condannate al silenzio e mute per definizione. Ogni oggetto è come un forziere chiuso nel suo impenetrabile silenzio, che il poeta deve scardinare per mostrarne il lato autentico. La scrittura deve imparare a riprodurre la concretezza del mondo, per cui la poesia deve guardarsi dal creare dovrà limitarsi a mostrare la verità del mondo stesso. Ovviamente servendosi delle parole, ma con un'operazione particolare: di "parlare contro le parole" per sradicare il linguaggio dalle sue menzogne. Ponge così si inserisce in qualche modo nella scia del simbolismo mallarmeano con questa esigenza di parola-verità, pur giungendo a esiti assai distanti dal Simbolismo. Vi è il proposito di scrivere partendo dalla semplicità delle cose, anche più insignificanti, per non tradirle, di parlarle sfrondando le pastoie del linguaggio ordinario. E allora rispunterà l'umile sublimità del quotidiano, delle forme, dei colori: da un semplice ciottolo alla crosta rugosa di un tozzo di pane. Esemplificativa in tal senso la poesia L'ostrica: "E' un mondo testardamente chiuso. Eppure si può aprire[...] All'interno si trova tutto un mondo, da bere e da mangiare: sotto un firmamento (propriamente parlando) di madreperla, i cieli di sopra si accasciano sui cieli di sotto, per non formare più che una pozzanghera, un sacchetto vischioso e verdastro che fluisce e rifluisce all'odore e alla vista, frangiato sui bordi da un merletto nerastro".
Nello sforzo di adeguarsi completamente al reale, considerato in sé, non in relazione all'uomo, Ponge si sofferma non solo su oggetti della natura o quotidiani, a portata di mano, ma anche su cose invisibili come l'elettricità, invisibile in sé, ma ben avvertibile quanto agli effetti: in più l'elettricità secondo i tradizionali canoni poetici è un oggetto impoetico. Ponge, che non disdegna la lingua della scienza e della tecnica, anch'essa tradizionalmente impoetica, punta a scoprire il mondo mediante metafore inedite e ardite usate come se fossero le più naturali, servendosi anche del poemetto in prosa o del saggio breve. D'altronde il mondo, a ben guardare, non è che una ricca miniera di oggetti che non finisce mai di sorprendere.

Rilke, sebbene rispetto agli altri due sia cronologicamente anteriore, mi sembra la figura più affascinante e più lungimirante, e su di essa mi soffermerò un po' di più. Una linea continua dell'arte rilkiana è "la poesia delle cose", che trova la sua prima consacrazione lirica nel Buch der Bilder (Il libro delle immagini), 1902, dallo stile leggermente affettato e dai toni per lo più descrittivi. La scoperta della pittura di Cézanne e la frequentazione dello scultore Rodin lo portano a meditare sulla necessità di imparare a rappresentare la cosa singola, circoscritta nei suoi limiti spaziali e precisata nelle sue forme corporee.
Per comprendere il significato del mondo delle cose in Rilke, risulta di notevole importanza una lettera del poeta praghese a Marie von Thurn und Taxis-Hohenloe del 6 settembre 1915 in egli mostra sconforto circa la possibilità di creare figure poetiche grandi e vigorose che si oppongano l'orrore della realtà con l'unico modo possibile vale a dire la disposizione integralmente umana di cogliere con i nostri sensi la bellezza enigmatica, ma incontestabile delle cose del mondo.
Questo è il cuore del pensiero poetico rilkiano, che troverà la sua più alta realizzazione nelle Elegie duinesi, frutto di quel "innominabile turbine" creativo, come egli lo chiamerà, che oltre alle Elegie vedrà nascere i Sonetti a Orfeo.
In particolare, nel castello svizzero di Muzot, Rilke compone il 9 febbraio 1922 la parte centrale della Nona elegia, momento rilevante del suo percorso perché alla desolazione e insensatezza della nostra esistenza il poeta pare finalmente individuare un possibile approdo e, nel segno della poesia, un sicuro riscatto.
"Esistere è molto", egli proclama; sebbene siamo esseri effimeri, nonostante il nostro poter vivere ogni cosa "soltanto una volta", l'esistenza è qualcosa di "irrevocabile". L'essenza dell'umano essere-nel-mondo si incentra nella dimensione terrena del rapporto con le cose. Noi esistiamo forse per "dire", afferma Rilke, e in particolare per rivelare nel nostro dire la vera natura delle cose. La nostra sostanza, il nostro "qui" è quello della parola, per quanto trascorriamo l'esistenza in un tempo "incalzato" da cambiamenti incessanti, accelerati, da "un fare senza volto" con cui Rilke si riferisce in maniera sibillina alla nuova età dell'industrializzazione e all'affermarsi di un pensiero astratto, privo di contatto col mondo della vita.
La concretezza degli oggetti, la loro familiare intimità con i sensi dell'uomo, sono messe in pericolo, secondo Rilke, dai meccanismi della modernità, che dal suo caos partorisce oggetti puramente funzionali, senz'anima e senza memoria.
Si legga a questo proposito quanto egli scrive in una lettera del 13 novembre 1925 indirizzata al suo traduttore polacco Witold von Hulewicz:"Per i nostri avi, una "casa", una "fontana", una torre loro familiare, perfino un indumento personale, il loro mantello, erano qualcosa di infinitamente, più che per noi, di infinitamente più familiare; quasi ogni cosa era un vaso in cui ritrovavano qualcosa dell'uomo e rintracciavano l'umano. Ora dall'America sbucano fuori cose vuote e indifferenti, pseudo-cose, aggeggi ingannavita... Una casa come si intende in America, una mela americana o un grappolo d'uva sorto lì, non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il tralcio in cui erano riposte la speranza e la pensosità dei nostri padri...".
E allora da "qui", su questa terra, dobbiamo dunque opporre resistenza alle forze ostili ("i magli"), e da "qui" levare il nostro canto, tramite il quale "ogni cosa terrena che effimera noi stranamente / sollecita" avrà la sua autentica redenzione.
E' necessario rinvenire nella poesia, nella musica, nella pittura o nella scultura forme espressive che preservino la cosa dall'annientamento. E' questo il significato ineludibile della formula rilkiana che si trova nella Settima e nella Nona elegia della "trasformazione del visibile in invisibile". Compiere sugli oggetti la metamorfosi dell'invisibile non significa privarli della loro concretezza, anzi ogni poeta o artista deve fare come Cézanne per il quale il colore è da usare non come ornamento o per fini mimetici, "ma solo per fare con esso la cosa", in quanto, sotto il suo sguardo e la sua cura artistica, il semplice oggetto si fa cosa come intimamente non sapeva d'essere.
Si chiarisce allora il compito dell'artista contemporaneo. Vedere è il compito da far rispettare all'artista, così come il dipingere, lo scrivere, lo scolpire, e via dicendo, come confermato dalla lettera sopracitata. Bisogna saper individuare e conquistare la "parola" (ogni artista in relazione alla sua disciplina), proprio quella che, come la genziana riportata dal monte, testimonia dell'esperienza che il "viandante" ha vissuto. Ciò significa, in altre parole, creare una lingua nuova che dica la bellezza delle cose, la loro caducità, la loro innocenza in maniera tale che l'angelo, essere privilegiato del Creato che vive nel regno dell'invisibile, si stupisca, perché noi esseri per natura effimeri gli portiamo col canto della poesia o con l'arte tutta la bellezza, il senso profondo, la felicità e lo splendore delle cose, effimere come noi, compagne di viaggio su questa terra.

Intervento pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2005)
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Sergio Lagrotteria
Sull'essenza della rosa




Quod latet arcana non enarrabile fibra (Persio)

La rosa è un fiore che ha sempre suscitato un interesse particolare e intenso nei poeti, e non solo in loro. Ricordiamo ad esempio i versi delicati di Ronsard sul declino della vita e il suo assennato suggerimento "cueillez dés aujourd'hui les roses de la vie"; oppure pensiamo a Malherbe che paragona le bellezza umana al fulgido quanto effimero splendore della rosa che dura solo "l'espace d'un matin". L'argomento, se visto con occhi contemporanei, sembrerebbe essere sorpassato e tuttavia può essere degno di attenzione soffermarsi su come due figure fondamentali della cultura del Novecento non siano rimaste insensibili all'aura che sprigiona questo fiore: Borges e Heidegger.
Borges considera molte cose come simboli ed idee eterne: la biblioteca, il labirinto, lo specchio, la spada, il pugnale, la tigre, il giardino e, naturalmente, la rosa. Soltanto la rosa, pur emanando colore e profumo, sa sottrarsi alle esili parvenze del mondo sensibile per adagiarsi nell'invisibilità dell'idea. Suggestive in tal senso le poesie: Un'altra poesia dei doniLa rosaUna rosa e Milton.
Borges, al pari dei poeti del lontano Oriente, subisce il fascino sia dell'aspetto sensibile che della profonda essenzialità metafisica della rosa. Nei suoi versi si avvertono echi di Attar, che ha fatto della poesia persiana una "poesia di uccelli e di rose", di Hafiz e di Rumi per il quale "ogni rosa, pregna di interno profumo, narra (...) i segreti del tutto".
Tuttavia la cecità che colpì l'autore argentino, pur facendogli svanire la dimensione sensibile della rosa, gliene ha rivelato l'aspetto invisibile, permettendogli di individuare il momento in cui "le rose cessano d'essere le rose e vogliono essere la rosa".
In conseguenza di ciò, non è importante sapere di che colore è la rosa "lasciata nelle mani del defunto che mai saprà se è bianca o rossa", o com'era "l'ultima rosa che Milton vecchio e cieco avvicinò al proprio volto senza vederla". Borges con la veggenza dei ciechi coglie la rosa delle rose, unica e solitaria, il giovane fiore platonico, perenne e irraggiungibile, già mirabilmente ripreso da Novalis.
La rosa come idea è assai distante dal suo aspetto sensibile: è silenziosa, misteriosa, invisibile e tenebrosa. Ha una maggiore potenza rispetto alla rosa reale, poiché non si accontenta di pungere, ma sa accecare più della morte, giungendo a privare il mondo d'ogni importanza e significato.
La rosa ideale è "un archetipo terribile", la cui forza sconvolgente si palesa solo agli occhi resi veggenti dalla morte che incombe o dalla cecità: "Rosa profonda, infinita, intima / che il Signore mostrerà ai miei occhi morti".
Simile, pur nella diversità dell'approccio, è la riflessione di Martin Heidegger.
Nell'affrontare il problema del fondamento ossia del perché delle cose, giungendo a formulare la domanda fondamentale "Perché c'è l'essere piuttosto che il nulla?", Heidegger riporta un celebre distico di Angelus Silesius (Johannes Scheffler), poeta tedesco del Seicento: "La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce; non bada a se stessa, né si cura d'esser vista".
Da un lato la rosa è senza perché, ossia non ha un fondamento, in quanto è priva di ragione, di causa o di scopo. Infatti, essa non solo non sa di esistere o d'esser vista, ma anzi non ha di mira né la propria esistenza né la propria bellezza. E' un puro sbocciare, del tutto gratuito e infondato: se fiorisce non lo fa né per sé né per per altri, ma appunto "fiorisce perché fiorisce".
Dall'altro lato, l'espressione "fiorisce perché fiorisce" indica che la rosa ha anche un fondamento diverso, che oltrepassa la domanda sul perché delle cose e che dimora nel baratro senza fondo dell'essere, in cui luce e ombra si confondono. La rosa è un puro offrirsi, una pura e semplice presenza che tuttavia ha un lato insondabile, inspiegabile, misterioso e oscuro.
Dunque, sia per Borges che per Heidegger la realtà della rosa si presenta in forma ambigua e bifronte: con la sua gratuità provoca meraviglia, ma con la sua infondatezza può suscitare sgomento e inquietudine. Tanto può la rosa.

Intervento pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2006)
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Sergio Lagrotteria
Volti dell'utopia



Il titolo del mio intervento è Volti dell’utopia. Perché volti dell’utopia? Perché ho cercato di indagare taluni aspetti dell’atteggiamento utopico dell’uomo nel corso della storia, principalmente dal punto di vista estetico-letterario, al fine di riproporre un tratto di esso spesso accantonato o dimenticato ossia la dimensione utopica dell’arte.
Probabilmente, in un’epoca come la nostra dove le ideologie sono cadute, in cui assistiamo a rapidi cambiamenti, grandi accelerazioni, repentine trasformazioni, in cui si aprono dinanzi a noi scenari inquietanti, è necessario riscoprire il senso e il significato del nostro porsi in relazione con l’opera d’arte, come esperienza di segno utopico grazie alla quale possiamo ritrovare la dimensione più autentica della nostra umanità.
Cominciamo con una citazione tratta da Il mondo nuovo, noto romanzo di A. Huxley.
"Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? (…) Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d’evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno ‘perfetta’ e più libera" (N.Berdjaeff).
Dunque Huxley, tramite Berdjaeff, ci invita a diffidare delle utopie perché realizzabili.
Nell’accezione comune, invece, per utopia si intende un’idea, un progetto, una visione sociale e politica altamente desiderabile, ma irrealizzabile.
Due posizioni antitetiche?
Sicuramente, se dessimo retta soltanto a noi stessi, ci piacerebbe immaginare un mondo in cui esista soltanto la felicità, pieno d’amore e armonia, in cui il lavoro sia una libera creatività, e, per converso, i bisogni, il dolore, le sofferenze che viviamo ogni giorno finalmente scomparirebbero.
Questa immaginazione possiede tratti costanti che ritroviamo sia nella storia dell’umanità che nella nostra piccola storia personale.
Ogni civiltà elabora il suo paradiso perduto: l’eden, dove era semplice avere la cosa più bella e l’ingiustizia era sconosciuta, l’età dell’oro, oppure il paese della cuccagna dove scorrono fiumi di latte e miele e si passano le giornate giocando. In fondo, ci fa piacere pensare che nei meandri oscuri del passato brillassero pietre preziose per noi ormai irraggiungibili. In ogni caso, lo sguardo è rivolto all’indietro, e l’immaginazione è legata alla memoria di un tempo una volta felice. Questo il volto dell’utopia rivolta al passato.
Ma c’è l’utopia che punta lo sguardo in direzione del futuro e, di conseguenza, non dà garanzie sicure. E’ stata descritta dagli scienziati e dai filosofi e i poeti l’hanno cantata: pensiamo alla Repubblica di Platone, all’Utopia di Tommaso Moro, a La città del Sole di Campanella, al sogno di restaurazione dell’impero universale di Dante e a molte altre.
Qualcosa di nuovo accade però nell’epoca della rivoluzione industriale. In quel periodo chi coltivava utopie era persuaso che il progresso tecnico e sociale avrebbe liberato l’uomo e sviluppato una sempre maggiore razionalità. Su questi presupposti si sarebbero risolti i conflitti sociali e si sarebbe realizzata una vera armonia tra l’uomo e la natura. Emblematico in tal senso un romanzo del 1839, Viaggio in Icaria di Etienne Cabet, tra l’altro ricordato da Baudelaire nella sua poesia Il viaggio. Nel paese degli icariani la macchina ha risolto il problema del lavoro, e il tempo libero viene utilizzato per l’istruzione e per divertimenti intelligenti. In tal modo, l’uomo è liberato dal bisogno, si raggiunge l’uguaglianza tra i cittadini e la democrazia si afferma quale miglior forma di governo.
Dunque, progresso tecnico e progresso sociale erano perfettamente saldati in ogni rappresentazione possibile del mondo futuro.
Ma oggi possiamo ancora immaginare il futuro in termini ottimistici ? Se guardiamo alla letteratura del secolo appena trascorso, la risposta è no. Ha prefigurato distruzioni, mostri, violenze orribili. Anziché elaborare una realtà possibile, per mezzo delle invenzioni dell’immaginazione, l’utopia diventa anti-utopia, trasforma il positivo in negativo.
Ciò lo possiamo cogliere attraverso due esempi tra i molti possibili.
In uno dei primi racconti anti-utopici, Noi (1920), il russo Zamjatin rappresenta un mondo controllabile in toto. La città era stata interamente isolata dalla natura: i suoi palazzi di vetro permettevano al Potere di controllare i Numeri, cioè i cittadini. Gli alimenti erano sintetici e una legge sulla sessualità fissava quali e quanti dovevano essere i rapporti sessuali che i Numeri potevano avere. I bambini erano immediatamente presi in consegna dallo Stato che dava loro un’educazione di tipo scientifico: in questo contesto gli uomini sviluppavano comportamenti e abitudini automatiche e metallico era persino il timbro della voce.
Nel più celebre tra i romanzi anti-utopici Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley, viene espressa con grande efficacia quella prospettiva che ritiene ormai del tutto incontrollabili gli effetti della scienza. Si è determinata una frattura epocale: il corso normale della vita è modificato e irreversibile è la sopraffazione dell’artificiale sul naturale. Vi si descrive una società pianificata in nome del razionalismo produttivistico e gli uomini, sessualmente e biologicamente rafforzati, nascono e crescono come prodotti industriali fabbricati in serie.
Anche nel cinema si può notare ciò: pensiamo ai robot di Blade runner di Scott o agli opprimenti labirinti di Metropolis di Fritz Lang: la macchina esercita il suo dominio incontrastata e la scienza è un potere egemone, non uno strumento del pensiero per allargare le frontiere della conoscenza.
E allora l’utopia che guarda al passato, ci appare un consolante percorso di fuga dai sentieri della storia. L’utopia che dirige, invece, lo sguardo al futuro riesce a intravedere soltanto un mondo mostruoso, disumanizzante. Questi dunque sono i soli volti dell’utopia? Solo questo riusciamo a immaginare?
Proviamo allora pensare a un altro volto che può assumere l’utopia. Proviamo allora a pensare ad un’utopia senza sistematicità che ha il suo cuore nell’arte (luogo non-luogo per eccellenza).
Abbiamo visto che automatismi e supporti materiali (la macchina, il denaro ecc.) sostituiscono l’uomo in tante sue attività e disposizioni razionali, lasciandolo in una condizione di indeterminatezza.
Ciò ha due conseguenze fondamentali. Da un lato, l’uomo viene alleggerito da una serie di attività gravose, cui provvede la macchina, dall’altro, deve preoccuparsi di non farsi assorbire o annichilire dalla potenza della tecnica, in quanto, altrimenti, la sua esistenza sarebbe un sotto-vivere, un rimanere al di sotto delle sue possibilità inespresse.
Allora pienezza e senso della vita è possibile ritrovarli in tempi e luoghi virtuali: in un altrove che non si situa nella serie degli eventi e degli spazi in cui siamo quotidianamente collocati, in un’alterità con la quale ci poniamo in relazione: l’opera d’arte.
Quando ciò accade, attraversiamo spazi logicamente non percorribili, varchiamo con il desiderio e con l’immaginazione la soglia che divide il reale dall’immaginario, facciamo ingresso in un mondo senza spessore che appare più significativo di quello in cui tridimensionalmente ed effettivamente viviamo, o, per dirla con parole diverse, in una zona di irrealtà che è più vera di ogni realtà che ci circonda (non vera da un punto di vista logico o percettivo , ma perché la cogliamo come luogo di realizzazione di possibilità che non si danno nel mondo). Allora in tale relazione con l’opera d’arte, in cui seguiamo il suo ritmo, il suo tempo interno, i suoi colori, le sue forme, i suoi suoni, i suoi simboli, si dispiega la dimensione utopica dell’arte come luogo non-luogo in cui si apre un altro mondo.
L’arte costituisce un secondo mondo e appare paradossalmente come un modo di potenziamento del reale, come l’apparizione sensibile di un mondo più vero di quello presentato dalla percezione dell’esistente e dai pensieri quotidiani, da cui pure prende spunto. Come sosteneva J.P. Sartre, a proposito di chi, leggendo un romanzo, dimentica tutto ciò che lo circonda, l’arte genera nell’uomo una "coscienza annodata", che esclude ciò che in quell’istante non lo attira, ossia la realtà percettiva non pertinente, quella posta oltre la pagina, la cornice, la scena, lo spazio visivo o il campo sonoro in cui prende forma il mistero delle bellezza: "quella zona in cui non siamo mai stati ma che ci sembra di conoscere da sempre, quasi fosse un intero paese straniero perduto ed ogni tanto riconquistato" (I. Bonnefoy).

Intervento pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2005)
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Sergio Lagrotteria
Molteplicità senza fine



Da quando, nel 1942, Joao Gaspar Simoes e Luìs de Montalvor avviarono, presso la casa editrice Atica, la pubblicazione delle Opere Complete, la poesia di Fernando Pessoa fu una vera e propria rivelazione, che ha imposto il poeta di Lisbona tra i massimi poeti del Novecento. Ciò che colpì della sua poesia fu non solo l'effettivo valore letterario, ma anche l'ampia e densa problematica in essa racchiusa: dall'inquietante interrogativo sulla "misteriosa importanza di esistere" al grigiore inquieto e alle contraddizioni che vive l'uomo contemporaneo.
Il primo stupefacente risvolto della sua produzione poetica ricca di temi e sfumature è la sua articolazione in più personalità interamente autonome, i cosiddetti "eteronimi" pessoani.

Non si tratta di semplici pseudonimi, come si potrebbe pensare: Pessoa si scinde in diverse voci, ognuna con un'anagrafe, un carattere, un segno zodiacale, una storia, alle quali consegna un messaggio diverso; voci diverse che comunque ci offrono un ritratto esauriente della sua personalità artistica, sebbene gli inediti siano ancora molti. Gli eteronimi più noti e importanti sono Alberto Caeiro, il"maestro", uomo legato alla campagna, i cui versi ripudiano ogni sorta di trascendenza ("il significato delle cose è che esse non hanno significato alcuno"); Ricardo Reis, medico, esteta classicizzante, epicureo e compositore di odi alla maniera oraziana; e Alvaro de Campos, ingegnere navale a Glasgow, seguace di Whitman, sensazionista, futurista, cantore del tedio e dell'assenza. A rendere ancora più misteriosa e affascinante questa differenziazione di personalità è la presenza negli eteronimi di evoluzioni e contrasti interni, tali da rappresentare individualità a tutto tondo. Anche lo stile di ciascun eteronimo, sia nella forma sia nel contenuto, è in assoluta sintonia col mondo poetico di ogni singola voce.
Tre eteronimi, tra i tanti altri e i centomila possibili, e un unico spirito tormentosamente lacerato alla ricerca di risposte, con la consapevolezza di sentirsi sempre più "estraneo" a se stesso e a ogni cosa, pronto a procedere non già verso la luce, ma verso "l'ombra" che abita dentro ognuno di noi, un buio labirinto che se non allude al mero nulla, rappresenta un imminente e pur sfuggente ignoto.
Questa inclinazione a sentirsi estraneo a sé, a sentirsi altri, che Pessoa avvertì sin da giovane, ebbe modo di rafforzarsi con il suo avvicinamento all'occultismo, iniziato attorno al 1915, con l'assimilazione di vari scritti sull'argomento, soprattutto di due teosofe come Helena Blavatsky e Annie Besant. Una lettera del 6 dicembre 1915 al suo miglior amico Mario de Sà Carneiro ci mostra la traccia profonda che queste dottrine lasciarono su Pessoa . Scrive l'autore portoghese: "Ora (...) conosco l'essenza del sistema. Mi ha sconvolto un punto tale che non l'avrei mai immaginato (...). Il carattere straordinariamente vasto di questa religione-filosofia, la nozione di forza, di di dominio, di conoscenza superiore ed extra-umana che le opere teosofiche mi stillano, mi hanno molto turbato".

E' il principio di un lungo tragitto di riflessione e di graduale iniziazione a concezioni religiose ed esoteriche che irrobustirà il fenomeno degli eteronimi ("Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un'unica anteriore realtà che non è in nessuno ed è in tutti") e che lo indurrà a dichiararsi più volte adepto di una tradizione occulta in cui convergono gnosi cristiana antica, Cabbala ebraica,pensiero rosacrociano.
Vent'anni più tardi, in un passo della famosa lettera a Casais Montero sugli eteronimi, dirà: "Credo nell'esistenza di mondi superiori al nostro e di abitanti di questi mondi (...) fino ad arrivare a un Ente Supremo che presumibilmente ha creato questo mondo. Può essere che ci siano altri Enti, ugualmente supremi, che abbiano creato altri universi, e che questi universi coesistano con il nostro, interpenetrandosi o meno".

Nella sua visione metafisica, la pluralità dei mondi nasce dalla frantumazione dell'Unità (o dell'Io?) originaria, che si dispiega come un incessante gioco di specchi che si moltiplica all'infinito e che si riflette nel mondo umano. Pessoa in virtù di ciò sembrerebbe soltanto il medium, il tramite di figure da lui stesso create. Lui stesso è la dimostrazione reale di una personalità frantumata che può trovare una sua consistenza soltanto nella molteplicità di esseri altri, in apparenza fittizi, si veda a tal proposito una sua lettera alla zia Anica ("a volte mi sento all'improvviso proprietà di qualche altra cosa") o la lettera di rottura con la fidanzata Ophélia Queiroz in cui sostiene che il suo destino appartiene ad altra legge, con la elle maiuscola.
Con lui la concezione di letteratura come finzione, come mondo altro, alternativo, acquista una radicalità assoluta perchè la prima e vera finzione è l'autore in carne ed ossa, semplice medium, veri sono gli eteronimi, cui presta la penna.
Nel mondo greco il poeta era la bocca del dio, era entusiasta (letteralmente: Dio è in noi), poiché prestava il proprio corpo e la voce al dio. Pessoa va oltre.

Pessoa è vano inquisitore di se stesso. Guarda dentro di sé e non può capirsi. Il suo vero io non è qui, ma altrove e non in forma univoca e stabile. Se non c'è un' essenza Pessoa che lo definisca con certezza in quanto Pessoa, forse egli è mezzo per altro o per altri, che rappresentano il vero sè che è multiplo, plurale, variegato.
Il medium Pessoa rappresenta l'autore assente o l'autore filtro che presta una penna, dei fogli di carta ed un'arca da biancheria ai suoi eteronimi per depositarvi le loro fatiche letterarie. L'arca, quasi fosse una bottiglia gettata nel mare del tempo, è la porta da cui passa il mondo mirabilmente artificiale della letteratura, vario, multiplo, inconoscibile, forse senza Dio, oppure con un Dio di problematico avvicinamento. La finzione letteraria, più di ogni altro genere, esprime il nostro rapporto fittizio con il mondo, come confermato dai versi "Il poeta è un fingitore. / Finge così totalmente / da fingere che è dolore / il dolor che davvero sente".
Al bando il narratore onnisciente, al bando il flusso di coscienza, l'artificio della finzione letteraria si sparpaglia nel mondo basta che ne abbia l'occasione, diventando eco nella realtà di un mondo perduto, al di là di tutti gli universi e di tutte le divinità, dove vivono gli alter ego di tutti noi. Così un uomo diventa una letteratura.

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Paolo Di Stefano
Non luoghi


Viviamo nella “surmodernità”, e la “surmodernità” produce non-luoghi. E’ questa l’opinione dell’antropologo francese Marc Augé. Secondo lui, i “non-luoghi” sono gli spazi anonimi della contemporaneità in cui si annullano le coordinate di spazio e di tempo. Non-luoghi sono le autostrade, gli autogrill, i villaggi turistici, i parchi-gioco, gli aeroporti, le catene alberghiere, quegli spazi che non riescono a incidere sulla nostra identità né sul nostro rapporto con gli altri. Si sa che cambiando la cultura, cambiano anche i luoghi topici della letteratura: se a Dante può capitare di intravedere il profilo di Beatrice in chiesa, oggi sarebbe pressoché impensabile per uno scrittore situare l’incontro tra due giovani in Santa Maria Novella o in Santa Croce. Così, sarebbe improbabile pensare al salotto quale luogo di avances amorose, come fu per Zeno Cosini. La letteratura italiana più recente ha metabolizzato i non-luoghi del nostro tempo, integrandoli spesso come scenari di romanzi e racconti. E’ dunque un peccato che un volume appena apparso, Luoghi della letteratura italiana (a cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi, editore Bruno Mondadori, pagg. 397, euro 24), ne tenga conto solo parzialmente, anche se è vero che i curatori hanno l’accortezza di escludere subito l’ambizione di essere completi. Qualcosa dei non-luoghi, pur tuttavia, c’è. Come alla voce "autostrada”, dove giustamente si segnala la “Tangenziale dell’Ovest” presente in una poesia di Alda Merini, l’ "Autosole” di Lucarelli con le macchine in coda eterna, il “Grande Raccordo” di Lodoli, dove “un camion vale l’altro” e la fuga autostradale raccontata da Gabriele Romagnoli nel romanzo In tempo per il cielo. Si sarebbe potuto aggiungere almeno un altro Lucarelli, scelto tra Un giorno dopo l’altro (con un killer in viaggio lungo un’ "autostrada nera”) e Falange armata (che anticipò le vicende della Uno Bianca). Ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta.
ll non-luogo “autostrada” connette spesso altri non-luoghi. Permette di raggiungere un aeroporto (sempre in Lucarelli) o una discoteca, non-luogo per eccellenza della gioventù. Nel suo ultimo romanzo, Eccetera, Emilio Tadini ha raccontato tanti di quei non-luoghi che c’è quasi da perdere la testa. E in realtà la perdono, la testa, molti suoi personaggi. Il primo non-luogo di Eccetera è la macchina (“un disastro a motore”) su cui viaggiano quattro giovani per una notte intera. C’è la Light Night, la discoteca che vorrebbero raggiungere. C’è la strada buia percorsa da Toro Seduto e dalla sua scalcinata banda di amici. C’è anche un non-luogo dell’etere che è Radionotte notte, dove ogni dialogo tra il dj e il suo pubblico è assenza e vuoto. Per la verità, Tadini è un esperto di non-luoghi: si pensi alla periferia milanese raccontata ne La tempesta, erede ormai annichilita della marginalità sociale ma umanissima narrata da Testori. E poi ci sono altre discoteche, nella narrativa italiana recente, che andrebbero prese in seria considerazione: per esempio quelle di Giuseppe Caliceti in Fonderia Italghisa, ex capannoni industriali sulla via Emilia. E’ un vero peccato che il volume non contempli la voce “discoteca”. Ma più che un peccato è un errore che la voce “strada” si fermi a Pasolini. Sì, perché a pensarci bene la strada non è più solo quella dei celebri “ragazzi” di borgata. Ancora Lodoli (in Crampi) e, più di recente, Mauro Covacich (in A perdifiato) l’hanno narrata come tapis roulant su cui si sfoga la smania, tipicamente postmoderna, del correre: il non-luogo del footing e delle maratone. Mentre Margaret Mazzantini apre il suo Non ti muovere con un tragico incidente stradale in motorino (e non bisogna dimenticare che nello stesso romanzo compare, più in là, anche l’autostrada come scenario di morte). In aeroporto, si sa, ma anche in aeroplano, si muovono molte delle creature di Daniele Del Giudice (da Atlante occidentale a Staccando l’ombra da terra). E Roberto Alajmo racconta il tragico volo del DC9 che nel ’78 si schiantò a poche centinaia di metri da Punta Raisi. Che i non-luoghi abbiano detronizzato i luoghi letterari della tradizione? Non è escluso.
Se è giusto che in un ideale “atlante” vengano ricordate le industrie di Volponi e Ottieri e le varie banche come “luogo dell’annullamento della persona in una funzione meccanica e frustrante” (da Verga a Rugarli, da Svevo a Pontiggia), perché tralasciare il supermercato, diventato spazio letterario almeno da quando Ian McEwan, nel suo celebre Bambini nel tempo, ambientò proprio in un supermercato di periferia la misteriosa sparizione della piccola Kate mentre suo padre Stephen era intento a svuotare il carrello alla cassa (una vicenda analoga viene narrata da Emmanuel Carrère ne La settimana bianca, in cui la colonia per bambini è interessante esempio di non-luogo da turismo di massa) . Ecco dunque i pulp. Ecco Aldo Nove, che in Puerto Plata Market mette in scena un protagonista incantato dalle Merci e perennemente attratto dall’idea di andare a fare la spesa all’Ikea di Cinisello Balsamo. Ecco un altro quarantenne, Andrea Canobbio, che affolla Padri di padri di autogrill e centri commerciali. Ecco Dario Voltolini, ecco Tiziano Scarpa. Anche qui, c’è l’imbarazzo della scelta. E’ cambiata la geografia metropolitana. La periferia ha vinto. Il sottosuolo anche, ma non è certo quello dostoevskiano. Sempre a proposito di non-luoghi: Giuseppe Culicchia in Ambarabà passa in rassegna ventuno passeggeri in attesa di un metrò non troppo immaginario di una città qualunque, “solida, liquida, gassosa” come tante, anonima di luce al neon. Anche la geografia domestica, come si diceva, è un po’ cambiata. Il salotto è quasi scomparso come centro di discussione familiare. Resta, eventualmente, come sede del televisore. Il bagno c’è, eccome: dal cesso entrano ed escono diversi personaggi “splatter” di Ammaniti, Scarpa, Nove, Luttazzi. La buca è il titolo di un racconto memorabile di Antonio Moresco e ne La discarica il protagonista di Paolo Teobaldi finisce per rigenerare la propria identità. E c’è anche la camera. Più che la camera da letto, la cameretta da eterni adolescenti in cui si trova sempre acceso un video (“Cara, ti vedo verde, sarà il terminale”, scrive Voltolini). Video, o meglio prateria disincarnata del cyberspazio, che è, a sua volta (ma senza necessariamente andare nella fantascienza), un non-luogo di storie (o non-storie) per antonomasia: chi non ricorda il racconto Evil Live di Del Giudice, dove si immagina che una novella lanciata in Rete diventi sperimentazione estrema della lotta tra Bene e Male? Succedono cose strane: se alle origini della nostra letteratura le storie d’amore più angelicate e metafisiche nascevano in luoghi reali (strade, giardini, chiese, palazzi) diventati metafore, oggi le storie d’amore più carnali possono nascere nello spazio più astratto possibile che diventa corpo: per esempio via blog (lo sa bene Francesca Mazzuccato, che nel suo Diario di una blogger racconta una storia di desiderio e di passione in fondo poco virtuale), ultimo luogo-non-luogo ammesso in letteratura. Per il momento.

NOTA

Paolo Di Stefano è nato ad Avola nel 1956. E’ giornalista culturale al Corriere della Sera.
Oltre a studi di argomento filologico e letterario, ha pubblicato nel 1990, con Scheiwiller, la raccolta di poesie Minuti contati, nel 1994 il suo primo romanzo Baci da non ripetere (Premio Comisso) e Azzurro, troppo azzurro (1996), entrambi con la casa editrice Feltrinelli, quindi Tutti i nostri mercoledì, una lunga intervista a Giulio Einaudi, con la casa editrice Casagrande. Nel 2001 ha pubblicato ancora con Feltrinelli La famiglia in bilico, un reportage italiano, e nel dicembre 2003 Tutti contenti.

Intervento pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2005)
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Sandro Boccardi
Monteverdi e il Vespro di Natale


Da Monteverdi a Bach
(…) La Fuga in fa diesis minore del Secondo Libro del Clavicembalo ben temperato di Bach ricorda (casualmente? volutamente?) la cellula ritmico-espressiva del celebre Lamento d’Arianna: "Lasciatemi morire": un “topos” monteverdiano quant’altri mai carico di suggestioni emotive.
Possiamo chiederci: c’è un superiore destino in grado di modellare l’esistenza degli uomini di genio e stabilire fra loro affinità di percorso?
A distanza di più di un secolo la vita di Claudio Monteverdi (Cremona 1567- Venezia 1643) e quella di Johann Sebastian Bach (Eisenach 1685-Lipsia 1750) a noi sembrano scorrere parallele.
Notiamo tre fasi esistenziali comuni. La prima in cui i due musicisti sono impegnati nel repertorio da chiesa, che per Monteverdi significa l’esordio compositivo con i mottetti delle Sacrae cantiuncolae licenziate all’età di quindici anni sotto la guida di Marc’Antonio Ingegneri, suo insegnante e maestro di cappella nel duomo di Cremona, e per Bach l’apprendistato organistico da Lüneburg a Weimar. La seconda fase segnata dal servizio di corte e dalla produzione profana (musica d’intrattenimento e madrigali di Claudio Monteverdi per il duca di Mantova; pagine strumentali di Johann Sebastian per la corte di Köthen). E infine una terza che costituisce per entrambi un ritorno alla prima e che vede i musicisti impegnati nel repertorio sacro-liturgico: come maestro di cappella della basilica marciana l'italiano e il tedesco come Kapelmeister presso la chiesa di San Tommaso a Lipsia.
Da notare poi una più sostanziale affinità di metodo che consiste nel fatto che sia Monteverdi che Bach utilizzano di frequente a uso liturgico precedenti lavori profani: cantate l'uno, madrigali l'altro. E mai il contrario.
Così l'amore terreno, il sentimento umano, il patire e il gioire degli uomini, sembrano idealmente collocarsi nella prospettiva del sacro, al modo che la "selva selvaggia aspra e forte" è la via verso la meta finale del viaggio dantesco. Il travestimento spirituale, la parodia (come si dice in gergo musicale) diventa insomma l'omaggio - il solo possibile - che l'uomo con la sua sensibilità limitata e contingente rende, attraverso l'espressione dell'arte, all'Essere superiore.

L’uomo Monteverdi

Ci siamo spesso domandati che uomo fosse Monteverdi. Il ritratto che vorremmo tentare si affida a qualche congettura, che meriterebbe di essere approfondita.
Illetterato ("Omo sanza lettere" come diceva di sé Leonardo), sgrammaticato, geniale, figlio della terra cremonese, animo contadino, forte, scontroso e ombroso: non ha la "parlantina" sciolta dei toscani come Rinuccini che riescono a farsi valere e a farsi pagare dall’economo ducale di Mantova. Lamenta le promesse del duca Vincenzo Gonzaga non mantenute, i ritardi, i privilegi concessi solo a parole, l'affaticamento per il troppo lavoro. Il padre, di professione cerusico (uomo appena abbiente), a giudicare da una lettera pervenuta in cui perora la causa del figlio che non vorrebbe più tornare a Mantova , scrive in modo più appropriato di Claudio, che usa invece grafie diverse per una stessa parola e talora s’ingarbuglia tra verbi e sintassi.
Però sentiamo che è geniale ciò che sta sotto le espressioni epistolari, e ci domandiamo se quel limite, quel muro contro cui cozzare, quelle fatiche dello scrivere e dell'esprimersi non siano il segno della lotta del genio contro l’inerzia bruta della materia. E non sia anche per contrappasso la rivincita contro le regole dei pedanti senz’anima, e il modo di far emergere il nuovo che altri non vede e non sente: cioè quella seconda prattica dell'estetica monteverdiana (enunciata dal fratello Giulio Cesare nella prefazione degli Scherzi Musicali del 1607), un'estetica che metta l’orazione (la poesia) prima della musica e che vuole dipingere musicalmente gli affetti veri, il dolore, la gioia, la disperazione e la speranza con le cadenze più appropriate della melodia e del ritmo.
Crediamo inoltre che esista un legame fra il sentire di un autore e le sue origini, la sua terra. La Bassa pianura cremonese esprime, a noi pare, una dimensione orizzontale, offerta senza scampo ai freddi nebbiosi dell'inverno e alle calure estive, con un paesaggio - campi alberi rogge coltivi - che narra soprattutto la condizione storica di un lavoro di generazioni ciclicamente speso per educare la natura e trarne frutto e che ha temprato nei secoli un carattere insieme volitivo e rassegnato, servizievole eppure sotterraneamente ribelle verso l’ingiustizia e la fatica.
L’epistolario monteverdiano è a questo proposito una spia. Oltre a fatti cruciali, come l’immatura morte della moglie Claudia e della "Romanina" (la cantante che avrebbe dovuto interpretare l'Arianna, se non fosse deceduta avanti la prima, e che era stata collocata per volere del duca di lei innamorato presso la famiglia di Monteverdi e da questi trattata sino agli ultimi suoi giorni come una figlia), le lettere mostrano le pieghe del carattere per un verso arrendevole e disponibile a ogni richiesta ducale; e dall’altro insofferente della scarsa considerazione per le sue necessità primarie. Insofferenza che non manca di essere continuamente ribadita da Venezia dove finalmente Monteverdi troverà una degna sistemazione nella serenissima Repubblica.
Nel repertorio sacro monteverdiano (e pensiamo soprattutto al Magnificat del celebre Vespro del 1610) la dimensione orizzontale è spesso affidata al cantus firmus che fa da sfondo e guida, come un “tenor” fiammingo, al gioco contrappuntistica e plastico delle altre voci. Citando il gregoriano con note lunghe e di uguale valore, un poco ossessive, l’autore sembra voler esprimere il canto della propria terra d’origine e della propria anima antica.
Sono momenti in cui avvertiamo il sussurro del grembo più oscuro e materno della religione e non un semplice espediente dell’antica polifonia.
Per contrasto su questo tappeto emozionale Monteverdi innesta il gioco dei rimandi imitativi, degli echi, dei motti più scaltri delle voci soliste, le frasi accordali, le sillabazioni del salmo ‘recitato’, quasi il Cielo della Sacra Scrittura fosse da rappresentare con i colori più smaglianti fra ombre e luci e la potestà divina nel momento dell’ira con i ritmi scultorei della Battaglia: genere peraltro di moda anche nella musica organistica.
Bisogna pur dire che le conquiste della liuteria cremonese e bresciana, i colori della tavolozza strumentale che spazia dai violini ai chitarroni, dai cornetti ai tromboni, rendevano quanto mai estroverso il rito veneziano: lucente a suo modo come i mosaici d’oro bizantini. Esso era segno di distinzione civile e religiosa, una sorta di blasone pubblico per una Città che ricordava la propria potenza sui mari (ora in declino), e anche una sfida contro la liturgia più castigata che Roma imponeva.

Come è fatto un Vespro

Il Vespro è il penultimo servizio dell’Ufficio del giorno. Si celebra al cadere della sera, da cui il nome. Oltre a un certo numero di versetti e di responsori, a una lectio e una preghiera (Oremus) e una finale benedizione, esso consiste in una serie di salmi, generalmente cinque, tratti dalla Bibbia e tutti conclusi dall’aggiunta di un Gloria , ai quali fa seguito il Magnificat. Ognuno di questi brani cantati è preceduto e seguito da un’antifona.
Tra l’ultimo salmo e il Magnificat viene cantato un inno, il cui testo è in rapporto alla ricorrenza ecclesiastica del giorno. Allo stesso modo anche le antifone sono state scelte in ragione della festa da celebrare. Per il nostro programma i testi di canto gregoriano si rifanno ai primi vespri In Nativitate Domini della vigilia di Natale.
Fin dal Rinascimento si usava cantare in polifonia l’inno e il Magnificat in occasione delle feste solenni, pratica che veniva realizzata alternatim (alternativamente), vale a dire un versetto in polifonia e quello seguente in canto gregoriano, a turno.
Intorno al 1570 circa divenne prassi costante nell’Italia settentrionale cantare a più voci anche i cinque salmi. Lo stile concertato, nato qualche decennio dopo, produsse ulteriori e rilevanti conseguenze.
L’intonazione del gregoriano (cantus planus), che era parte rilevante del Vespro nel Medio Evo e nel Rinascimento, divenne accessoria e fu confinata essenzialmente alle antifone. Non solo: esse dovettero adeguarsi a una sorta di mensurizzazione per conformarsi meglio (o fu invece effetto di una sorta di imitazione?) della musica figuralis.
Inoltre la presenza degli strumentisti divenne d'obbligo a Venezia durante le maggiori solennità (tra queste, festa di prima grandezza il Natale), quando il Doge si recava a San Marco per ascoltare i Vespri. In tali occasioni era prevista l'ostensione della celebre Pala d'oro, il capolavoro di oreficeria posto dietro l'altare e ciò comportava il canto dei salmi vespertini in due chori. Le antifone successive al salmo vennero di frequente soppresse e sostituite da mottetti liberi o da canzoni strumentali, mentre il celebrante a bassa voce recitava il testo dell’Ufficio. In alcuni libri cerimoniali era fatto divieto all’officiante, pena una multa, di interrompere... la musica.

Il Vespro di Natale

I brani scelti dal Maestro Andrea Marcon ci restituiscono una probabile e assai credibile officiatura natalizia. Basandosi su studi e ricerche del musicologo Denis Stevens, il programma del concerto fa leva essenzialmente sui salmi che Monteverdi ha radunati nella Selva Morale e Spirituale del 1640. A essi si aggiungono il brano introduttivo del Vespro della Beata Verginedel 1610, vale a dire il festosissimo Domine ad adjuvandum, unico esempio del genere pervenutoci, che cita fra l’altro la Toccata avanti l’Orfeo; un brano delle giovanili Sacrae Cantiucolae del 1582, e brani strumentali e vocali di altri maestri veneziani, secondo un uso tipico non solo a Venezia.
Questi brani succedanei aggiunti “in loco antiphonae” rendono ancora più vario e festoso il Vespro natalizio. Nella visione intimista del Natale moderno, edulcorata e manichea, la presenza degli ottoni e di momenti di sfarzoso tripudio sembrano quasi fuori luogo.
In realtà - come lo stesso Bach insegna - la nascita del Redentore va salutata con l’omaggio al re dei re (Magnificatus est rex pacificus super omnes reges universae terrae, come dice un’antifona), e dunque con una musica che squarcia il buio della notte.
A Venezia, come in tutto il mondo cristiano, Natale era considerato, come già abbiamo detto, festa di prima grandezza. Ci sono pervenute lettere dei procuratori di San Marco che invitano Claudio Monteverdi a rientrare velocemente da Modena per affrettare i preparativi e la “messa in scena” (ci scusiamo di questa definizione profana eppure attinente) del Vespro e della Messa solenne di Natale.

NOTA

Sandro Boccardi, nato a Villanova Sillaro (Lodi) nel 1932, ha esordito in poesia con A dispetto delle sentinelle (1963, collana Oggetto e simbolo diretta da Luciano Anceschi, ed. Magenta, Varese). Sono seguite presso l’editore Scheiwiller La città (1965), Durezze e ligature (1967), Ricercari (1973) e Le tempora (1978).
E’ autore di un solo racconto,
 I nodi della terra (1972, ed. Galleria 32, Milano). Per Galleria 32 ha diretto la collana Il bicordo, pubblicando fra l’altro poesie di Yannis Ritsos, Günter Grass e Franco Loi.
Dal 1976 al 2006 è stato Direttore artistico di
 Musica e Poesia a San Maurizio, rassegna internazionale del Comune di Milano dedicata alla musica antica e alla poesia. E’ stato ideatore di alcuni progetti musicali, quali la costruzione del grande organo Ahrend per la Basilica di San Simpliciano in Milano (1991), e dell’esecuzione integrale delle cantate di J. S. Bach per la rassegna I Concerti del Quartetto - Settimane Bach di Milano (iniziata nel 1994).
Collabora con riviste e giornali, in particolare su temi legati alla musica ed alla poesia.

Intervento pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2006)
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